In attesa di ammirare l'ultima fatica di Isao Takahata, è possibile lasciarsi andare alle infinite suggestioni che corrono sul filo delle opere ispiratrici del Maestro. Si tratta di un viaggio attraverso gli antecedenti letterari che hanno influenzato inevitabilmente Kaguya-hime no monogatari, facendo parte del retroterra culturare di Takahata.
Nel corso di una recente conversazione, ho esposto alcune delle considerazioni presentate di seguito a Gualtiero 'Shito' Cannarsi, cui sono debitore di preziose chiarificazioni sulla storia.

Naturalmente, trattandosi nel caso del Taketori monogatari di un racconto popolare ben noto, non si può parlare qui di spoiler sulla trama del film. Se tuttavia ignoraste il racconto e non voleste anticipazioni sul senso (e sul finale) della storia, è bene che desistiate dalla lettura.
Sperando di farvi cosa gradita, vogliamo invitarvi così, in questo modo particolare, alla visione. Vi ricordiamo che il lungometraggio verrà proiettato in occasione di Lucca Comics 2014, domenica 2 novembre, con un'introduzione proprio a cura di Gualtiero Cannarsi, che della pellicola ha curato l'adattamento per l'Italia.

Per iniziare, ci allacciamo al tema portante del film, all'ascendente quasi diretto: il racconto popolare nipponico del X secolo Taketori Monogatari.
Da un canneto, su un canestro, nacque la discendenza mosaica. Da un canneto, molto più ad est, nell'Oriente Estremo, comincia la storia di Kaguya-hime. È la vicenda di “Okina”, un umile tagliatore di bambù, e di una bambina delle dimensioni di un pollice, da lui rinvenuta all'interno del fusto di una canna. La piccola viene allevata da Okina e dalla moglie (“Ona”), quest'attempata coppia senza prole, che ben presto ha modo di convincersi della 'genealogia divina' della figlia adottiva: che vi sia qualcosa di ultraterreno ('ultraterrestre' in realtà) nella creatura è testimoniato dai sistematici ritrovamenti di pepite d'oro dentro i fusti di bambù recisi da parte del buon Okina*.
[* Okina ed Ona non sono nomi propri, ma nomi comuni per “Anziano” e “Signora”]
La principessa cresce in età e grazia, tanto da attirare, ormai divenuta donna, l'inevitabile stuolo di pretendenti. “Dicono storie di principesse / chiuse in castelli per troppa bellezza”. Kaguya non ha bisogno di nascondersi, sa difendersi chiedendo l'impossibile.
Senza alcuna consapevole malizia, la principessa riesce persino a “stanare la tigre della montagna”: l'Imperatore del Giappone, di fronte al rifiuto della fanciulla di recarsi al suo cospetto, si reca infatti a visitarla. Qual è il movente profondo del disdegno di Kaguya? Non è fiero sdegno, né un altezzoso contegno, ma una ferita confitta nel petto: il suo essere-di-un-altro-mondo. La malinconia di Kaguya prende la forma dei sospiri rivolti ai raggi d'argento.
La principessa viene nientemeno che dalla Luna. Il suo regno non è di questo mondo. Il suo nome vuol dire “notte splendente”, ed è alla notte che il suo splendore deve tornare.
Il pianto dei genitori, i ricordi dei legami amicali, le memorie terrestri, tutto è cancellato tra le pieghe di una veste, condotta dalle schiere celesti venute infine a riprenderla, nel giorno estivo designato dal fato.
Cos'è la separazione? Il dolore della memoria, che si fa desiderio lancinante di ripetere l'incontro, di risospingere al largo le onde dell'oblio. Kaguya-hime no monogatari, come il suo millenario progenitore letterario, è la storia di una perdita irrevocabile. Del morire al mondo morendo alla memoria. Del congedarsi dall'esistenza terrena come se questa fosse stata un battito di ciglia. Un sogno, di quelli che al risveglio si dimenticano, lasciando dietro sé un senso di vuoto — peggio, un vuoto di senso.
Se pure, per un istante, come Kaguya al termine del viaggio, ci voltassimo indietro, verso la Terra, verso lo yin, verso la notte... non vedremmo che le lacrime impigliate tra le ciglia, senza poter impedire che scorrano via.
 
