Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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7.5/10
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Avviata nel 2018 in seguito alle dimissioni di John Lasseter, i due Classici Disney usciti nell’appena trascorso 2021 si possono considerare di fatto i primi veri prodotti della gestione Jennifer Lee, la regista e sceneggiatrice che con l’inconcepibilmente mediocre Frozen (2013), ha spazzato via ogni record precedente per un film d’animazione, e per incasso e per impatto culturale, guadagnandosi senza dubbio la sua attuale posizione di Chief Creative Director dei prestigiosi Walt Disney Animation Studios. Eppure tra Raya e L’ultimo Drago ed Encanto le differenze non potevano essere più marcate, a partire dalle due protagoniste, la guerriera pacifica senza macchia e senza paura da una parte, la comunissima e insicura Mirabel dall’altra; inutile dire che ad emergere è la seconda, più in linea con la New Wave Disneyana, che punta a normalizzare e umanizzare i personaggi, destrutturandone stilemi ormai stantii, Raya invece ha faticato a imporsi con il suo world building fin troppo soffocante per una singola pellicola, che forza la mano verso un'esperienza epica seguendo l’evidente scia di Mulan, dimenticandosi però in corso d’opera di dare anima ai suoi personaggi.

Alla regia di Encanto ritroviamo uno dei due director del brillante Zootropolis (2016), ovvero Bryon Howard, già regista di Rapunzel (2010), affiancato da Jared Bush, quest’ultimo anche scrittore di Oceania (2016), i quali riprendono alcuni degli elementi ricorrenti della loro filmografia, di ruoli e di condizionamenti imposti, restringendo lo scenario da una società solo apparentemente inclusiva ("Zootopia") ad un contesto famigliare, proseguendo tale itinerario con una nuova variazione sul tema che, grazie ad sua confezione esotica e trascinante, si rivela anche una delle più ispirate e riuscite degli ultimi anni. Il Classico numero 60 di Disney si inserisce nel filone dei musical distanziandosi tanto dagli stilemi delle fiabe ad alto tasso di zucchero e principesse, quanto dal genere avventuroso, preferendo invece un approccio più intimista tramite l’esposizione di “normali” problemi, timori e incomprensioni verso cui è più facile immedesimarsi.
Mirabel è la penultima genita di una famiglia dotata di straordinari poteri, dei “Talenti” che vengono conferiti ad ogni suo membro in giovane età da una porta magica. Ma nel momento in cui la piccola Mirabel tocca il pomello della porta, questa, per la prima volta, si dissolve sotto i suoi occhi e quelli attoniti di Abuela Alma Madrigal, la matriarca della famiglia che cinquant’anni orsono ha ricevuto il “miracolo” incanalato in una candela. Da allora sono passati diversi anni, giunge così il momento in cui Antonio, cugino di Mirabel, deve ricevere il suo Talento, con la diffusa preoccupazione che anche nel suo caso possa ripetersi quanto successo l’ultima volta; fortunatamente le cose non andranno così e il piccolo Antonio riceve il suo straordinario potere, ma il Miracolo dà segni di cedimento e di questo se ne accorge Mirabel.

