Dustborn – Un po' X-Men, un po' Barbie, un po' David Cage
La recensione di un titolo più complesso di quanto ci si aspettasse, anche se...
di Marcello Ribuffo
Dustborn è un videogioco strano. Tutti i trailer arrivati finora, le interviste e la prova effettuata con una precedente build, a malapena hanno scalfito la superficie di un prodotto dai toni prettamente politici, spesso difficili da collocare.
Il linguaggio, la parola, l'espressività sono i cardini di questo lavoro, che a prima vista sembra gridare al mondo la propria inclusività ma una volta andati un po' più a fondo produce riflessioni interessanti. Alcune almeno.
In un mondo colpito dal cosiddetto Broadcast, alcuni esseri umani hanno sviluppato poteri particolari legati alla voce. Pax e il resto del gruppo devono intraprendere un viaggio coast to coast negli ex Stati Uniti, divenuti ormai una distopia che stizza l'occhio al fascismo, per consegnare informazioni importanti per contrastare la Justice e i Puritani, coloro che cercano il controllo assoluto. Il corpo di polizia Justice tiene appunto sotto controllo quel che resta del paese, vedendo negli Anomali (coloro che hanno sviluppato questi poteri) l'unica e vera minaccia. Ma oltre la Justice esistono i Puritani, coloro che auspicano al vero controllo della libertà altrui, che qui, come potete benissimo intuire ormai, ruota tutto attorno alla “parola”.
Partiamo dall'unica nota realmente positiva di Dustborn: il cast di personaggi e le loro interazioni. È vero, ognuno rappresenta una discriminazione, in quello che sembra l'incubo di chiunque veda nella cosiddetta “cultura woke” una minaccia. Ma il linguaggio assume connotati diversi e a volte, anche quello di etichette.
Dustborn infatti riesce a essere incredibilmente inclusivo nel senso più puro del termine, non solo in termini narrativi, visto che ogni “etichetta” viene raggruppata sotto l'unica degli “Anomali” ma anche perché si assiste a una cura sopra la media nella caratterizzazione estetica e non dei personaggi e delle dinamiche relazionali. In Dustborn, i dialoghi a scelta multipla sono infatti innovativi e dinamici, in cui possiamo interrompere l'interlocutore innescando conseguenze inaspettate, sviare l'attenzione o persino apparire distratti qualora si risponda a qualcosa che nulla a che vedere con l'ultima parte della conversazione. Tutto risulta estremamente corale e armonioso in cui si parla parecchio, con dialoghi estremamente lunghi ma piuttosto credibili, riuscendo a trasformare a un certo punto i cast di personaggi in persone. Si viene così a creare un gruppo davvero coeso in grado di far completamente dimenticare tutte le differenze tra loro. Usare le discriminazioni in questo modo è stato molto intelligente, perché sono proprio la parola, l'empatia, l'ascolto a essere veri superpoteri. La comprensione dell'altro è un tema ripercorso sin dalla notte dei tempi ed è bello vedere un videogioco che riesce molto bene nell'intento. Ma, l'utilizzo delle Vox anche in questo frangente, è la vera idea brillante. Il loro utilizzo cambia repentinamente la discussione, obbligando il nostro interlocutore ad agire come vogliamo. Come citati nella preview, si ha sensazione di trovarsi tra le mani il potere di Allison Hargreeves di The Umbrella Academy o del Geass di Lelouch Vi Britannia, con la sensazione di sentirsi un po' "sporchi". Il linguaggio come forza persuasiva si tramuta in manipolazione o persino in peggio e l'utilizzo di questo potere non avverrà certo senza alcuna conseguenza.
Vediamo i vari personaggi cambiare in modo concreto, con dinamiche ben lontane da quanto visto ad esempio in Mass Effect. La dinamicità delle conversazioni rende il tutto estremamente verosimile, in cui il giocatore viene invitato non solo a prestare attenzione per esigenze di gameplay (visto che le nostre scelte influenzano le vite e il destino di tutti loro e non solo) ma anche per ascoltare. Semplicemente ascoltare. Cosa che negli ultimi anni evidentemente si tende a fare un po' meno. Ma le parole qui hanno un peso assai tangibile: le cosiddette Vox sono armi vere e proprie, anche se dall'effetto diverso per ognuno dei personaggi presenti. La protagonista Pax, nostro alter ego, può imporre emozioni. Sai può modificare il proprio corpo. Noam, può invece edulcorare sentimenti. Le Vox essenzialmente sono una metafora del nostro linguaggio e di come lo usiamo: possiamo ferire, possiamo alleviare, possiamo curare, possiamo distruggere e creare. Ed è qui che la situazione si fa un po' delicata.
