Shin Masked Rider: recensione del film di Hideaki Anno sull'iconico supereroe in moto

Creata per festeggiare i 50 anni del franchise, la pellicola è anche il quarto tassello del progetto Shin Japan Heroes Universe

di Maboroshi96

All’inizio degli anni ‘70 Toru Hirayama, un produttore della Toei, collaborò con Shōtarō Ishinomori, uno dei mangaka più famosi e influenti della scena mainstream degli anni ‘60, per realizzare una nuova serie live action per l’emittente televisivo MBS. Da questa collaborazione nacque Kamen Rider, la storia di Takeshi Hongo, un supereroe mascherato che, a cavallo di una motocicletta, combatte contro la Shocker, l’organizzazione neo-nazista che lo ha trasformato contro la sua volontà in un cyborg metà uomo e metà cavalletta e che mira a controllare il mondo.
La serie iniziò la messa in onda nell’aprile del 1971 e fu affiancata da un manga scritto e disegnato dallo stesso Ishinomori, serializzato sulle riviste Weekly Bokura Magazine e Weekly Shōnen Magazine, dando così i natali a un franchise destinato a diventare un caposaldo della cultura pop giapponese.
 
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Nel 2021, a 50 anni dalla nascita di Kamen Rider, Toei ha annunciato la produzione di Shin Kamen Rider, lungometraggio ispirato a quella prima storica serie scritto e diretto da Hideaki Anno, regista principalmente conosciuto per aver creato e diretto Neon Genesis Evangelion ma che da ormai più di 20 anni ha affiancato alla sua carriera nel mondo dell’animazione una altrettanto proficua carriera da regista di film dal vivo. Il film, uscito a marzo 2023 nelle sale giapponesi, è infine stato distribuito nel resto del mondo lo scorso 21 luglio tramite la piattaforma di streaming Amazon Prime Video, accompagnato in Occidente dall’infelice scelta di cambiarne il titolo in Shin Masked Rider.

Oltre a far parte delle celebrazioni per i 50 anni del franchise, Shin Kamen Rider è il quarto tassello dello Shin Japan Heroes Universe, un progetto senza precedenti che vede la collaborazione di alcune delle più importanti case di produzione cinematografiche giapponesi quali TOHO, Toei, Tsuburaya e Studio Khara.
Non si tratta di un universo narrativo condiviso come l’occidentale Marvel Cinematic Universe, ma di una serie di film narrativamente indipendenti tra loro legati da un progetto artistico (e commerciale) comune: rifondare e rilanciare alcune delle più importanti icone della cultura pop giapponese sotto la direzione di Hideaki Anno e dei suoi collaboratori. Come già notato altrove, la parola シン shin scritta in katakana (uno degli alfabeti fonetici della lingua giapponese) può rimandare a diversi significati, tra cui 新 shin “nuovo” e 真 shin “vero”, ed è proprio in questa ambiguità linguistica che si nascondono gli obiettivi di questi film: tornare alle radici per realizzare qualcosa di nuovo, stravolgere per far emergere il cuore più vero. Così, dopo Shin Godzilla (2016), dopo Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time (2021, titolo giapponese: Shin Evangelion Gekijōban), e dopo Shin Ultraman (2021, diretto da Shinji Higuchi ma sceneggiato, prodotto e “supervisionato” sempre da Anno), è infine il turno di Shin Kamen Rider di portarci al cuore di un'altra icona immortale.
 
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L’incipit del film ricalca da vicino quello della serie originale: Takeshi Hongo è ancora una volta rapito e trasformato contro la sua volontà in un cyborg metà uomo e metà cavalletta dalla S.H.O.C.K.E.R., un’inquietante organizzazione che mira a condurre l’uomo verso una felicità utopica. Diviso tra il terrore per un corpo che non sente più suo, un potere che non ha chiesto e un senso del dovere che lo spinge a usarlo per scopi nobili, Takeshi decide di diventare Kamen Rider e di unirsi a Ruriko Midorikawa, figlia dello scienziato che lo ha scelto come cavia, nella sua crociata contro la S.H.O.C.K.E.R., i cui scopi reali sono tutt’altro che utopici.


