Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Il miglior modo per imparare a fare un film è farne uno”, ci suggerisce Kubrick. Immagino che a grandi linee anche Pompo la pensi così.

«Eiga Daisuki Pompo-san» (Pompo che ama i film) ci racconta la storia di questa giovane e talentuosa produttrice cinematografica e del suo fido assistente/”regista per la prima volta” Gene Fini, direttamente da Nyallywood, “città dove ti pagano cinquanta milioni per un bacio e cinquanta centesimi per l’anima”. Fulcro della narrazione sarà la laboriosa realizzazione di "Meister", pellicola scritta da Pompo stessa e diretta dal suo Gene, che racconta le vicende di un maestro della direzione d’orchestra perennemente alla ricerca di un’irraggiungibile perfezione e del suo smarrimento emotivo, curato dalle mani di una giovane ragazza, interpretata dall’acerba Nathalie Woodward, il terzo volto di questa storia, una sognatrice -aspirante attrice- che non può certo farsi sfuggire la sua grande occasione.

Gene non è solo un appassionato di cinema, Gene è uno che potendo si farebbe costruire casa dentro la sala cinematografica, uno che sottopelle ha le pellicole al posto delle vene. Lui vive di cinema; a detta sua, è l’unica cosa che ha.

Fascinoso e simbolico il parallelismo che viene fin da subito a crearsi tra lui e il protagonista del suo Meister; due figure patologicamente assoggettate dalle loro stesse arti, ossessionate dalla ricerca di una perfezione tanto magnifica quanto impossibile.
E sarebbe facile discutere di quanto Eiga Daisuki Pompo-san sia “romanticheggiante” nel susseguirsi delle vicende, dove tutti si sorridono e si tendono la mano, di quanto possa superficialmente apparire appagante godersi i propri sogni, finché le occhiaie le porta il personaggio di un film. Ma la realtà è ben diversa; e Eiga Daisuki Pompo-san ce lo grida sottovoce.

Eiga Daisuki Pompo-san è sì un film che parla di cinema, è sì un film che parla di sogni che si realizzano ancor prima di nascere, è sì un film in cui un bancario pensa prima al benessere del suo cliente e poi al proprio profitto, è sì un film “del mondo che vorrei”. Ma non è solo questo.

Eiga Daisuki Pompo-san è un inno all'amore per i propri sogni, un silenzioso grido strozzato misto di scuse e ringraziamenti verso tutto ciò che viene sacrificato in nome di essi, verso tutto ciò che tagliamo dalla vita nostro malgrado, un invito a ricordare sempre che non abbiamo scelto quella strada per abbandonarli, ma per realizzarli.

Opera di valore immenso, fatta di quelle emozioni che solo il cinema sa regalare, e tutto in soli 90 minuti.

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Tratto dall’omonimo romanzo di Eiko Kadono del 1985, “Kiki - Consegne a domicilio” è, senza ombra di dubbio, una delle più celebri pellicole del sensei Hayao Miyazaki. Ambientato in quella che sembra essere una grande metropoli di un tempo molto lontano, non si ha certezza se nel passato o nel futuro, il film ci racconta, per la prima volta, l’amore del regista giapponese, strenuo difensore della causa ambientalista, per le città europee. E ripropone, in maniera più magica e fantastica, la sua passione per il volo, grande leitmotiv della cinematografia miyazakiana, presente in altre pellicole come “Laputa - Il castello nel cielo” e “Si alza il vento”.

La storia narra le vicende di Kiki, una giovane strega simpatica e un po’ maldestra. Come impone la tradizione, compiuti i tredici anni, deve lasciare casa e partire alla ricerca di una città in cui svolgere un anno di apprendistato, così da dimostrarsi capace di rendersi indipendente. In compagnia dell’inseparabile gatto nero parlante Jiji, a cavallo della scopa di sua madre corredata con la radiolina di suo padre, Kiki arriva nella grande città di Koriko, che, bagnata dal mare e sovrastata da una splendida torre con l’orologio, rappresenta la città dei sogni di Kiki. Ma la città ha in serbo molte sorprese per la piccola strega, prima fra tutte l’indifferente freddezza dei suoi cittadini. Armata del suo unico talento magico, quello di volare nel cielo, Kiki riesce faticosamente ad avviare un’attività di consegne a domicilio. La conquista dell’indipendenza economica ed emotiva si mostra subito come un duro percorso di crescita per Kiki, che dovrà affrontare molte sorprese e tante difficoltà, sia fuori che dentro di lei.