Se da un lato infatti la costruzione del mondo di gioco e dei personaggi risulta di buon livello, nel macro della narrazione si avvertono sensazioni particolari. Dustborn come detto, è un'opera estremamente politica – è inutile che ci giriamo attorno – con il team di sviluppo che cerca di veicolare i propri valori: nulla di male, i videogiochi sono una forma d'arte ed è giusto che la politica entri anche a gamba tesa in questo tipo di opere. Tuttavia, il risultato finale è un po' confusionario. Gli Anomali sono gli emarginati, una minaccia che la Justice cerca di contenere e che i Puritani cercano persino di eliminare. Affezionarsi e cavalcare le idee dei nostri eroi sembra la via più ovvia eppure non lo è. Questo perché, come in X-Men 2 di Bryan Singer, la questione superpoteri è estremamente delicata e viene utilizzata per veicolare in maniera più semplice il concetto di discriminazione. Tutto molto bello ma mentre nel film si assisteva a una dualità di fondo, a un contrasto di idee legittime in grado di portare lo spettatore a una riflessione concreta, qui tutto viene appiattito. È tutto bianco o nero, libertà o segregazione, vita o morte. Non c'è spazio per i dubbi ed è qui che si rompe un po' il giocattolo.
Come viene mostrato nel gioco, le Vox sono estremamente pericolose. Se usate incautamente possono provocare gravi danni per cui sarebbe auspicabile un minimo di controllo. Questo è quello che fanno la Justice e i Puritani (più o meno) eppure, questo legittimo controllo è visto solo e soltanto come minaccia. E come se si comunicasse al giocatore che la libertà di parola vada protetta a prescindere, indipendentemente dai danni che si potrebbero creare. Eppure si parla di odio attraverso i social network, di disinformazione... e vanno protetti? Sì, no, forse? Non è chiaro il focus del sottotesto, con la pretesa di legare questioni realmente importanti, come appunto la discriminazione e la libertà di espressione, a qualcosa di facile soluzione. E ovviamente non lo è. Sembra insomma di trovarsi in un'opera di David Cage, avvolta da bei paroloni ma povera di contenuto reale. Ma Dustborn fa anche di più: ogni tanto vuole anche moralizzare.
Uno dei problemi di Barbie di Greta Gerwig era quello di impostare la narrazione partendo da una morale. Solitamente avviene il contrario: prima si racconta qualcosa e da questo racconto scaturisce appunto un insegnamento, ma nel film con protagonista Margot Robbie il punto era uno e soltanto uno: la lotta al patriarcato. Ed era così preponderante che a un certo punto, il film andava “in pausa”, parlando direttamente al pubblico attraverso il monologo di America Ferrera, in un momento completamente slegato dalla narrazione. Ai ragazzi di Dustborn sembra essere piaciuto parecchio questo modus operandi perché, se è vero che da un lato riesce a essere la perfetta essenza dell'inclusività, a un certo punto il videogioco va “in pausa”, comunicando una morale diretta al giocatore. Un esempio: “non dobbiamo limitarci a due generi, bisogna esserci libertà”. Questa parafrasi, è quanto avviene in un frangente di gameplay con un dialogo completamente fuori contesto da quanto si sta vivendo in quel momento. E non è l'unico. Fa un po' impressione notare questo modo di veicolare un messaggio quando si è usato una certa “eleganza” nel mettere assieme dialoghi e sceneggiatura.
Essendo un'opera prima di tutto narrativa, è dunque un peccato constatare queste piccole “imprecisioni” a fronte di una costruzione a tratti eccellente dei personaggi. Nel macro dunque, qualcosa sembra non andare nel verso giusto, con anche alcuni problemi di continuità con le scelte effettuate fino a quel momento.
In Dustborn si parte dal concetto che il linguaggio crea mondo o comunque la percezione di esso. Si è dibattuto a lungo nei circoli filosofici del potere della parola, della consequenzialità tra quanto detto e quanto realizzato effettivamente, della relazione tra significato e oggetti. Tutte cose estremamente complesse e interessanti e per quanto qui si cerchi di unire e approfondire diversi concetti, dai meme alla disinformazione, non si riesce mai ad approfondire davvero la questione. Rimaniamo sempre nel contesto di un indie in cui si è dato molto spazio dalle relazioni interpersonali – e come detto, in questo funziona benissimo – ma è un peccato notare come in qualche modo si sia voluto lanciare il sasso e poi nascosto la mano.