Il film intreccia le trame della prima decina di episodi della serie TV con alcuni degli elementi più viscerali del manga di Ishinomori, che aveva disegnato una versione di Kamen Rider dalle atmosfere più cupe rispetto alla controparte live action. La missione di Takeshi e Ruriko è una battaglia fatta di violenza e solitudine, tempestata da mutazioni orrorifiche che non caratterizzano solo i corpi dei loro nemici ma anche quello dello stesso Kamen Rider, che, esattamente come immaginato da Ishinomori, è contemporaneamente un paladino della giustizia e una figura mostruosa, un animo gentile che vive un rapporto conflittuale con le atrocità di cui è costretto a macchiarsi. Su questa base Anno innesta una serie di tematiche che sono tipiche della sua produzione quali l’importanza dei legami e la necessità di accettare ogni aspetto dell’esistenza, dolore incluso, per poter raggiungere la felicità.
L’evoluzione di Takeshi e Ruriko, personaggio in origine secondario qui completamente reinventato e reso centrale, procede di pari passo con l’esplorazione di questi temi. Takeshi, alla ricerca di un equilibrio tra la necessità di usare i suoi spaventosi poteri per fare del bene e il bisogno di non lasciarsi andare a una violenza fine a sé stessa, si avvicina a Ruriko per cercare di capire le motivazioni che la spingono a combattere con tanta dedizione; allo stesso tempo Ruriko, che si presenta come un personaggio freddo e calcolatore, finisce per schiudersi davanti al senso di responsabilità e alla gentilezza di Takeshi, imparando a condividere il peso delle proprie responsabilità e ad apprezzare quel mondo fatto di rapporti umani sinceri e disinteressati che non aveva mai conosciuto pienamente. Al contrario, questa nuova versione della S.H.O.C.K.E.R., guidata da un santone in tunica bianca, professa la felicità incondizionata, la devozione assoluta e il dominio sull'esistenza di forze mistiche richiamando il fenomeno delle sette religiose, problema ancora piuttosto radicato in Giappone che proprio di recente è tornato al centro delle polemiche. Queste sette attirano principalmente persone in fuga dalla società promettendo i mezzi spirituali per raggiungere la felicità in terra e nell'aldilà. Non è quindi un caso se nel film ritroviamo i generali della S.H.O.C.K.E.R. impegnati a sperimentare pratiche di violenza, obbedienza, isolamento, sottomissione e annullamento del dolore in una ricerca della felicità che parte da presupposti sbagliati e che non può quindi che condurre a risultati disumanizzanti.
 
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Questi elementi sono incastonati in una sceneggiatura oltremodo prolissa ma allo stesso tempo essenziale. Prolissa nella terminologia altisonante, nelle lunghe spiegazioni e nei tanti dialoghi che accumula senza sosta, risultando densissima di temi e informazioni che non aspettano altro di essere sviscerati dai critici e dagli appassionati. Sceneggiatura che, però, si può anche definire essenziale per come espone ciascuno di questi elementi, compresi i dialoghi che danno vita al carattere dei protagonisti e ne punteggiano la progressiva evoluzione, in maniera assolutamente utilitaristica e meccanica, ripetendosi il meno possibile per passare subito a quel che viene dopo.
Questa caratteristica, unita a una struttura fortemente episodica dal ritmo incessante, priva i momenti di pausa del film del respiro necessario a costruire in maniera organica il trasporto che le vicende dei suoi protagonisti cercano di evocare, incaricando in parte lo spettatore con l’onere di lavorare attivamente da sé per farsi coinvolgere sul piano emotivo. Un aspetto del film a volte mitigato da alcune ottime prove attoriali, come quella di Minami Hamabe, ma che si fa particolarmente marcato nelle battute finali, quando i riflettori sono tutti puntati sulla tragedia di un personaggio la cui storia è stata presentata unicamente attraverso un velocissimo flashback di pochi secondi e da poche battute di dialogo, lasciando perlopiù indifferenti dinanzi a un momento che vorrebbe apparire particolarmente drammatico.
 
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Tutte queste caratteristiche del film sono, nel bene e nel male, a volte mitigate, a volte esaltate e a volte persino arricchite dalla messa in scena. Shin Kamen Rider non è semplicemente un omaggio a Kamen Rider, ma uno studio vero e proprio della serie originale volto a comprenderne gli aspetti più interessanti e gli effetti che questi suscitavano negli spettatori dell’epoca per replicarli in quelli di oggi. A questo proposito, il lavoro fatto sul design dei costumi dal team formato da Anno, Yutaka Izubuchi, Mahiro Maeda, Ikuto Yamashita e i loro collaboratori è assolutamente d’antologia. Per i Kamen Rider si è optato per un lavoro di esaltazione dei design originali di Ishinomori, rifinendone i dettagli e operando un’unica aggiunta, quella del cappotto nero, divenuta immediatamente iconica. Più radicali sono stati invece i cambiamenti apportati ai nemici, i cui design sono stati praticamente ripensati da zero spaziando dal grottesco all’hi-tech, dalla strizzata d’occhio ai film di genere jidai-geki e yakuza all’omaggio ad altri personaggi di Ishinomori.
Si tratta sicuramente di uno degli aspetti in cui il film eccelle, tanto nella ideazione concettuale quanto nella loro concretizzazione nei costumi reali indossati dagli attori. Lo studio dell’originale è poi proseguito soprattutto nella ricostruzione esatta di diverse scene del primo episodio, nel riutilizzo (e ricostruzione) di alcuni degli ambienti e dei luoghi in cui fu girata la serie, nelle citazioni a elementi della sua messa in scena e dei suoi dietro le quinte, nella riproposizione di diverse tracce della colonna sonora riarrangiate da Taque Iwasaki e, infine, nel tentativo di replicare la natura sperimentale della regia di quei primi inquietanti episodi a cui il film si rifà maggiormente. Quest’ultimo aspetto si sovrappone poi alla ricerca stilistica che Anno ha portato avanti in maniera continua in tutti i suoi film dal vivo e che raggiunge qui il suo culmine.

