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Realizzare un sequel molte volte è solamente una mera operazione di riciclo, la quale punta solamente a riproporre i medesimi meccanismi presenti nel primo film (di solito ingigantendoli), per compiacere il pubblico. Nove anni è la distanza che separa il capolavoro rivoluzionario "Ghost in the Shell" dal suo seguito "Innocence", così denominato per evitare qualsiasi riferimento al precedente film che fu un sonoro flop al botteghino. Questo fa capire che Mamoru Oshii a differenza di molti registi non pensa ai soldi, ma quando realizza un film è perchè effettivamente ha qualcosa da dire.
Oltre alla regia, l'autore firma anche la sceneggiatura, prendendo spunto da un caso presente nel manga di Masamune Shirow, divergendo poi totalmente da esso.

La trama è la seguente; siamo nel 2032, ben 3 anni dopo la fine degli eventi del primo film, in un mondo che corre verso uno sviluppo tecnico-informatico sempre più marcato. Bato, detective della Sezione 9, insieme al suo collega Togusa (promosso a partner dopo la scomparsa di Motoko Kusanagi), dovrà indagare su una serie di strani casi di malfunzionamento delle Ginoidi, androidi creati dalla "Lotus Solus" con lo scopo di procurare piaceri sessuali, le quali stanno inspiegabilmente uccidendo i loro proprietari tramite l'autodistruzione.

Se nel primo capitolo il regista aveva costruito la storia partendo dalla crisi interiore di Motoko, che trovava riscontro reale tramite il caso dell'abile hacker conosciuto come il "Burattinaio", in "Innocence" Oshii compie la scelta opposta, realizzando un film che per gran parte della sua durata si snoda in una lunga quanto complessa indagine, dove Bato e Togusa per giungere alla risoluzione di essa, intraprenderanno un percorso di tipo metafisico. I due investigatori avranno modo di disquisire su temi profondi, dando così spazio alla loro cultura per affrontare dilemmi di stampo filosofico sui concetti di umanità e di vita, in un mondo dove le risposte a tali interrogativi sono divenute alquanto problematiche. Tutto questo è dovuto al fatto che gli esseri umani per superare i propri limiti, fanno continuamente ricorso ad innesti tecnologici per trascendere la propria condizione base, giungendo in questo modo ad uno stadio evolutivo superiore.
Bato, personaggio secondario del primo film, viene "promosso" al ruolo di protagonista, cosi che il regista ne fà portavoce dei suoi dilemmi esistenziali per esplicare la sua poetica sull'impossibilità di distinguere la realtà empirica dalla finzione. Avere un cervello cibernetico ed un corpo meccanico conferisce molti vantaggi, ma al contempo l'essere umano sottoponendosi a questi innesti sembra aver smarrito una parte essenziale di sé stesso; il proprio "Io". Chiunque potrebbe hackerare il cervello elettronico, riuscendo così ad infiltrarsi nei ricordi più profondi, violando in questo modo l'intima privacy del proprietario. Con tale intrusione un abile hacker, potrebbe anche riscrivere totalmente la memoria del soggetto, tanto da poterne alterare la percezione della realtà in modo permanente, scombussolando così il suo discernimento di cosa sia vero o falso, finendo con il far elaborare al cervello risultati sbagliati, perchè frutto di informazioni pregresse errate.
L'unico barlume di umanità che sembra permanere in Bato (ancorandolo alla realtà) è legato al ricordo del maggiore e all'affetto verso il suo basset-hound Gabriel. La figura di tale detective, sembra esprimere alla perfezione l'impossibilità di una dicotomia certa tra essere umano e una "bambola", poiché egli stesso è un incrocio tra un uomo e una grottesca quanto gigantesca bambola (è un cyborg corazzato).
E' poetico il modo in cui Oshii avvolge, con un velo di malinconia questo personaggio immerso nella sua profonda solitudine e colmo di rimorsi (celati dietro i suoi imperscrutabili occhi meccanici), poichè sembra giunto alle medesime conclusioni del maggiore Motoko; cioè la necessità di liberarsi dal controllo che il governo opera sui ricordi dei membri delle forze speciali, tanto che la stessa ragazza per custodire l'intima essenza del proprio "Io", aveva rifiutato un'esistenza materiale per evolversi in una forma di vita immanente, fondendosi con la vastità della rete informatica ottenendo così la libertà.
Bato è impossibilitato a compiere il medesimo percorso intrapreso della sua collega, non potendo far altro che constatare con cinica amarezza, l'impossibilità di uscire dalla propria prigione esistenziale.