Un videogioco di questo tipo sarebbe molto difficile da vendere al pubblico. Del resto ci troviamo di fronte alle dinamiche di un Life is Strange che non a tutti piacciono. Dunque, si danno anche mazzate, purtroppo. Come fatto notare nella preview, il combat system è sicuramente la parte più debole del pacchetto. L'impossibilità di rimanerci secchi smonta infatti tutto il castello di carte: possiamo potenziale la nostra speciale mazza da baseball, possiamo creare nuove Vox, i nemici si fanno via via più pericolosi, ma se non è possibile perdere, qual è il senso di tutto ciò? Immaginate un Elden Ring in cui non potete mai morire. A cosa servirebbe tutta l'impalcatura RPG? Qualcuno potrebbe rispondere “almeno c'è un po' di varietà” ed è assolutamente vero ma in Dustborn, la varietà non esiste se non per l'utilizzo delle Vox. Alcune di esse sono molto utili in combattimento, come la paralisi dei nemici o lo scagliarli via ma non si avrà mai la vera necessità di utilizzarle tutte perché appunto, non se ne sente il bisogno. Il combat system poi è davvero basilare: possiamo colpire i nemici con la nostra mazza da baseball e poco più, con feedback sufficienti ma che restituiscono poco entusiasmo. Anche la parata e la schivata risentono delle animazioni estremamente “legnose” come si suol dire ma anche qui, non esiste una vera necessità di usufruirne visto che, non si può morire.
Benché la parte finale risulti un po' frettolosa, con nuove aggiunte al cast di personaggi poco rilevante e temi non del tutto approfonditi, ciò che si difende sempre bene è la componente artistica, ideata per rendere Dustborn un fumetto interattivo. Questo è un punto importante perché l'intera avventura da noi creata attraverso le scelte, diventerà un fumetto a tutti gli effetti, che sarà possibile condividere con tutti gli utenti. Da non dimenticare poi che il titolo ha anche una forte componente musicale. Dustborn infatti non è solo il nome del gioco ma è anche il nome della band punk rock di Pax e soci, un espediente per agire sotto copertura e viaggiare indisturbati da una costa all'altra. Ma per passare inosservati dovremo creare nuove canzoni e soprattutto fare pratica, con meccaniche in stile Guitar Hero. Anche la nostra bravura come band avrà influenza sulla narrazione, ma in maniera meno profonda del previsto.
Il linguaggio, la parola, l'espressività sono i cardini di questo lavoro, che a prima vista sembra gridare al mondo la propria inclusività ma una volta andati un po' più a fondo produce riflessioni interessanti. Alcune almeno.
In un mondo colpito dal cosiddetto Broadcast, alcuni esseri umani hanno sviluppato poteri particolari legati alla voce. Pax e il resto del gruppo devono intraprendere un viaggio coast to coast negli ex Stati Uniti, divenuti ormai una distopia che stizza l'occhio al fascismo, per consegnare informazioni importanti per contrastare la Justice e i Puritani, coloro che cercano il controllo assoluto. Il corpo di polizia Justice tiene appunto sotto controllo quel che resta del paese, vedendo negli Anomali (coloro che hanno sviluppato questi poteri) l'unica e vera minaccia. Ma oltre la Justice esistono i Puritani, coloro che auspicano al vero controllo della libertà altrui, che qui, come potete benissimo intuire ormai, ruota tutto attorno alla “parola”.
Partiamo dall'unica nota realmente positiva di Dustborn: il cast di personaggi e le loro interazioni. È vero, ognuno rappresenta una discriminazione, in quello che sembra l'incubo di chiunque veda nella cosiddetta “cultura woke” una minaccia. Ma il linguaggio assume connotati diversi e a volte, anche quello di etichette.
Dustborn infatti riesce a essere incredibilmente inclusivo nel senso più puro del termine, non solo in termini narrativi, visto che ogni “etichetta” viene raggruppata sotto l'unica degli “Anomali” ma anche perché si assiste a una cura sopra la media nella caratterizzazione estetica e non dei personaggi e delle dinamiche relazionali. In Dustborn, i dialoghi a scelta multipla sono infatti innovativi e dinamici, in cui possiamo interrompere l'interlocutore innescando conseguenze inaspettate, sviare l'attenzione o persino apparire distratti qualora si risponda a qualcosa che nulla a che vedere con l'ultima parte della conversazione. Tutto risulta estremamente corale e armonioso in cui si parla parecchio, con dialoghi estremamente lunghi ma piuttosto credibili, riuscendo a trasformare a un certo punto i cast di personaggi in persone. Si viene così a creare un gruppo davvero coeso in grado di far completamente dimenticare tutte le differenze tra loro. Usare le discriminazioni in questo modo è stato molto intelligente, perché sono proprio la parola, l'empatia, l'ascolto a essere veri superpoteri. La comprensione dell'altro è un tema ripercorso sin dalla notte dei tempi ed è bello vedere un videogioco che riesce molto bene nell'intento. Ma, l'utilizzo delle Vox anche in questo frangente, è la vera idea brillante. Il loro utilizzo cambia repentinamente la discussione, obbligando il nostro interlocutore ad agire come vogliamo. Come citati nella preview, si ha sensazione di trovarsi tra le mani il potere di Allison Hargreeves di The Umbrella Academy o del Geass di Lelouch Vi Britannia, con la sensazione di sentirsi un po' "sporchi". Il linguaggio come forza persuasiva si tramuta in manipolazione o persino in peggio e l'utilizzo di questo potere non avverrà certo senza alcuna conseguenza.