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Così, tornare alla dimora immortale è la fine della vita, ma non il fine della vita. Perché la vita sulla Terra è un essere-per-l'amore-e-per-la-morte. Essere comprende il rischio della separazione. Sui mortali incombe lo spettro, il trauma dell'abbandono, sotto il cui peso insostenibile crollano Okina e Ona. Ma che ne è della Kaguya del racconto popolare nella storia di Takahata? Cosa comprende la principessa del suo destino? Probabilmente ne coglie tutto il doloroso significato, sente la contraddizione tra la propria origine celeste e imperturbabile (il regno dell'atarassia) e l'ancora più propria appartenenza elettiva — la vocazione terrestre, passionale, emozionale.
Da un lato l'immutabilità del mondo lunare (la città dei Seleniti), il dominio dell'anti-vita, dall'altro il flusso incessante della passione terrena, la lotta della vita e per la vita. Da una parte il buddhismo, la negazione della volontà, il contravveleno delle passioni, dall'altra lo shintoismo, l'animalità e la vitalità diffuse nel creato. Come fattomi notare da Shito, Takahata, in un dialogo col compianto doppiatore di Okina (Takeo Chii), convinse quest'ultimo a doppiare il film proprio assicurandogli che non sarebbe stata un'opera contro la vita. Takahata è dalla parte della vita, non della triste rinuncia al mondo.
Kaguya, nel suo tornare in cielo, nella sua 'assunzione', vive un tragico destino di perdita di ciò che di più prezioso possa esservi: la catena delle emozioni.    
Il Taketori monogatari è forse storia di derivazione sino-tibetana. È la storia, abbiamo detto, della discesa di una creatura celeste tra i mortali. Di una caduta, quasi quella di un angelo. O piuttosto la storia di un sogno che si desta dentro sé stesso? Il sogno fa parte della vita. Voler lasciare la vita per un sogno, fosse anche una dimora immortale, è perdere la vita assieme al sogno.

“Zhuangzi sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Dopo essersi svegliato era confuso, si domandò come potesse determinare se era veramente Zhuangzi che aveva appena finito di sognare di essere una farfalla o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi”.

E veniamo così al secondo riferimento letterario. Il dolore si fa spesso poesia. La poesia del dolore è canto sospeso alle fronde dei salici, una delle vie non contemplative per sottrarsi alla maliconia.
Alla sensibilità ineffabile di un personaggio in esilio dalla propria impassibilità, di una fanciulla gettata nella terrestrità delle emozioni, fa eco un componimento di rara potenza espressiva.
È il componimento numero 16 dello Ogura Hyakunin Isshu, raccolta di waka di epoca Heian (l'antologia è alla base del popolare gioco di carte karuta). Gli ultimi due versi della poesia ritornano nel tema portante del film, Tennyo no Uta (La storia della fanciulla celeste): matsu to shi kikaba / ima kaeri kon.
Ma sarebbe un peccato non rileggere insieme l'intera lirica di Ariwara no Yukihira.

立ち別れ
いなばの山の
峰に生ふる
まつとし聞かば
今帰り来む

Tachi-wakare
inaba no yama no
mine ni ouru
matsu to shi kikaba
ima kaeri kon

  
Anche s'io dovessi partire
per il monte Inaba,
famoso per i pini
che ne vestono la sommità,
se sentissi che mi si attende
ora a ritornar verrei*.

[*per una traduzione più puntuale degli ultimi due versi, in cui manca l'espressione esplicita dei pronomi personali, si ringrazia la segnalazione di Gualtiero Cannarsi]
Non c'è più dubbio che si parli qui di un'emozione lacerante. Ma cosa ha a che vedere il waka col film di Takahata, e perché vi interviene? Precisiamo che i versi appaiono nel lungometraggio alla fine di una filastrocca per bambini. L'ambiente in cui è calata la vicenda di Kaguya è una società di raccoglitori. Nelle canzoni viene narrato il ritmo delle stagioni, e così è per la cantilena intonata dai bimbi, che invita le ruote del mulino ad acqua a richiamare il sole, e si rivolge agli uccelli, agli insetti, alle bestie feroci, agli alberi, ai fiori... Kaguya trasforma il finale della canzone, e ne propone la versione lunare. Di cosa ha nostalgia? Di ritornare dove? Alla Terra. È la nostalgia di un'altra abitante della Luna, una selenita 'caduta' prima di lei sul nostro pianeta per poi venirne strappata, e desiderosa di ritornare ad esso. La Terra, l'amore, le emozioni, mettono dentro una mancanza struggente, un desiderio imperioso di riunione, di scongiurare la separazione.
 