Così come la scrittura racchiude un sunto di buona parte dei temi, dei caratteri e dei vizi formali delle sue sceneggiature, sul piano della messa in scena Shin Kamen Rider è una sintesi di tutto il lavoro da regista di Anno.
C’è l’impiego di videocamere digitali per realizzare inquadrature e sequenze ardite come in Love & Pop (1998) e Shin Godzilla, c’è la fotografia (e alcuni ambienti) di Shiki-Jitsu (2000), e ci sono l’integrazione di effetti speciali pratici, di effetti visivi applicati in digitale e di modelli in CGI di Shin Godzilla e Cutie Honey (2004). Da quest’ultimo Shin Kamen Rider riprende anche il tentativo di avvicinare il cinema dal vivo all’animazione, un lavoro che risplende soprattutto nello scontro tra Kamen Rider e Wasp-Aug, probabilmente la scena d’azione più memorabile del film, dove la differente velocità dei due è rappresentata mediante l’uso di scie di luce e una diversa modulazione dei frame che compongono il movimento dei personaggi.
L’unione tra cinema dal vivo e animazione va però ben oltre questa singola scena e si estende a tutto il film mediante l’estremo controllo che Anno e il suo staff applicano alla maggior parte delle scene d’azione del film, generando una sensazione di artificialità del tutto peculiare. Ed è proprio qui, a partire da questa artificialità onnipresente, che Shin Kamen Rider passa dall’essere un film interessante, seppur con i suoi alti e i suoi bassi, all’essere un oggetto strano di difficile classificazione.
 
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I tokusatsu, ovvero i film e le serie TV giapponesi caratterizzate da un uso massiccio di effetti speciali, sia per limiti tecnici che per scelta stilistica puntano raramente a una resa naturale e realistica degli elementi fantastici che mettono in scena, non nascondendo completamente l’artificio ed esaltando quindi la cura artigianale che si nasconde dietro ogni mostro, ogni ambientazione fantastica o fantascientifica, ogni paesaggio urbano e naturale ricostruito in miniatura. Si tratta di un’idea di cinema sicuramente distante da quella occidentale odierna che, soprattutto nell’ambito dei blockbuster americani, punta a una resa dell’artificio quanto più realistica e invisibile possibile mediante l’uso di una CGI elaborata (e costosa).
Nonostante queste premesse, Shin Kamen Rider riesce comunque a distinguersi per come calca la mano sull’artificialità di quanto sta mostrando, arrivando così a mettere a nudo la propria natura di “messinscena”, di recita, in modi che vanno persino oltre le scelte fatte per la resa degli elementi fantastici del film. Partendo però proprio da questi ultimi, è innegabile quanto “l’inganno” del film si muova costantemente tra il posticcio e l’invisibile.
Posticcio è lo scontro tra Takeshi Hongo e Hayato Ichimonji in cui due modelli in CGI combattono in aria, cercando di rendere su schermo i poteri da cavalletta di Kamen Rider in una maniera meccanica e per nulla realistica che si alterna con inquadrature degli attori che eseguono in cielo acrobazie del tutto identiche a quelle che si potevano ammirare nella serie originale. Sempre visibili, anche se meno posticci, sono i ritocchi ai primi piani che li vedono rivolti verso l’obiettivo mentre sferrano pugni, il cui movimento è stato rimodulato per apparire più caricaturale e stilizzato, effetto usato anche su alcune delle movenze sincronizzate degli sgherri della S.H.O.C.K.E.R. Il fisico di questi ultimi è stato inoltre modificato mediante l’utilizzo del computer per renderli tutti identici in termini di altezza e costituzione, di fatto annullando parzialmente la corporeità degli attori a favore di modelli in CGI (come svelato dal documentario dedicato al film andato in onda sulla NHK) e, quindi, di una tecnica di animazione. L’effetto artificiale qui non scaturisce dallo svelamento del trucco, che in questo caso rimane invisibile, quanto dall’irrealtà del risultato finale. Altrettanto si può dire per alcune delle scelte stilistiche che riguardano gli effetti speciali pratici, come nel combattimento splatter che apre il film in cui ogni colpo sferrato da Kamen Rider colpisce tanto per la sua violenza quanto per l’esagerazione quasi caricaturale della secchiata di sangue che ne consegue.
 