Vediamo i vari personaggi cambiare in modo concreto, con dinamiche ben lontane da quanto visto ad esempio in Mass Effect. La dinamicità delle conversazioni rende il tutto estremamente verosimile, in cui il giocatore viene invitato non solo a prestare attenzione per esigenze di gameplay (visto che le nostre scelte influenzano le vite e il destino di tutti loro e non solo) ma anche per ascoltare. Semplicemente ascoltare. Cosa che negli ultimi anni evidentemente si tende a fare un po' meno. Ma le parole qui hanno un peso assai tangibile: le cosiddette Vox sono armi vere e proprie, anche se dall'effetto diverso per ognuno dei personaggi presenti. La protagonista Pax, nostro alter ego, può imporre emozioni. Sai può modificare il proprio corpo. Noam, può invece edulcorare sentimenti. Le Vox essenzialmente sono una metafora del nostro linguaggio e di come lo usiamo: possiamo ferire, possiamo alleviare, possiamo curare, possiamo distruggere e creare. Ed è qui che la situazione si fa un po' delicata.
Se da un lato infatti la costruzione del mondo di gioco e dei personaggi risulta di buon livello, nel macro della narrazione si avvertono sensazioni particolari. Dustborn come detto, è un'opera estremamente politica – è inutile che ci giriamo attorno – con il team di sviluppo che cerca di veicolare i propri valori: nulla di male, i videogiochi sono una forma d'arte ed è giusto che la politica entri anche a gamba tesa in questo tipo di opere. Tuttavia, il risultato finale è un po' confusionario. Gli Anomali sono gli emarginati, una minaccia che la Justice cerca di contenere e che i Puritani cercano persino di eliminare. Affezionarsi e cavalcare le idee dei nostri eroi sembra la via più ovvia eppure non lo è. Questo perché, come in X-Men 2 di Bryan Singer, la questione superpoteri è estremamente delicata e viene utilizzata per veicolare in maniera più semplice il concetto di discriminazione. Tutto molto bello ma mentre nel film si assisteva a una dualità di fondo, a un contrasto di idee legittime in grado di portare lo spettatore a una riflessione concreta, qui tutto viene appiattito. È tutto bianco o nero, libertà o segregazione, vita o morte. Non c'è spazio per i dubbi ed è qui che si rompe un po' il giocattolo.
Come viene mostrato nel gioco, le Vox sono estremamente pericolose. Se usate incautamente possono provocare gravi danni per cui sarebbe auspicabile un minimo di controllo. Questo è quello che fanno la Justice e i Puritani (più o meno) eppure, questo legittimo controllo è visto solo e soltanto come minaccia. E come se si comunicasse al giocatore che la libertà di parola vada protetta a prescindere, indipendentemente dai danni che si potrebbero creare. Eppure si parla di odio attraverso i social network, di disinformazione... e vanno protetti? Sì, no, forse? Non è chiaro il focus del sottotesto, con la pretesa di legare questioni realmente importanti, come appunto la discriminazione e la libertà di espressione, a qualcosa di facile soluzione. E ovviamente non lo è. Sembra insomma di trovarsi in un'opera di David Cage, avvolta da bei paroloni ma povera di contenuto reale. Ma Dustborn fa anche di più: ogni tanto vuole anche moralizzare.
