The Best of Kyoani: "La Forma Della Voce" - Recensione
Omaggiamo la Kyoto Animation con la rassegna delle nostre recensioni delle loro opere più significative
di CrisTheTuber
Per non dimenticare
Da piccoli credevate nella magia? Parlando per me, se qualcuno da piccolo mi avesse chiesto “Che cos’è la magia?” io molto probabilmente gli avrei parlato di Harry Potter che agita la bacchetta e fa gli incantesimi. Per me da piccolo la magia era quello: riuscire a compiere nella realtà quello che, in teoria, è impossibile. Crescendo, ho imparato però una cosa: la magia non esiste, non è di questo mondo, non è qualcosa alla nostra portata… O almeno così pensavo fino al 24 Ottobre 2017. Quel giorno, ho capito che tutto ciò che avevo imparato sulla magia, crescendo, era sbagliato, che dovevo ancora dare retta a quel bambino che credeva nella magia. Dovevo credere nella possibilità di realizzare anche qualcosa di impossibile. Da quel momento, infatti, se qualcuno mi chiede “Che cos’è la magia?” la mia risposta è “La Forma della Voce”.
"La Forma della Voce", in giapponese “Koe no Katachi”, è un film del 2016 diretto da Naoko Yamada tratto dal famoso manga di Yoshitoki Oima. Il film, nella sua potenza comunicativa, tratta di argomenti molto difficili da mettere su schermo, soprattutto se indirizzati anche ad un pubblico di ragazzi. L’intento di Naoko Yamada, come la stessa regista ha dichiarato, era creare un film che mostrasse le difficoltà del comprendersi, la speranza che la vita possa sempre cambiare e, cosa più importante, dire a tutti che “andrà tutto bene”… e ci riesce splendidamente.
N.B: LA RECENSIONE È UN'ANALISI PUNTO PER PUNTO DEL FILM. SPOILER OVUNQUE.
Andiamo con ordine allora: La nostra storia si sviluppa attorno a due ragazzi: Shoya Ishida e Shoko Nishimiya, due “normalissimi” liceali che, per una serie di circostanze che li hanno afflitti nella loro vita, hanno perso la voglia di vivere: Shoko, essendo sordomuta, è stata vittima di bullismo alle elementari, anche e soprattutto da parte di Shoya. Oltretutto, sempre a causa del suo problema, non è mai stata in grado di comunicare appieno con i suoi compagni nonostante ci provasse in tutti i modi, e dopo averci provato continuamente, ha deciso che non valeva più la pena tentare. Tutto questo l’ha portata, quindi, a chiudersi in se stessa e a pensare di essere la causa della sofferenza di tutti coloro che le stanno intorno.
Il ragazzo, dal canto suo, quando si è spinto troppo oltre negli atti di bullismo, ha scatenato una reazione a catena che ha portato all’incrinarsi dei rapporti con tutti i compagni di classe e, in seguito, all’essere lui stesso vittima di bullismo. Il tutto culminerà poi con la totale emarginazione dal periodo del ginnasio in poi. Accanto a questi due protagonisti lacerati dal dolore, abbiamo una piccola combriccola di amici che, ognuno con il suo, sono stati importanti nella loro crescita, nel loro allontanamento e nel loro riavvicinamento. Pertanto, la storia narra del loro riavvicinamento contrapposto alla distanza che, sentimentalmente, mettono in continuazione l’uno nei confronti dell’altra.
Personalmente ho amato questo concetto sin da subito: non è un rapporto di amore e odio, in quanto, come ribadirò più avanti, è palese che i due provino più di una semplice simpatia l’uno per l’altra. Il loro rapporto è caratterizzato dalla paura più assoluta di vedersi ogni giorno e ricordarsi quanto si sono fatti male a vicenda. È una cosa che mi ha sinceramente scaldato il cuore e che mi ha fatto provare tanta tenerezza per questi due ragazzi che affrontano dei così grandi ma comuni problemi.
Proseguiamo oltre: Shoya ha rinunciato alla possibilità di comunicare con gli altri. E questo Naoko Yamada ce lo fa capire attraverso degli eccellenti espedienti di regia, di preciso tre:
Le “X” sopra le facce delle persone, le mani sulle orecchie e le sguardo costantemente rivolto verso il basso. Questi tre simboli, uniti, lasciano intendere che Shoya si è chiuso in se stesso, si sente troppo in colpa per ciò che ha fatto alla giovane Nishimiya e decide, pertanto, di farla finita. Proprio poco prima di commettere l’estremo gesto, però, capisce che c’è un’ultima cosa che deve fare: restituire a Shoko il suo “Quaderno per comunicare”.