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E lacerante per l'animo della principessa è il ritorno a una dimora distante anni luce. Un ritorno che non sarà senza pianti, perché, dialetticamente, il ricongiungimento con l'origine coinciderà con il distacco dagli affetti del soggiorno terreno. L'apparente ritorno è in realtà una partenza. O addirittura una dipartita. Un (involontario? inconscio?) suicidio. Sto male sulla Terra perché non posso restarvi, dunque, scaccio il male col male, separandomi dal cuore, dalle emozioni terrene, dal vivere per poterle vivere — ma questo non può funzionare.
La mancanza è inestinguibile. Forse perché l'oggetto del desiderio nostalgico è inattingibile, anche se raggiunto? “A Kyoto sento nostalgia di Kyoto”, o qualcosa di simile?
Oppure, più semplicemente, il desiderio è sempre mancanza, è la mancanza scavata dall'Altro nel nostro cuore. L'Altro non è mai il luogo, ma ciò che il luogo evoca e trascina con sé: sono le gocce trascinate dalla piena dell'onda, dal movimento cieco della vita.
È un caso che sia proprio la Luna a trascinare le maree? L'universo sarebbe morto senza la legge d'attrazione, senza il desiderio incessante di sedurre e sollevare dal peso dell'esistenza. È un caso che desiderio significhi “ciò che discende dalle stelle”? De-sidera, dove il de- privativo viene in notturna a derubarci di qualcosa: è, con un'etimologia creativa, la mancanza di stelle. Di una stella. Magari di un astro d'argento. Ma Kaguya non vuole la Luna, la sua luna è qui, tra le cose che hanno un peso, nel regno di ciò da cui è grave e greve involarsi, come palloncini smarriti. Così, ciò che sembra sollevare dal dolore, in realtà lo scava. Kaguya si aggrappa disperatamente alla vita. Non è un caso che l'elemento femminile, terrestre, sia distinguibile per la sua capacità di fare da acqua e da suolo, di contenere, di accogliere. Di impedire che il vuoto degli spazi ci inghiotta.

Ma ascoltiamo la Tennyo no Uta.

Maware megure megure yo
Harukana toki yo
Megutte kokoro o yobikaese.


Gira, gira, gira,
o tempo lontano,
fai il giro e richiama il mio cuore.

Nella mancanza il cuore si smarrisce. È il tempo a portarselo a spasso. Il cuore è un gomitolo: come nel gioco Fort/Da del bimbo freudiano, gode e si dipera facendo avanti e indietro. E così, malinconici e frastornati, siamo 'presi in giro' dal tempo. Presi nel giro e frastornati dal vento, dimentichi del nostro cuore. Se non ci fosse la mancanza a ricordarci che ogni circonferenza ruota attorno a un “centro indubitabile”, sotto una legge di gravitazione universale, che potrebbe prendere la forma dei versi del waka, della strofa di Kaguya:

Si j'entends que tu m'attends
Je reviendrai vers toi.


In traduzione francese l'assonanza rende meglio l'idea. L'intendimento che si richiede non è solo la comprensione, ma è il tendere l'orecchio verso qualcosa, verso un'attesa. L'at-tesa ha in sé il concetto di tensione.
Per ascoltare cosa? Gli spifferi di vento tra i pini. Anche. Ciò che il vento porta con sé? Soprattutto. Il vento è la voce della lontananza, quella del tempo perduto, da ritrovare nell'eternità di un istante. La durata è fuggevole, ma il momento è per sempre. Così, il momento in cui si intende la voce del cuore dell'Altro parlare nonostante distanze siderali è un'illuminazione. Ci piace immaginare che le cime del monte Inaba accompagnino una rivelazione, uno stormire nel silenzio dell'oscurità. La durata, l'eternità dei Seleniti è fuggevole. Il momento, la caducità dei terrestri è per sempre. Kaguya intuisce “con animo perturbato e commosso” tutto il peso di questo paradosso temporale.
 
