Vogliamo davvero tutti questi videogiochi open world

Da qualche anno sta spopolando il fenomeno dei videogiochi a mondo aperto, ma è davvero così richiesto?

di DannyK

Secondo rumors recenti anche la saga di Resident Evil potrebbe, per la prima volta, cedere al fascino dell'ambientazione open world, addentrandosi in ambiti non nuovi per il survival horror a tema zombie, ma fino ad oggi non associabili a titoli rimasti nell'Olimpo del genere. Un gioco ad ambientazione aperta rappresenta ciò che nella mente degli sviluppatori dovrebbe essere libertà assoluta, possibilità sconfinate, un'esperienza in cui è il giocatore stesso a dettare tempi e modi, aumentando esponenzialmente anche il divertimento: ma è davvero così? Parliamone insieme.

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Una dei più bei compiti di ogni forma d'arte, nelle quali annovero certamente anche il videogioco, è quello di veicolare e trasmettere emozioni: l'ottava arte (mi si conceda questa convinzione) ha in più il pregio di poterci far vivere in maniera interattiva una storia immersiva e nuova, in modi preclusi al cinema ed alla scrittura, portandoci in mondi fantastici o distopici, comunque lontani dalla quotidianità con cui tutti noi dobbiamo necessariamente convivere. In teoria prolungare la fruizione di qualcosa di bello è un aspetto positivo, ma proviamo a pensare ad un magnifico quadro: se anziché poterlo direttamente apprezzare nella sua interezza questo ci venisse mostrato a pezzi, come un puzzle da comporre molto lentamente ed intervallando questa attività con altre più banali, riuscirebbe ad emozionarci allo stesso modo? Avrete capito il concetto: uno dei problemi fondamentali dei titoli open world è proprio la diluizione dell'esperienza secondo tempistiche che non possono essere definite a priori, proprio perché dipendono dal giocatore (salvo precise - e spesso controverse - scelte di gameplay, come la presenza di un tempo limite per il completamento di alcune quest) e che quasi sempre fanno perdere il fulcro della storia, fanno venir meno l'urgenza dei protagonisti, costringono ad una importante dissonanza ludonarrativa quando un personaggio con un compito di un'urgenza critica si sofferma ad allevare pennuti colorati per vincere una gara.

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L'altro compito, forse il principale anche se tendiamo a dimenticarcene spesso, è quello di fornirci un divertimento pratico pad o tastiera alla mano, di essere divertente, sfidante, gratificante e di fare tutto questo seguendo una curva di apprendimento stabilita dai suoi creatori, studiata a tavolino per trasportarci verso una crescita costante, con sbarramenti più o meno ostici a seconda delle loro volontà. In Dark Souls se non si trovava il modo di far fuori il demone toro su quel ponte appena fuori dal Borgo dei non morti, non c'era verso di proseguire. Elden Ring dà invece la possibilità di cavalcare via ed evitare qualsiasi scontro, andare dalla parte opposta del mondo di gioco e fare tutt'altro, anche accumulare tantissimi livelli per overkillare quel boss ostico. E se ancora la community non ci riesce lo nerfiamo pure (poor Radahn). Tutto questo non vuole essere un elogio alla difficoltà gratuita, quanto piuttosto stimolare una riflessione su quanto in un open world diventi molto più complesso creare un avanzamento organico e razionale sia della trama che della curva di difficoltà, al punto che molti sviluppatori alla fine decidono di rinunciarci, andando a sacrificare queste due fondamentali caratteristiche del medium sull'altare del parametro noto come "ore di gioco".

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C'è stato un preciso momento in cui moltissimi scrittori hanno smesso di concentrarsi sullo storytelling, sul lasciare qualcosa a livello emotivo, per focalizzarsi quasi esclusivamente sulla grafica e sul tenere i videogiocatori incollati al loro titolo il più a lungo possibile. Educare gli stessi a misurare la qualità di un titolo in base a quanto dichiarato dal sito HowLongToBeat è stata infine la diretta conseguenza di questa nuova cultura videoludica, portando pian piano alla nascita di videogames che non sono altro che raccoglitori di fetch quest, grinding esasperato, loot ossessivo e farming compulsivo di qualsiasi cosa sia possibile raccogliere e trasportare. Come si diceva in prefazione, ognuno di noi è costretto quotidianamente da esigenze primarie ad una serie di attività ripetitive e banali: siamo proprio sicuri che sia necessario riproporre questa stessa esperienza anche all'interno di un videogioco, solo per allungarne la durata? E come si coniuga questo approccio con quello che dovrebbe essere un survival horror carico di tensione e che trae giovamento proprio dalla scarsità di risorse e di opzioni a nostra disposizione?

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Intendiamoci, ci sono titoli open world che riescono ad essere meravigliosi, giusto per citarne alcuni The Witcher 3, Zelda Breath of the Wild e Red Dead Redemption 2, ma rimanere su questi standard è molto complicato ed è appannaggio di pochi con i giusti mezzi e competenze, nonostante anche questi tre capolavori prestino il fianco a quella interruzione della sospensione dell'incredulità, nel momento in cui le attività in game non collimano con quello che dovrebbe essere il reale approccio del protagonista alla storia raccontata. Ci è certamente più facile immedesimarci nelle azioni di Joel in The Last of Us, che nel momento in cui Ellie è in difficoltà non si sofferma a giocare a dadi o a scuoiare cervi leggendari, ma va dritto a salvarla. Chiaramente possiamo accettarlo, pur sapendo perfettamente che il trasporto emotivo ne risentirà, mettendosi in pausa fino al completamento della successiva missione di trama. In definitiva non esiste una risposta univoca e probabilmente l'unica sensata è che non bisogna abusare di queste dinamiche: l'utenza comincia anche un po' a valutare negativamente distese sconfinate e vuote piene solo di inutili collezionabili, o vetuste missioni in cui bisogna portare una lettera da una parte all'altra dell'universo, o ancora l'ennesimo accampamento nemico da distruggere. Forse, dopo che persino Master Chief ha iniziato a svolazzare qui e lì per la mappa in Halo Infinite (e la cosa non è stata accolta in maniera particolarmente entusiastica), è il caso di ricominciare a ragionare in termini di esperienza complessiva e magari rigiocabilità, come insegnano i validissimi remake dei titoli di qualche anno fa, quando ancora certi paradigmi non erano così predominanti, o altre esperienze tipo Hellblade: Senua's Sacrifice (preparatevi alla nostra recensione del secondo capitolo) o Alan Wake primo e secondo capitolo, che riescono a concentrare tantissimo in relativamente poche ore di gioco.

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