Quando erano piccoli, infatti, Shoya e Nishimiya erano diametralmente opposti: lui estroverso e solare, lei timida ed introversa. È proprio questa loro differenza la più grande crepa alla base del loro rapporto. L’inizio del loro percorso di disperazione sarà l’ennesimo rifiuto da parte di Shoya di comunicare con la sua compagna di classe. Rifiuto che culmina con il gettare il quaderno di Nishimiya in una fontana, gesto al quale Shoko risponde con uno altrettanto sconvolgente: in una scena struggente per pathos e messaggi veicolati, noncurante dell’acqua torbida, Shoko entra nella fontana e spinge a fondo il quaderno. In quel momento, la ragazza ha rinunciato per sempre alla possibilità di comunicare con chi le sta intorno e far avvicinare gli altri al suo mondo privo di parole.
Ulteriormente shockante, per Shoya, è il pianto disperato di Nishimiya quando, dopo che era stata maltrattata per l’ennesima volta dal giovane Ishida mentre stava semplicemente cercando di ripulire il banco da alcune scritte cariche di odio, lo implora di smetterla di essere così meschino e darle una possibilità. In fondo, l’unica cosa che vuole la ragazzina è essere sua amica.
In questa parte, sarò onesto, mi è scappata la prima lacrimuccia: è stato sinceramente straziante vedere la disperazione di Nishimiya nel rendersi conto che l’unica persona che può finalmente comprenderla, anche se in minima parte, si rifiuta di farlo. È il primo grido di dolore di Naoko Yamada dei tanti che mi hanno lacerato durante la visione del film… ma andiamo avanti.
Anni dopo, con una dose di coraggio davvero encomiabile, Shoya riconsegna a Nishimiya il suo quaderno, facendole comprendere che non è mai troppo tardi per cercare di farsi capire dagli altri, e restituendole, ironicamente, quella stessa speranza che lui stesso le aveva rubato. Ed è in questo momento che, per la prima volta, Shoya decide di ascoltare Nishimiya e provare a comprenderla.
Nishimiya, dal canto suo, è estremamente colpita dal gesto, ma sente ancora di dover porre una barriera tra lei e il suo ex compagno di classe. La disperazione interiore che la ragazza sente dentro, infatti, è troppo grande per poter essere semplicemente colmata dalla restituzione, seppur importantissima, del quaderno. Basta, però, a riaccendere una scintilla che la ragazza credeva ormai estinta.
Da questo momento, la loro vita assieme sarà sia la loro dannazione che la loro gioia più grande: i due ragazzi sono palesemente innamorati l’uno dell’altra, ma il rimorso per ciò che hanno fatto e la convinzione di ferirsi semplicemente frequentandosi sono un ostacolo al loro rapporto. Anche in questo caso, quel genio di Naoko Yamada riesce a rendere visivamente questi concetti, tramite dei giochi di luci, inquadrature e scenari che mettono su schermo la divisione interiore dei due ragazzi e il loro continuo tentativo di unire due voci così diametralmente opposte tra di loro. Come esempio lampante, il mancato afferrarsi delle mani mentre Nishimiya si getta dal ponte delle carpe per recuperare il quaderno.
Soffermiamoci su questo aspetto e parliamo del lato tecnico. Kyoto Animation ha uno stile tutto suo, un character design molto particolare che ormai è considerabile un vero e proprio stile, che punta molto sull’espressività del viso dei personaggi e i dettagli degli occhi, nonché sui primi piani. Può piacere, può non piacere, sta di fatto che in questo film, a mio avviso, si sono veramente superati. Percepisco e vedo, in modo lampante, una cura maniacale per il dettaglio, per la restituzione di ogni aspetto della sfera sensoriale. I personaggi sono umani anche in questo: le loro emozioni, i loro pensieri e i loro stati d’animo si riflettono perfettamente nei disegni. Inoltre, lo stile morbido di Kyoto Animation è perfetto, in quanto riesce a trasmettere anche in questo modo tutta l’atmosfera di speranza e dolcezza che pervade questo film, creando invece un ottimo contrasto durante le scene più tristi e disperate. Le animazioni seguono perfettamente ogni spostamento dei personaggi, non ci sono parti del corpo che diventano insensatamente statiche all’improvviso e, personalmente, non noto difetti gravi nella resa animata generale. La Yamada anche qui gioca molto sulla regia, con dei campi lunghi che permettono di osservare al meglio i personaggi quando sono uniti e dei profondi primi piani nelle scene più introspettive. A seconda del momento, l’inquadratura, la luce, il colore (ciò che accennavo poco fa) accompagna il tutto, sposa l’emozione e rende ogni frame di questo film spettacolare.