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Questa ricerca dell’artificio coinvolge anche il resto della messa in scena del film. La regia e il montaggio di Shin Kamen Rider presentano un'essenzialità a tratti persino superiore a quella della sceneggiatura. Ogni inquadratura, ogni taglio, ogni movimento degli attori appare calcolato al millimetro allo scopo di presentare ogni singolo dettaglio del racconto nella maniera più efficiente e sintetica possibile, inclusa l’interiorità dei suoi personaggi.
Il film non si concede neanche una scena dallo stile più naturalistico, preferendo invece un autocontrollo assoluto in ogni istante, anche nei momenti maggiormente riflessivi e intimi. Un primo piano della mano insanguinata di Takeshi sottolinea la sua repulsione per le proprie azioni, tanto quanto l’inquadratura dei suoi piedi, che evidenzia il sangue sotto la suola di una delle sue scarpe, racconta la sua risolutezza a superare questa repulsione in nome della missione da compiere. Allo stesso modo, l’incontro tra due binari del treno mostra, senza far uso di parole, l’allinearsi degli obiettivi di Takeshi con quelli di Ruriko.

L'uso continuo di inquadrature dalla composizione attentamente studiata e di un montaggio che si articola in una sequenza di tagli incessanti permette a Shin Kamen Rider di continuare a sottolineare la propria natura di opera di finzione, operazione che si fa ancora più palese con i richiami al teatro, forma d’arte a cui Anno fa spesso riferimento nelle sue opere, evocato non solo dalla recitazione impostata degli attori ma anche da alcune precise scelte di regia.
L’elemento più vistoso di questo aspetto riguarda sicuramente la scelta delle ambientazioni: tutte le scene al chiuso sono infatti ambientate all’interno di grandi set spogli o dall’arredamento essenziale che ricordano palcoscenici e teatri di posa. Questo si fa particolarmente esplicito nella sezione del film ambientata nel covo di Bat-Aug dove, tra il luogo scelto, gli avvenimenti e le inquadrature, tutto sembra pensato per dare l’impressione di star assistendo a una recita teatrale. A questo proposito, è interessante notare come la prima volta che vediamo Takeshi senza la maschera di Kamen Rider il personaggio compia proprio l’azione di “entrare in scena”, passando dal “dietro le quinte” (con tanto di postazione per guardarsi allo specchio!) al palcoscenico su cui si svolgerà il primo lungo dialogo del film. Lo fa con un movimento catturato da un brevissimo piano sequenza che ci permette anche di notare Ruriko ferma immobile ad aspettarlo al centro della scena, come un’attrice in attesa del proprio turno per iniziare a recitare. Recitazione che per tutto il film viene spesso inquadrata con dei primi piani o dei mezzi busti in cui gli attori guardano direttamente dentro la telecamera, come a sottolineare che quel che stanno dicendo non è rivolto unicamente agli altri personaggi della storia ma anche agli spettatori, replicando tramite la regia e il montaggio quel che avviene in un certo tipo di teatro in cui gli attori dialogano tenendosi sempre di fronte al pubblico.
 
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Tutti questi elementi fanno di Shin Kamen Rider un film che nel panorama del cinema d’azione e di supereroi contemporaneo appare come un’anomalia curiosa, a tratti un paradosso indecifrabile.
È un film che, come tutte le opere dello Shin Japan Heroes Universe, reinventa un'icona della cultura pop giapponese per introdurla a un nuovo pubblico, non solo giapponese. Allo stesso tempo, però, è anche un film che ha soprattutto molto da offrire agli appassionati storici di Kamen Rider e agli studiosi della filmografia di Hideaki Anno, al punto da poter risultare persino povero agli occhi di tutti gli altri. Infine, Shin Kamen Rider è un film che racconta di sentimenti intensi come la solitudine e il dolore con un certo distacco, cercando di trasportare lo spettatore nei drammi dei suoi personaggi senza però fargli mai dimenticare di star assistendo a un'opera di finzione. Proprio per questo, l'ultimo film di Anno oltre che un omaggio a Kamen Rider, è un film sull'atto stesso di usare il mezzo cinematografico per mettere in scena una storia, e sul fascino reale che vicende esplicitamente di finzione, come quelle che riguardano le battaglie di un cyborg metà uomo e metà cavalletta, possono esercitare sugli spettatori.
 

Si ringrazia Maboroshi96 (terreillustrate.it)


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