Howard conferma nuovamente le abilità finora dimostrate in pellicole di ambientazioni non troppo lontane nel tempo (il film è vago sulla collocazione temporale, ma si può presupporre che siamo nella Colombia della prima metà del ‘900, dopo la cosiddetta Guerra dei mille giorni), trasferendosi questa volta in una cornice sudamericana, che appare in effetti del tutto congeniale al consueto approccio da commedia esotica tipica di una Disney più diretta e meno pretenziosa; di interessante c’è questa dimensione sociale del racconto, da cui Encanto fa emergere i comportamenti e le dinamiche di un contesto famigliare di metà novecento, nel quale dietro un inseguito quanto inerte bisogno di stabilità si cela in realtà un certo opportunismo, ben rappresentato dal personaggio di Abuela, che in certi frangenti si esprime quasi come un capo mafia nel suo continuo parlare di “potere da rinforzare”. I Madrigal sono numerosi, procreano a ritmo di tre (tre figli per Abuela e tre a testa per le sue due figlie Julieta e Pepa), praticamente come una famiglia medio borghese degli anni ’50 segue l’assunto secondo cui “più figli, maggiore stabilità economica futura” che in questo caso si figura nei rispettivi Talenti, una mentalità totalmente agli antipodi da quella di oggi, in cui va di lusso fare il primo, e spesso unico, figlio a 32 anni.
Tale peso di pressioni e aspettative ricade sulla terza generazione, in particolare sulle due sorelle di Mirabel, Luisa e Isabela, una in grado di rompere e sollevare qualunque cosa con la sua forza, l’altra bellissima e perfetta con la capacità di creare a suo piacimento petali e fiori. A dispetto della sua apparenza sempre allegra e positiva, Mirabel non nasconde allo spettatore, tramite la sua canzone (Waiting on a Miracle) ma anche gli sguardi (specie verso Isabela), di provare una certa invidia nei confronti dei suoi parenti, così utili alla comunità e amati da tutti, ma ben presto scoprirà che sotto le apparenze si celano sentimenti di insicurezza e ansie represse.

La parola talento deriva dal greco tàlaton, ossia il piatto della bilancia con il quale si misurava il denaro, richiamando quindi al concetto di ricchezza, ma anche di peso, quindi responsabilità, non è un caso infatti se nella sequenza musicale di Luisa, Surface Pressure (la migliore del film, We Don’t Talk About Bruno la più trascinante), appaia proprio una bilancia a raffigurare il suo stato d’animo, insieme agli asini, l’animale da lavoro per eccellenza. La comunità di Encanto sfrutta Luisa proprio come un asino per ogni tipo di lavoro, non lo fa con malizia ma inconsapevolmente, poiché è così che è stata abituata dal “sistema” autarchico e di incondizionato altruismo eretto da Abuela, deresponsabilizzando presumibilmente gli abitanti dalla maggior parte dei lavori forzati (“ho le spalle larghe quindi cosa importa?”) e condannando Luisa al timore di cosa accadrà e cosa sarà di lei, nel momento in cui la sua forza non sarà sufficiente ad aiutare qualcuno. Con questo personaggio la Disney animata (taciamo sui live action), sempre attenta ai temi attuali, gioca sullo stereotipo della “donna forte” che porta ad un livello estremo evitando però di idealizzarlo (al contrario dalla monocorde e noiosa Raya), donandole una caratterizzazione più umana e per questo non priva di fragilità, anche se la perdita della sua forza nella seconda parte del film diviene nulla più di un espediente per un elemento comico aggiunto.
C’è da dire che Encanto va a correggere uno dei tanti difetti dei due Frozen (oltre alla scrittura senza senso, personaggi inutili come Kristoff, le gag di una mascotte petulante inserite a caso per tenere svegli i bambini e via discorrendo) e in misura minore Oceania, ossia la distribuzione delle canzoni, che tendevano a concentrarsi quasi tutte nella prima parte, appesantendola non di poco, mentre qui sono collocate in modo molto più omogeneo nel corso della pellicola, posizionandosi nei tempi giusti e per i motivi giusti.