Ulteriore plauso va agli sfondi, sempre dettagliatissimi, magici allo sguardo. Seppur ci siano ovviamente dei momenti che spiccano di gran lunga sugli altri (e questo è un pregio, intendiamoci, scene come i fuochi d’artificio sono manna dal cielo) la qualità media è sempre altissima. La resa visiva di cose come la pioggia e il bagnato è molto realistica e ti fa entrare ancora di più nella storia grazie all’immersione che ti fa provare la restituzione visiva della sensazione del bagnato. Sto prendendo ad esempio singoli elementi, ma mi trovo costretto a farlo perché, in realtà, tutti i fondali di questo film sono realizzati in modo maniacale, preciso e commovente per quanti dettagli presentano. In sintesi, quindi, il film tecnicamente non è perfetto, ma ci va seriamente molto vicino.
Un piccolo focus anche sul doppiaggio, quello italiano in particolare, prima di tornare alla nostra analisi. Come ho già avuto modo di dire, sia qui sul sito che sul canale, l’obiettivo a cui sto lavorando nella mia vita è proprio il doppiaggio e, pertanto, penso di poter spendere due parole di approfondimento su questo aspetto.
Partendo da quello giapponese, devo dire che è stato fatto davvero un buon lavoro generale, con Miyu Irino (Shoya) e Aoi Yuuki (Yuzuru) che spiccano per interpretazioni. La traccia audio generale mi è sembrata, in pochissimi punti, saturata (quando ci sono quelle poche urla), ma quando ci sono interpretazioni del genere ci puoi tranquillamente passare sopra. La voce rotta dal dolore di Yuzuru quando Shoya è in ospedale ti fa soprassedere a qualunque errore di incisione, così come l’urlo di Shoya quando Nishimiya sta per compiere l’estremo gesto fa venire la pelle d’oca. Il doppiaggio giapponese è una scuola completamente diversa dalla nostra, ma ha diversi lati di fascino che non vanno ignorati.
Passando all’edizione italiana, ci troviamo davanti a uno dei migliori doppiaggi mai confezionati da Dynit: Federico Campaiola è stato magistrale, perfetto, incollato su ogni singola battuta di Shoya. Mi ha emozionato ogni singola parola da lui pronunciata, e l’empatia che ho provato con il personaggio grazie alla sua interpretazione è stata fortissima. Non esagero nel dire che, un giorno, sarei contento di emozionare anche solo a metà di quello che ho provato il 27 Ottobre 2017. Il cast in totale si attesta su un ottimo livello, con Alessio Puccio, Lucrezia Marricchi e Ludovica Bebi che spiccano nel cast di comprimari. Anche nella nostra edizione, quindi, un prodotto coi fiocchi.
Tornando al film, perno fondamentale sono i secondari, vecchi amici e nuove conoscenze sia di Shoya che di Shoko, che li aiuteranno, nel corso del film, a capire quali aspetti del loro comportamento li hanno portati dove sono in quel momento. Shoko arriverà, addirittura, a riuscire ad esternare i suoi sentimenti a Shoya attraverso le parole, dimostrando di voler superare ogni barriera dettata dal suo maledetto handicap. Un grande passo avanti per uscire dalla sua chiusura interiore… purtroppo però non andato a buon fine (SHOYA BAKA).
Ricostruendo il gruppo, Shoya e Shoko ricominciano ad apprezzare i piacere offerti dalla vita, come il divertirsi, l’uscire con gli amici, mangiare un gelato o andare sulla ruota panoramica.
Mano a mano, quindi, le “X” sui volti iniziano a scomparire e i due ragazzi scoprono di poter essere felici nonostante il loro travagliato passato.
