Flow - Un mondo da salvare: recensione del film animato vincitore del premio Oscar
La condivisione non ha bisogno di parole.
di Artax


E gli umani, come si diceva, non ci sono, eppure anche tra gli animali sopravvivono modi di fare tipici di quell'istinto, di quella concezione tribale della società, orientata alla soddisfazione dell'individuo e al rispetto delle gerarchie, che nel film sono incarnate dalle comunità di animali suddivise per specie: i cani che vivono in branco, gli aironi che vivono in maestosi stormi, e via dicendo.
Il micio protagonista di Flow, un gatto nero che nella cultura lettone è associato alla buona sorte, nonostante nel film gli capitino di cotte e di crude, riesce a trovare salvezza nell'acqua su una barca che, mano a mano, raccoglie sopravvissuti di ogni specie all'insegna della collaborazione: un capibara, un lemure, un cane e un maestoso serpentario bianco con l'ala spezzata, timoniere del gruppo di dispersi.

Lungo il percorso, i personaggi sono portati ad accogliere altri animali il cui spirito di condivisione non è pari a quello degli occupanti dell’imbarcazione: mentre gli animali della nave hanno imparato a conoscersi e ad apprezzare le piccole idiosincrasie altrui, i “branchi”, gli “stormi” e le “colonie” non sembrano disposti a fare lo stesso, poiché non hanno mai vissuto a contatto con chi ha punti di vista diversi dai propri. Eppure, sebbene riluttanti, i protagonisti di Flow non lasciano indietro nessuno. È proprio grazie al loro altruismo, anche se non condiviso completamente da tutti, che sorgono conflitti, liti e perdite.
Le difficoltà e le sconfitte sono sentite anche dallo spettatore, poiché il film fa tesoro della mancanza di dialoghi, creando un vero e proprio discorso a tu per tu con il pubblico. Gli animali, rigorosamente non antropomorfi e lontani dalla visione disneyana del protagonista a quattro zampe, si comportano in modo autentico: non hanno volti le cui componenti umane siano accentuate, non usano le zampe per afferrare oggetti, ma agiscono come farebbe un vero esemplare della loro specie. Proprio per questo, le loro reazioni agli eventi sono genuine, rafforzate da una consapevole gestione del movimento corporeo animale. Il realismo dei loro movimenti e la loro resa amplificano la percezione emotiva, impedendo di rimanere impassibili di fronte alle scene drammatiche.

Da ricordare anche che l’intero film è realizzato con un software open source, Blender, con cui Zilbalodis riveste i personaggi con design ruvidi, textures imperfette, a ricordare molto alcune estetiche dei videogames. Poi immerge le creature in un mondo incontaminato, dove regna il senso di impotenza al cospetto della grandezza della natura. Le bestie sono piccole in confronto alle foreste, le cascate, i monti; e questi sono maestosi, vivi, da osservare con gli occhi pieni di reverenza e curiosità di un piccolo gatto che impara a sopravvivere nel mondo. Un mondo fatto di verticalità, di tendenza verso il cielo, di tentativi di raggiungere l’irraggiungibile. Il film accosta il viaggio orizzontale dei protagonisti alla verticalità del creato contro il quale si è minuscoli, unendo il tutto con riprese ampie e piani sequenza fluidi che accentuano il senso di meraviglia di cui è ammantato il loro viaggio.

Un viaggio, poi, di cui non è decisamente chiara la meta. Rimane confuso il fine ultimo: la sopravvivenza, forse, o semplicemente l’apprendimento della convivenza. Tutti si aiutano su quella barca, una zampa lava l’altra, atteggiamento che si rivela l’unico approccio per sopravvivere in un mondo selvaggio e privo di riferimenti geografici o temporali. Tempo e spazio sono concetti umani e in quel mondo l’uomo ha cessato di imporre la sua presenza. Dell’umanità rimangono soltanto lasciti architettonici alti, che affiorano dall’inondazione, in un tentativo di toccare il cielo finito forse come quello di Icaro. Che la fine dell’uomo e il ritorno alla natura sia avvenuto, in Flow, tramite la ribellione della natura stessa ha un sapore amaro e riecheggia, però, come un telefonato “te l’avevo detto”.
Ma se si guarda bene gli umani ci sono, sono negli edifici, nelle costruzioni, in tutto ciò che si sono lasciati alle spalle e soprattutto nelle enormi statue che osservano, impotenti, una piccola barca che lenta procede verso il futuro, alla ricerca di quel posto che l’uomo non è riuscito a raggiungere.