Dopo Luisa abbiamo l’altra sorella, Isabela, che rappresenta idealmente l’archetipo della Principessa Disney d’altri tempi, perfetta nei lineamenti e sempre pettinata, come evidenziato da Mirabel in uno dei suoi lamenti; se Encanto fosse uscito nel 1994 lei sarebbe stata la protagonista della storia, ma anche nel suo caso, sotto la superficie, si trova una personalità imprigionata in un ruolo imposto, come nella più classica fiaba disneyana, il confronto/scontro con la sorella diviene quindi la cagione di un percorso di autodeterminazione, facendo crollare il suo fragile castello di petali, falsi sorrisi e pretendenti indesiderati. Nella sua figura possiamo vedere anche un allegoria, o meglio un monito, al mondo social e ai suoi canoni di bellezza continuamente esposti ed imposti.
È fin troppo facile liquidare la morale del film sul tipico e facilone “sii te stesso”, Encanto semmai si focalizza sulla mancanza di comunicazione e sincerità tra le mura domestiche, rimescolando le carte anche per quanto riguarda la figura, da sempre positiva e idealizzata, quando non assente, della madre (naturale, non matrigna) nei Classici Disney, i cui errori e ossessioni possono allontanare, anche se involontariamente, i figli "incompresi" come accaduto con Bruno e come stava per accadere con Mirabel.

La normale e goffa protagonista, nel suo essere un ingranaggio di un film corale, gioca quindi un ruolo determinante per un percorso di cambiamento positivo per la sua famiglia; Mirabel è l’anti-Elsa per eccellenza, verso la quale si rispecchia come l’opposto, l’unica nel suo contesto famigliare dotata di poteri da una parte e l’unica a non averli dall'altra. Al contrario della frigida principessa dei ghiacci, che se la canta e se la suona da sola su quanto sia unica e speciale, lasciando agli altri il ruolo di satelliti orbitanti intorno al suo smisurato ego, Mirabel si prefigge lo scopo di migliorare le condizioni di chi le sta attorno, con quella resilienza e capacità empatica che solo le persone migliori possiedono.

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“Onward” è il ventiduesimo lungometraggio d'animazione Pixar e al momento uno dei film meno riusciti dello studio, a mio avviso. Questo è da ricondurre principalmente al fatto che la qualità delle produzioni Pixar è sempre stata di alto livello con pochissime eccezioni, motivo per cui anche un film sotto la media come questo può comunque risultare più che piacevole.
La mia fortuna con questa pellicola è stata di essere partito con delle aspettative abbastanza basse, visto che non mi aveva attirato neanche il trailer, e alla fine l’ho visto per rimanere al passo con le produzioni dello studio, più che per curiosità nel film di per sé. Il lungometraggio ha quindi saputo regalarmi una visione godibile e con qualche spunto interessante, senza però mai riuscire a brillare.

L’idea di fondo del film consiste nell’esistenza di un mondo ibrido, simile al nostro, ma popolato da creature magiche che vivono avendo sostituito l’uso della tecnologia a quello della magia. La premessa della pellicola è quindi che la magia una volta esisteva, una magia che può e dovrebbe tornare. Questo contesto sinceramente non mi è piaciuto, soprattutto perché non ho colto quale dovrebbe essere il parallelismo con il nostro mondo e la nostra società, sempre che ci sia. Insomma, è una premessa che mi ha lasciato e ha continuato a lasciarmi indifferente. L’ambientazione quindi non mi ha convinto, anche perché alla fine risulta più banale di quello che avrebbe potuto essere. Per assurdo, il film mi ha fatto nascere la voglia di vedere un vero fantasy realizzato da Pixar e non questo misto mare. Gli altri aspetti che non mi hanno convito sono i personaggi secondari, privi di carisma, e la mancanza di una vera minaccia per la maggior parte del tempo. Nel corso della vicenda secondo me si avverte che fila tutto troppo liscio e che le cose possono andare storte solo per l’insicurezza o l’incapacità del protagonista. È un aspetto interessante, ma che secondo me non ha funzionato troppo bene.

Per quanto riguarda la trama, direi che è accettabile. L’incipit è molto semplice, ma nel corso delle vicende alcuni colpi di scena hanno arricchito una narrazione che in alternativa sarebbe stata troppo spenta. Il film gioca soprattutto sul rapporto tra i fratelli protagonisti, questi ben caratterizzati. Questo è onestamente l’aspetto che ritengo più riuscito dell’opera. Passabili gli altri temi presenti, tra cui il dramma adolescenziale del protagonista, fatto di tante insicurezze molto reali e ben poco fantasy. Sul piano tecnico il film è ottimo e su questo non c’è molto da dire, anche se pure sotto questo aspetto credo che Pixar in passato abbia saputo fare di meglio. Il lato comico ispira simpatia, ma senza eccessi.