Si sa, però, che spesso certe crepe sono troppo grandi per poter essere riparate in poco tempo ed è esattamente quello che accade ai nostri protagonisti.
Chiave di volta del rapporto di tutti è la scena sul ponte.
In questo momento, ognuno dei personaggi, protagonisti e secondari, ha mostrato la sua vera natura:
tutti si sono rivelati, in fondo all’anima, di essere ancora incapaci di comprendersi a vicenda, di trovare un punto in comune. L’unica cosa su cui riescono a convenire è che non hanno il diritto di addossare tutte le colpe a Shoya. Il giovane Ishida, però, non è d’accordo, e oltretutto non ne può più di vedere i suoi amici comportarsi come lui si era sempre comportato, e pertanto decide di allontanarli tutti.
Dopo una buona porzione di film in cui Shoya aveva finalmente compreso di poter essere felice nonostante tutto quello che aveva sbagliato, il vedersi di nuovo sbattuti in faccia i suoi errori lo fa ripiombare nella disperazione, trascinando, inevitabilmente, Nishimiya con sé. Shoko è infatti convinta di essere lei la causa di tutto questo, e non riuscendo, per l’ennesima volta, a comunicare ciò che sente, può solo sorridere e fare finta che vada tutto bene.
Su questa parte ho letto molte critiche che, a mio avviso, non stanno proprio né in cielo né in terra, in quanto dipingevano i comportamenti dei ragazzi come irrealistici, con delle reazioni esagerate e dei ragionamenti assurdi. Mi viene dire, forse con un po’ di arroganza, che chi fa queste dichiarazioni o ha avuto la grandissima fortuna di non vivere, anche in minima parte, quello che gente come loro ha dovuto sopportare, oppure non ha semplicemente capito un fattore fondamentale: i sentimenti sono qualcosa di estremamente soggettivo, e questo film mira anche a insegnarci questa cosa.
Di conseguenza, ogni adolescente agisce secondo un rapporto causa-effetto estremamente personale. C’è chi ha un’anima più debole e una più forte, chi sa guardare in faccia la realtà e chi si nasconde per paura di ammettersi fragile. Gli adolescenti sono così, ognuno diverso dagli altri e tutti con le loro sfaccettature di egoismo da superare. Se qualcuno si comporta in modo diverso da te non è necessariamente sbagliato… Siete solamente diversi. E muovere una critica del genere dopo la visione di questa poesia animata è, a mio modestissimo avviso, una grande mancanza di rispetto nei confronti della Yamada e dello splendido messaggio che vuole far passare.
Da lì in poi, ogni inquadratura, colore ed evento caratterizzante del film non fanno altro che trasudare disperazione e malinconia. Sentimenti che culminano nella scena del tentato suicidio di Nishimiya. La ragazza, infatti, pensa di rendere infelice Shoya tramite la sua sola esistenza, e ritiene, perciò, di dover sparire. In quel momento, Shoya comprende quanto la ragazza sia importante per lui, e chiamandola per la prima volta per nome, in preda alla disperazione di poterla perdere, ammette a se stesso che la ama. E stavolta, a differenza del ponte delle carpe, riesce a raggiungerla.
Il lancio disperato di Shoya per prendere la ragazza prima che sia troppo tardi restituisce a lui la consapevolezza di poter essere una persona migliore e poter camminare a testa alta nella sua vita. E cosa più importante, restituisce a Shoko la voglia di vivere, altra cosa che sempre Shoya le aveva sottratto anni addietro. Grazie a questa ritrovata forza, Nishimiya, mentre Shoya è in coma in seguito alla caduta riportata per poterla salvare, riesce a ricostruire i rapporti che si erano incrinati sul ponte, ma nulla può sostituire il vuoto che ha lasciato dentro di lei la presunta morte di Shoya.
Dopo averlo visto in sogno, infatti, la ragazza corre disperata sul ponte delle carpe, sperando con tutta se stessa che Shoya sia lì, e scoppia a piangere realizzando che non solo non si trovava lì, ma probabilmente non ci sarebbe mai più stato.