Per quanto concerne il comparto tecnico si possono avere solo parole di gioia, poichè Mamoru Oshii sforna la miglior regia della sua carriera, facendo un largo uso delle inquadrature in soggettiva, dando così una prospettiva personale e parziale della vicenda. Gran parte del film però è composto da inquadrature statiche in semi-soggettiva, con la camera posizionata all'altezza delle spalle del personaggio.
Questo stile lo si ritrova anche nelle uniche due sequenze d'azione piazzate nei punti nevralgici della storia, per dare ad essa il giusto scossone ritmico. I combattimenti sono girati in modo asciutto e pulito, cercando con la telecamera di stare quanto più vicino possibile ai personaggi per ottenere degli scontri realistici, riuscendo così a immergere lo spettatore all'interno di essi, senza adoperare virtuosismi modaioli che hanno causato la deriva in negativo dei blockbuster odierni.
Nonostante il gran numero di dialoghi, il regista non opta per l'uso del classico campo e controcampo, ma sceglie di allungare i tempi all'inverosimile tramite l'adozione di un montaggio dilatato, conferendo in questo modo un ritmo adeguato all'opera, che presenta chiari riferimenti ai noir anni 40' e 50' nella prima parte, per poi virare nella seconda metà verso un'impronta totalmente fantascientifica. Interessante soffermarsi sul fatto che Oshii abbia adoperato una fotografia diversa dai suoi precedenti lavori (in cui il bianco era predominante), a favore di un'estetica che mescoli il bianco, il blu e un arancione con tocchi di color ocra"virtuale", creando così un'atmosfera alienante (ogni elemento della messa in scena è illuminato a dismisura), grazie anche ad una regia che talune volte adopera delle lente carrellate sull'asse, riuscendo in tal modo a costruire delle sequenze stranianti quanto oniriche, quasi ad indicare come il concetto di verità sia impossibile da raggiungere.
Tutto questo è accompagnato da un tripudio grafico colmo di eccessi barocchi (non si contano il numero delle bambole, maschere di carnevale, oggetti color oro, ingranaggi e dispositivi meccanici), coadiuvato da una perfetta integrazione tra animazioni tradizionali e CGI, grazie quali Oshii crea una personale avanguardia visiva. Il tutto è impreziosito dalle musiche di Kenji Kawai; un perfetto mix di percussioni, suoni elettronici e colpi di tamburo, che raggiungono l'apice nella sfilata di carnevale, dove la colonna sonora accompagna il corteo con una melodia religiosa.

In sostanza, "Ghost in the Shell 2: Innocence" risulta essere l'apice ma più eguagliato (almeno sino ad ora) da parte di Mamoru Oshii, che vince in pieno la sfida di creare un sequel superiore anche al capostipite. Purtroppo la pellicola in questione nonostante sia forse il miglior film d'animazione della storia del cinema, andò malissimo ai botteghini con un incasso di soli 10 milioni (a fronte di un investimento oltre 21) non riuscendo così a coprire neanche i costi di produzione.
Il valore artistico dell'opera è indiscutibile (lo testimonia la nomination alla Palma d'Oro a Cannes), così come lo status di capolavoro oggettivamente meritato. Alla luce della valide argomentazioni esposte sopra, sono quindi da rigettarsi come pretestuose qualsiasi critica (specialmente quelle concernenti il ritmo lento) tendente a sminuire tale pellicola, perchè ci si ritrova innanzi ad un film imprescindibile da vedere non solo per gli estimatori di "Ghost in the Shell", ma anche per ogni amante della settima arte alla ricerca ossessiva di capolavori da contemplare.