Autentico romanzo di formazione, trasportato sul grande schermo, “Kiki - Consegne a domicilio” sembra raccontare una storia che conosciamo a memoria: una giovane e intraprendente ragazza giapponese lascia il proprio nido familiare, alla ricerca dell’indipendenza e nella speranza di realizzare i propri sogni, ma lo fa introducendo due fondamentali elementi di novità, la giovane età della protagonista, appena tredicenne, e le sue doti magiche, che la rendono uno degli ultimi membri in vita di una “razza” destinata a scomparire negli anni a venire, quella dei maghi, sempre meno numerosi e conosciuti. A bordo della sua scopa, accompagnata dalle note suadenti di “Rouge no Dengon” di Yumi Arai, Kiki parte alla scoperta di un mondo a lei sconosciuto, la grande città di Koriko, tanto bella nei suoi paesaggi marini, quanto fredda nell’accoglienza della piccola maga. In questo luogo densamente popolato e abitato dai soggetti più disparati, Kiki avrà la possibilità di fare nuove importanti conoscenze, decisive per il proprio percorso di crescita. Il giovane Tombo, alter ego di Miyazaki, animato dalla sua stessa fervida passione per il volo e i dirigibili. L’eccentrica artista Ursula, vero e proprio uccel di bosco, che vive a stretto contatto con la natura. L’amorevole Osono, panettiera in dolce attesa, che accoglie Kiki nella propria dimora, sotto il cui tetto le consente di vivere, e la sprona ad aprire la sua personale attività di consegne a domicilio. Da questo momento in poi, Kiki inizia a fare le sue prime vere esperienze, alla scoperta del mondo cittadino, tanto diverso da quello di campagna in cui ha vissuto fino a questo momento. Arrivano le prime soddisfazioni lavorative e con esse, come è ovvio che sia, le prime delusioni, anche emotive, per superare le quali Kiki dovrà fare affidamento unicamente su sé stessa. La città saprà essere crudele e spietata, alla piccola maga, dunque, la capacità di venire a capo delle difficoltà che la vita le metterà dinanzi.

Alle musiche, il solito e inarrivabile Joe Hisaishi, accompagnato da una Yumi Arai, in quegli anni, nel meglio della propria carriera. Al netto delle grandi musiche del primo, sono le canzoni di apertura e chiusura della seconda a spiccare maggiormente. “Rouge no Dengon”, che accompagna Kiki al momento della sua partenza, è considerata uno dei primi classici J-pop di sempre. Tratta dal suo terzo album, Cobalt Hour, parte come “Lamette” di Donatella Rettore e riesce a portare lo spettatore indietro di cinquant’anni, con la sua musicalità retrò, ma incredibilmente coinvolgente. “Yasashisa ni Tsutsumareta Nara”, che guida dolcemente lo spettatore verso il lieto fine della storia, ci parla del ruolo di pioniera che la cantautrice giapponese ebbe nella fusione tra cultura occidentale e pop locale. Di una bellezza senza pari le animazioni, fluide e pulite, migliorate dall’uso di colori vivaci, tra cui il blu del mare, che cinge come in una morsa la città di Koriko, modellata su quella svedese di Stoccolma, dove il regista giapponese si recò a più riprese nel corso della propria vita, per scattare foto e girare video.

Insomma, se non volete guardarlo per la storia, bella e coinvolgente ma non originale, fatelo quantomeno per le musiche e per scoprire una cantautrice di livello internazionale come Yumi Arai, unica dipendenza da cui voglio essere affetto per il resto della mia vita.

