I falsi miti sulla produzione degli anime - introduzione
Cosa effettivamente comporta realizzare un anime? Facciamo chiarezza su alcuni aspetti, partendo dalle basi
di Metaldevilgear
L'industria dell'animazione giapponese non è molto trasparente riguardo ai suoi metodi di lavorazione.
Malgrado sia di indubbia utilità la presenza di serie come Shirobako, di saggi vari, video e testimonianze via social degli operanti nel settore, molte persone sono ancora all'oscuro di ciò che comporta produrre un anime, per estraneità ad un argomento (apparentemente) difficile da comprendere, o semplicemente per disinteresse.
Il pubblico è per larga parte abbandonato ad una serie di supposizioni e dicerie, che non consentono di venire a capo del reale funzionamento di questa industria. In questa serie di articoli saranno confutate alcune di queste convinzioni comuni (ad esempio, il fatto che a budget elevato corrisponda qualità elevata) per meglio comprendere i fattori che influenzano i processi produttivi di un anime.
Prima di farlo però, bisogna chiarire un paio di punti che saranno fondamentali per la discussione.
Diamo un'occhiata al seguente figura:
Lo schema illustra molto semplicemente la struttura gerarchica del processo di produzione di un anime. A ingaggiare e finanziare lo studio d'animazione è il cosiddetto comitato di produzione (che abbiamo già in parte trattato): in poche parole, diverse compagnie mediatiche che si mettono insieme, in modo da dividersi i rischi e gli investimenti - entrambi elevati, anche per le grandi compagnie - che una produzione di anime comporta.
È dunque il comitato a decretare budget e tempi necessari, quale studio sarà a disporne, e altre questioni relative al marketing. Ed ancora, è il comitato ad avere il monopolio dei guadagni, non lo studio d'animazione.
È bene non confondere questo sistema con quello degli sponsor: se è vero che ambedue forniscono una fonte finanziaria, solo il comitato è coinvolto direttamente nei processi produttivi, e vi esercita l'autorità. Chiamiamo produttori i rappresentanti di quelle compagnie che ne fanno parte.
Ci sono tuttavia casi in cui l'intervento delle suddette associazioni non è indispensabile: alcuni studi hanno i mezzi necessari per avviare in modo indipendente certi progetti, come Production I.G., o Kyoto Animation, che nel 2011 ha perfino inaugurato una propria etichetta editoriale (la KA Esuma Bunko), da cui continua ad attingere per gran parte dei suoi adattamenti animati.
Per il secondo punto chiave, dobbiamo rispolverare un po' di storia: l'industria animata giapponese era inizialmente dominata dalla Toei Dōga - prima che diventasse Toei Animation. Questa subì l'enorme influenza dell'animazione Disney negli anni '50 e '60, tant'è che provò a replicarne gli stili e gli aspetti visuali. Ma per competere con Disney fu necessario adattarsi ad un metodo d'animazione certamente dispendioso qual è la full animation.
La full animation consiste nel mantenere un frame rate stabile di almeno 12 fps (frame per secondo), il che implica che in un secondo di animazione si alternino come minimo 12 disegni diversi - a differenza dei filmati dal vivo, in animazione non è indispensabile riempire 24 fps affinché il movimento risulti abbastanza naturale alla vista.
Ad ogni modo vi erano all'epoca in Giappone molti giovani desiderosi di staccarsi dalla tradizione americana e di sovvertire le regole, persone come Isao Takahata, Hayao Miyazaki, e soprattutto il loro senpai Yasuo Ōtsuka. Quest'ultimo, che nel 1968 lavorò insieme ai futuri fondatori di Ghibli alla creazione del film La grande avventura di Horus (non a caso considerato il primo anime moderno), diede un apporto rivoluzionario al modo di fare l'animazione giapponese. Ōtsuka introdusse la tecnica nota come modulazione dei frame o animazione limitata, che consiste nel riciclare fotogrammi per quantità variabili, in modo che un secondo di animazione possa contenere dagli 8, ai 12, ai 24 disegni, a seconda delle scene.
Riciclare un disegno per tre volte significa animare in terzi (ogni disegno appare su schermo per la durata di 3 frame) pertanto si contano 8 disegni al secondo; riutilizzarlo per due volte corrisponde ad animare in mezzi (ogni disegno appare schermo per la durata di 2 frame), si può dunque già parlare di full animation; mentre animare in primi comporta ovviamente che ad ogni frame corrisponda un disegno, per un totale di 24 al secondo.
Osserviamo un esempio pratico dei diversi criteri raggruppati: si parte da sinistra con 24 fps, via via fino ai 6 fps dell'ultima animazione, logicamente la meno fluida del quartetto.
Con il boom della televisione, data la necessità di produrre episodi settimanalmente, animare a 8 fps diventò il nuovo standard per le serie giapponesi, e lo è rimasto tuttora.
Assodate queste nozioni, torniamo alla questione principale. In tanti presumono che la qualità dell'industria degli anime sia pesantemente condizionata da fattori finanziari, il che porta a formulare commenti di questo tipo:
"Finché ci sono i fondi, lo studio può permettersi gli staffer migliori"
"Finché ci sono i fondi, lo studio non ha bisogno di ridurre il numero di disegni"
"Devono aver usato la grafica 3D per tagliare i costi"
"Gli animatori meglio pagati sono sottoposti ad una mole maggiore di lavoro"
"L'animazione è molto buona, quindi devono disporre di un ampio budget"
Per quanto sia innegabile che produrre una serie animata richieda un grosso sforzo economico, si può davvero considerare il denaro come l'elemento risolutivo di tutto?
Nelle parti successive discuteremo uno ad uno gli esempi sopraindicati.
Fonti consultate:
Kaori Nusantara