Insomma, “Onward” è un film discreto, ben realizzato tecnicamente e con dei temi rispettabili, ma che non brilla su nulla in particolare e che alla fine mi fa nascere il quesito su perché fosse necessario questo connubio fantasy-realtà. Alla fine, gli argomenti principali della pellicola sono perfettamente inseribili in qualunque contesto più realistico, e in questo modo a mio avviso è stato un po’ sacrificato il lato fantasy, che a volte finisce per essere ingombrante nelle vicende, utile più che altro a far partire la storia. È comunque una visione abbastanza gradevole, ma che non ha saputo coinvolgermi appieno.

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Approcciarsi all’animazione occidentale non è cosa scontata, soprattutto quando, da parte del sottoscritto, è presente una discreta non conoscenza di fondo che rischierebbe, nel corso della stesura della recensione, d'intaccare negativamente la qualità del giudizio, rendendolo ancor più fallace di quanto già non sia. In effetti anime e cartoni animati sono alla fine la stessa cosa, eppure, proprio come un bislacco ossimoro, allo stesso tempo divergono notevolmente. Concetti, ideologie e culture diversificano infatti quello che all’apparenza può apparire come un semplice cartone animato, un linguaggio visivo universale per tutti, indipendentemente dalla bandiera d’origine. È dunque toccato un attento studio, nei limiti del mio (ahimè) fin troppo limitato tempo libero, per poter colmare queste mie lacune inerenti la mitologia irlandese, permettendomi così, finalmente, di giudicare un’opera non solo nei suoi aspetti meramente narrativi e scenografici, ma di comprenderne appieno i significati culturali in essa celati. "La canzone del mare", film d’animazione del 2014 di Tomm Moore, agli occhi di un bambino, ma anche di uno spettatore “distratto” (come lo ero io stesso a inizio visione), può apparire come una semplice storiella, una piccola leggenda narrata per i più piccini, priva di chissà quali psicologie contorte o di sviluppi degni di nota... eppure intrattiene egregiamente, forte del suo sottile, ma oculato, equilibrio tra narrazione e folklore.

La storia si apre con un flashback di Ben, piccolo bambino residente su un'isola al largo delle coste irlandesi insieme a suo padre Conor, che lavora come guardiano del faro, e la misteriosa madre Bronagh, incinta della futura sorellina Saoirse. Tutto sembrerebbe andare per il verso giusto, sennonché, prima di partorire, Bronagh sparisce misteriosamente tra le tempestose onde del mare, non prima di aver consegnato a Conor, come dono d’addio, la piccola Saoirse avvolta in un velo bianco. Gli anni passano, ma, indipendentemente dall’aiuto dei dottori, Saroise non riesce in alcuna maniera a parlare. Ben, d’altro canto, pur avendo compiuto dieci anni, non è in grado nuotare, e rifugge dall’acqua poiché traumatizzato dal doloroso ricordo della madre, scomparsa nel profondo oceano. Come se non bastasse, detesta la sorellina, incolpandola indirettamente del tragico lutto. Le vite dei due bambini prendono una svolta quando Saoirse ritrova il misterioso mantello bianco, lasciatole in eredità dalla madre. Conor, tormentato dal ricordo di Bronagh, accetta però, controvoglia, di allontanare i due bambini dal faro, facendoli ospitare in città a casa della nonna, non prima di essersi sbarazzato del mantello, gettandolo in fondo al mare dentro un robusto baule. Dopo varie peripezie, i due bambini scopriranno che Saoirse è in realtà una selkie, una leggendaria creatura in grado di trasformarsi in foca e dagli straordinari poteri magici. Purtroppo, però, privata del mantello, rischia una tragica morte. I due bambini, volenti o nolenti, si trovano così costretti in un lungo viaggio alla ricerca del bianco oggetto, tallonati nel mentre dai gufi della strega Macha, una malvagia creatura in grado di privare gli esseri viventi delle proprie emozioni.