Uno dei problemi di Barbie di Greta Gerwig era quello di impostare la narrazione partendo da una morale. Solitamente avviene il contrario: prima si racconta qualcosa e da questo racconto scaturisce appunto un insegnamento, ma nel film con protagonista Margot Robbie il punto era uno e soltanto uno: la lotta al patriarcato. Ed era così preponderante che a un certo punto, il film andava “in pausa”, parlando direttamente al pubblico attraverso il monologo di America Ferrera, in un momento completamente slegato dalla narrazione. Ai ragazzi di Dustborn sembra essere piaciuto parecchio questo modus operandi perché, se è vero che da un lato riesce a essere la perfetta essenza dell'inclusività, a un certo punto il videogioco va “in pausa”, comunicando una morale diretta al giocatore. Un esempio: “non dobbiamo limitarci a due generi, bisogna esserci libertà”. Questa parafrasi, è quanto avviene in un frangente di gameplay con un dialogo completamente fuori contesto da quanto si sta vivendo in quel momento. E non è l'unico. Fa un po' impressione notare questo modo di veicolare un messaggio quando si è usato una certa “eleganza” nel mettere assieme dialoghi e sceneggiatura.
Essendo un'opera prima di tutto narrativa, è dunque un peccato constatare queste piccole “imprecisioni” a fronte di una costruzione a tratti eccellente dei personaggi. Nel macro dunque, qualcosa sembra non andare nel verso giusto, con anche alcuni problemi di continuità con le scelte effettuate fino a quel momento.
In Dustborn si parte dal concetto che il linguaggio crea mondo o comunque la percezione di esso. Si è dibattuto a lungo nei circoli filosofici del potere della parola, della consequenzialità tra quanto detto e quanto realizzato effettivamente, della relazione tra significato e oggetti. Tutte cose estremamente complesse e interessanti e per quanto qui si cerchi di unire e approfondire diversi concetti, dai meme alla disinformazione, non si riesce mai ad approfondire davvero la questione. Rimaniamo sempre nel contesto di un indie in cui si è dato molto spazio dalle relazioni interpersonali – e come detto, in questo funziona benissimo – ma è un peccato notare come in qualche modo si sia voluto lanciare il sasso e poi nascosto la mano.
Un videogioco di questo tipo sarebbe molto difficile da vendere al pubblico. Del resto ci troviamo di fronte alle dinamiche di un Life is Strange che non a tutti piacciono. Dunque, si danno anche mazzate, purtroppo. Come fatto notare nella preview, il combat system è sicuramente la parte più debole del pacchetto. L'impossibilità di rimanerci secchi smonta infatti tutto il castello di carte: possiamo potenziale la nostra speciale mazza da baseball, possiamo creare nuove Vox, i nemici si fanno via via più pericolosi, ma se non è possibile perdere, qual è il senso di tutto ciò? Immaginate un Elden Ring in cui non potete mai morire. A cosa servirebbe tutta l'impalcatura RPG? Qualcuno potrebbe rispondere “almeno c'è un po' di varietà” ed è assolutamente vero ma in Dustborn, la varietà non esiste se non per l'utilizzo delle Vox. Alcune di esse sono molto utili in combattimento, come la paralisi dei nemici o lo scagliarli via ma non si avrà mai la vera necessità di utilizzarle tutte perché appunto, non se ne sente il bisogno. Il combat system poi è davvero basilare: possiamo colpire i nemici con la nostra mazza da baseball e poco più, con feedback sufficienti ma che restituiscono poco entusiasmo. Anche la parata e la schivata risentono delle animazioni estremamente “legnose” come si suol dire ma anche qui, non esiste una vera necessità di usufruirne visto che, non si può morire.
Benché la parte finale risulti un po' frettolosa, con nuove aggiunte al cast di personaggi poco rilevante e temi non del tutto approfonditi, ciò che si difende sempre bene è la componente artistica, ideata per rendere Dustborn un fumetto interattivo. Questo è un punto importante perché l'intera avventura da noi creata attraverso le scelte, diventerà un fumetto a tutti gli effetti, che sarà possibile condividere con tutti gli utenti. Da non dimenticare poi che il titolo ha anche una forte componente musicale. Dustborn infatti non è solo il nome del gioco ma è anche il nome della band punk rock di Pax e soci, un espediente per agire sotto copertura e viaggiare indisturbati da una costa all'altra. Ma per passare inosservati dovremo creare nuove canzoni e soprattutto fare pratica, con meccaniche in stile Guitar Hero. Anche la nostra bravura come band avrà influenza sulla narrazione, ma in maniera meno profonda del previsto.
Dustborn è un titolo riuscito a metà: per certi aspetti innovativo nella costruzione dei dialoghi e l'interazione coi personaggi ma per il resto, forse un po' troppo abbozzato. Si ha la sensazione che lo sviluppo sia stato un po' accelerato per arrivare alla "fase gold" e finalmente uscire, il che è un peccato perché di potenziale ne ha davvero tanto. Rimane una piacevole avventura, in cui dà il meglio di sé quando si chiacchiera e basta, anche del più e del meno. Riesce a far sentire il giocatore parte del gruppo e forse è questa la cosa più importante.