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Vogliamo infine tornare alla Cina. Qualcosa si sa (lo sa naturalmente anche Takahata) sull'origine continentale del Taketori monogatari.
Ma partiamo da lontano. Il racconto sarebbe collegato all'antica leggenda cinese della dea della Luna, Cháng'é. Fu lei che condusse il leggendario coniglio sul pianeta d'argento, per ringraziarlo di essersi immolato tra le fiamme per soccorrerla.
C'è chi si è spinto oltre, nelle fantasie sul candore lunare. La veste indossata da Kaguya-hime durante l'ascensione è un hagoromo (羽衣, 'veste di piume'), per cui perché non trovare un'assonanza tra la Principessa splendente e Il lago dei cigni? Sbianchiamo per lo stupore, ma niente è impossibile all'arte. Ed in effetti, gli archetipi occidentali ed orientali si fondono nell'inconscio collettivo.
Il mito della 'fanciulla cigno' narra del furto di una veste piumata. Nel tòpos, un giovane sottrae una veste magica fatta di piume di cigno ad una fanciulla vergine, in modo che lei non voli via, ma piuttosto convoli a nozze col ragazzo. Nei miti norreni Weland il fabbro sposa una ragazza cigno. Nel balletto di Čajkovskij la trasformazione di Odette in cigno è frutto di una stregoneria.

Più vicina al Taketori, per tornare agli antecedenti di Takahata, è la collezione di storie Hagoromo densetsu. Nello Ōmi-no-kuni Fudoki un uomo invia il suo cane a rubare gli hagoromo di otto tennyo dedite alle abluzioni, sperando di prenderne una in sposa. Ma la veste smarrita più famosa è forse quella della settima figlia dell'Imperatore di Giada nel Tian Xian Pei, leggenda da cui deriva quella giapponese di Tanabata: Orihime, senza veste, non può tornare alle sedi celesti, ed Hikoboshi, autore del furto, ne diviene l'amante amato. I due, però, si sa, vengono divisi da un'intera galassia, e possono sottrarsi al crudele destino solo un giorno all'anno. Guarda caso, d'estate.
Vesti indossate per tornare in cielo, o dismesse, più o meno avventatamente, per restare avvinti alle passioni terrene. I lettori di shoujo manga avranno rivolto più di un pensiero ad Ayashi no Ceres. Ceres, anche lei, è una “tennyo che scese sulla Terra”. Molte di loro trovarono l'amore. Forse era ciò che cercavano da sempre. La 'caduta' sulla Terra, la dannazione, la tentazione, è in verità una benedizione. La principessa Kaguya, tra le prime fanciulle cadute, non può sottrarsi al suo destino: la rinuncia al bene (e al male) terreno. L'empireo, col suo immortale silenzio mortifero, la sottrae alla voce rumorosa dei sentimenti umani. Le emozioni umane non sono sporcizia, lo urla forte la ragazza. Le 'tentazioni' umane non sono il nulla, il non-essere, il male. Contro il platonismo dei Seleniti, per cui il vero essere è immobile, statico, parmenideo, le fanciulle 'cadute', le ragazze che si accostano alla potenza del desiderio, ne mostrano la natura deliziosamente imperfetta, in continuo divenire, fatta di mancanza struggente, di separazione e riunione. Ricongiungimento a un amore doloroso come il soffio del vento tra i pini, come il pianto di due genitori abbandonati, al perduto Sutemaru. Tutto sta nel mettere in parola i propri desideri, nell'esprimerli. Alla domanda d'amore, risponderà l'appello capace di colmare la mancanza. A questo serve l'amore. A questo serve la vita. Sebbene i Seleniti non capiscano, sotto i loro occhi (invidiosi?) Kaguya muore d'amore e di vita.

Il rimpianto ai celesti non è dato. A meno che non accettino di cadere, di inciampare sulle mortali malinconie, tra cui si annida, disperato, il cuore. La benedetta maledizione del desiderio è solo di questa Terra. Per questo Kaguya desidera esserci. Ci saremo anche noi, che ascolteremo la sua storia.