I personaggi sono semplici, ma genialmente delineati. Alcuni, come il protagonista Ben e il padre Conor, rappresentano la componente più “umana” del cast, ed entrambi sono soggetti a un processo di maturazione, nel corso del film, non indifferente. Soprattutto Ben, che da piccolo bambino incapace di accettare la scomparsa della madre, comprende il proprio dolore, finendo così per accettare la propria sorellina “speciale”, e diventarne così la spalla nel corso delle varie peripezie. Altri personaggi, come la bella Bronagh, la piccola Saroise, il cane Cu e la strega Macha, sono invece puro folklore: tutti quanti sono estrapolati dalla mitologia irlandese, e s’incastrano nella storia con una semplicità disarmante, forti di una sceneggiatura lineare ed efficace. La trama, infatti, viaggia parallelamente alla leggenda, generando così due piani interpretativi tanto diversi quanto complementari. Si potrebbe quasi dire che l’opera di Moore possa essere visionata in due prospettive: da un lato abbiamo una bella favola per i più piccini, dall’altro c’è un’interessante lezione di folklore per i più curiosi. Forse non è azzardato un paragone con le opere del maestro Miyazaki, intrise della stessa magia e rispetto per le tradizioni. Ci sarebbe infine da trattare a dovere il personaggio di Macha, la grande antagonista della storia, ma, poiché anche solo a parlarne si finirebbe per generare spoiler, soprassiedo. Ad ogni modo voglio lo stesso lasciarvi un input, un dilemma aperto: una vita senza emozioni può davvero negare la sofferenza?

Graficamente l’anime è complesso. Moore sperimenta, immagine dopo immagine, frame dopo frame, un curioso contrasto tra composizioni rigorosamente geometriche, simili alle illustrazioni di un libro per bambini, e un character design morbido, spensierato, in netto contrasto con la meticolosa attenzione per i dettagli, sfumature, accostamenti cromatici, mai ripetitivi e sempre suggestivi. I colori cambiano drasticamente, dalle cupe ambientazioni cittadine, alle vivaci praterie, fino alle profonde, solenni onde del mare, acquerellate di un blu intenso e maestoso. Le ambientazioni, per alcuni aspetti, ricordano un impressionismo di matrice vangoghiana, tanto surreale quanto significativo. L’animatore irlandese sfrutta a proprio favore l’assenza di prospettiva, sfruttando la bidimensionalità per raccontare al meglio la favola, senza tridimensionalità e realismi che avrebbero potuto distogliere l’attenzione. A tratti si può quasi percepire il cambio di scena come un libro che viene sfogliato, quasi come una dolce madre che racconta una favola della buona notte.
La colonna sonora è notevole, dove poche ma significative tracce, tutte a tema, lasciano spazio alla suggestiva “canzone del mare”, perla folkloristica nonché fototessera del film. La musica accompagna silenziosamente lo spettatore, introducendolo alla scena ma mai rubandola, mantenendo così toni pacati, in pieno stile narrativo, senza scadere in un musical disneyano, che mai come in questo caso sarebbe stato fuori contesto.

Concludendo, si può dire che Moore, con “La canzone del mare”, abbia lasciato in eredità una commovente favola sulle innumerevoli difficoltà della vita, sull’elaborazione del dolore ma anche sul significato, imprescindibile, delle emozioni. Sfruttando con abilità la tradizione irlandese, Moore ha realizzato un piccolo capolavoro, una storia per tutte le età dal finale amaro ma universale. Consiglio caldamente la visione a tutti, dai più grandi ai più piccini. Vale davvero la pena imitare la nostra selkie: prendete coraggio e tuffatevi in questo oceano animato, non resterete delusi.