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Vola alta la fantasia generatrice sulle ali della fanciullezza, per sua natura incline all’indagine dell’irrazionale; tanto più irrazionale quanto più ignoto, misterioso e propedeutico a innescare nell’animo ancora parzialmente incontaminato, nonostante le innumerevoli informazioni che oggi arrivano anche a questa età, quel senso di epifania che un adulto può solo ricordare con vaga, quanto irrinunciabile nostalgia. E “Penguin Highway” potrebbe essere davvero tutto qui e sarebbe senz’altro sufficiente a renderci lieto il prosieguo della giornata, ma l’opera d’esordio dell’ottimo Ishida va ben oltre la semplice appartenenza al genere, per incontrare tematiche che strizzano l’occhio a un pubblico certamente più adulto rispetto a quello dei coetanei del protagonista di questa storia. Per quanto l’opera possa avere un suo naturale target di riferimento, sorprende decisamente il modo in cui è ben caratterizzato il piccolo Aoyama, il quale nonostante in principio possa dare l’impressione di essere saccente, pieno di sé e poco incline al confronto con i pari età, si rivelerà al contrario, man mano che la storia sviluppa i motivi essenziali, un bambino sensibile, aperto al confronto, allo stesso tempo responsabile e avventato quanto basta per superare ciò che la ragione non aiuta a comprendere. Fino ad accettare anche il sopraggiungere del dubbio, la gioia della condivisione, l’aiuto dell’altro, il senso di vuoto dovuto alla perdita di chi si ama. Il tutto all’interno di una storia bizzarra, agile nella sua struttura e lieve come può esserlo un vento di primavera, ma profonda quanto basta per far emergere dal contesto surreale suggestioni di una certa complessità e sentimenti che reali lo sono più che mai. Sentimenti che non hanno tempo né età, né tanto meno un confine tematico entro cui debbano essere necessariamente circoscritti.

Tra sci-fi e racconto di formazione, la vicenda si sviluppa attraverso le riflessioni, i dubbi, le scoperte e le prese di coscienza del piccolo Aoyama, e incentra i suoi sui motivi più intimi ed esistenziali sul rapporto tra il bambino e la sorellona, alternando sapientemente serio e faceto, e poggiando tutto ciò su dialoghi non banali, soprattutto considerando il gap dovuto alla differenza d’età tra i due personaggi principali. “Quando si va lontanissimo si finisce per arrivare al punto di partenza”, dice la sorellona ad Aoyama, circa a metà della pellicola. “Penguin Highway” evidenzia più volte questa circolarità, sia narrativa che “filosofica”, se così la si può definire, questo tornare al punto di partenza dopo un lungo percorso, che sia reale o ideale non importa. Quello che l’opera ci tiene in effetti a rimarcare è che ciò che conta è il percorso, rispetto all’approdo. Evidente il richiamo ai fondamenti della dottrina shintoista, e più in generale a una ciclicità della vita che permea da secoli la cultura giapponese e larga parte delle filosofie estremo orientali. A differenza di “Weathering with You”, del pur bravo Makoto Shinkai, qui il richiamo alla dottrina tradizionale nipponica non è un puro pretesto per giustificare l’elemento fantastico, ma ha una precisa valenza narrativa, a partire proprio dall’apparizione dei pinguini. Molto più in linea con il cinema di Hayao Miyazaki, da questo peculiare punto vista, l’opera di Ishida attinge al culto animista e alla dimensione che trascende la realtà non tanto per indagare la dimensione stessa o spiegarne l’improvvisa comparsa, quanto per dimostrare che i sentimenti umani restano tali anche di fronte al mistero più insondabile. “Il mondo diventa sempre più assurdo. Dici che è un problema?” Chiede in un momento non semplice, ma con fare quasi divertito, la sorellona a Aoyama. È una domanda meno retorica e banale di ciò che in apparenza può sembrare e prelude al pirotecnico finale, nel quale scopriremo che la via dei pinguini non è altro che un tragitto per entrare in contatto con una dimensione parallela (quelle tipiche dei romanzi di Haruki Murakami, per intenderci) che gli esseri umani, in particolari circostanze, hanno la possibilità di attraversare.

La pellicola si avvale di un apparato tecnico di buonissimo livello che poggia su animazioni piacevoli, pur non essendo originalissime, su una solida regia e su un supporto sonoro adeguato. Da un’idea buffa e stravagante, ne deriva dunque un film animato che si eleva decisamente oltre la media di genere, dando l’opportunità a Ishida, utilizzando al meglio il testo di Tomihiko Morimi, di mostrare in modo riconoscibile, già da questo primo lungometraggio, la sua personale poetica cinematografica, la quale sembra dichiarare i suoi debiti nei confronti dell’opera del compianto maestro Satoshi Kon e di quella, più recente, di un altro grande regista come Mamoru Hosoda.

“Penguin Highway” è un anime certamente da vedere, forte di una storia che coinvolge più per come innesta i motivi sentimentali in una dinamica buffa e surreale che per la sua cornice fantasy. Si concentra sui personaggi, evitando volutamente le spiegazioni su tutto ciò che di straordinario avviene, e chiude su note malinconiche, non negando agli spettatori quel filo di commozione che dà sostanza ai sentimenti che emergono nell’agrodolce epilogo.