Ciò che Shoko non sa è che, in realtà, Shoya sta benissimo, e anche lui ha fatto lo stesso sogno, ed è lì a due passi da lei. E cosa più importante, Shoya finalmente è una persona nuova. Ha capito finalmente dove ha sempre sbagliato e cosa prova davvero per la ragazza, e dimostrando che vuole davvero comprendere la forma della sua voce, si dichiara con il linguaggio dei segni. Qui la Yamada si è sinceramente superata: è riuscita a ricreare, con i discorsi, le inquadrature e le musiche tutta la tenerezza che i due ragazzi stanno provando in quel momento, dimostrando che non è necessario un bacio per far mettere insieme due personaggi. Basta qualcosa di più semplice, più in linea con ciò che vuole comunicare. Ma, citando il buon Giaggiu, se lo spettatore medio non vede un bacio si triggera tantissimo, quindi molti, purtroppo, questo splendido simbolismo non lo hanno colto.
Ed è però nella scena finale che Shoya coglie finalmente l’insegnamento più grande che il suo percorso di redenzione l’ha portato a comprendere: lui non merita di essere triste, non è giusto che lo sia, è semplicemente una persona che ha sbagliato e ha finalmente capito come non sbagliare più.
E ora che finalmente ha capito come usare il vecchio se stesso per migliorare, Shoya alza lo sguardo, si stappa le orecchie e smette di vedere tutti come delle “X”. Shoya ora riesce a guardare tutti, riesce a respirare un’aria carica di speranza… Shoya, così come Nishimiya, ha ritrovato la voglia di vivere, dopo aver finalmente appreso la sottile differenza tra vedere e guardare e tra sentire ed ascoltare.
Pertanto "La Forma della Voce" è un’opera spaccacuore: è la celebrazione più pura della vita e della voglia di cambiare per migliorare se stessi e gli altri. È una lettera d’amore con cui Naoko Yamada ha voluto comunicare a tutti che c’è sempre qualcuno che ci vuole bene, che i nostri errori non sono mai irreparabili, che possiamo sempre fare qualcosa per poter cambiare noi stessi. È una meravigliosa poesia che, con una narrazione mista tra dolcezza e durezza, ti tira direttamente un pugno nello stomaco, mostrandoti con quanta cattiveria qualcuno può ferirti per il mero gusto di farlo.
Ti mostra in maniera cruda e spietata quanto una persona può sentirsi sola se è bersagliata dagli altri. ti tira in faccia la realtà e ti urla piangendo di accettarla, facendoti vedere che i sentimenti delle persone sono qualcosa che nessuno ha il diritto di calpestare. Ti mostra quanto sia complicato accettare i propri errori e quanto sia assurdo arrivare a pensare di non meritare di vivere per colpa di essi, perché c’è sempre una speranza… Questo film, anzi, questo capolavoro è un invito ad ascoltare il cuore degli altri.
Siamo nell’era dei giudicatori. Viviamo in un’epoca dove, ormai, tutti giudicano tutto. Ci sono programmi in televisione dove la gente va per farsi giudicare e chiunque, semplicemente con una connessione Internet, può esprimere giudizi su qualcuno o qualcosa anche in maniera piuttosto opinabile… Come me del resto.
Tutti si credono esperti di tutto e si sentono in diritto di sentenziare contro qualsiasi cosa anche senza sapere minimamente di cosa stanno parlando, pensando di poter giudicare ciò che hanno davanti fermandosi semplicemente a ciò che hanno visto, senza considerare ciò che hanno guardato.
E in un mondo dove tutti considerano l’oggettività, i buchi di trama e la sceneggiatura, fermandosi quindi all’estetica del contenuto, Naoko Yamada cerca di ricordarci che questa è arte e l’arte non è fatta solo di giudizi, è fatta anche di coinvolgimento emotivo, di lasciarsi andare, di piangere, di ridere, di gridare e disperarsi perché quello che abbiamo visto ci ha lacerato nel profondo.
Naoko Yamada ci sta dicendo di smetterla di giudicare qualsiasi cosa abbiamo davanti e provare, per una volta, a comprenderla. A cercare di comprendere la forma della sua voce.
Per me, "La Forma della Voce" è davvero un capolavoro: un film assolutamente perfetto per quello che vuole essere che è stato in grado di raggiungere appieno il mio cuore.
È stato in grado di restituirmi la pace dopo che tante cose me l’avevano portata via.
È stato in grado di rievocare tanti ricordi che avevo volutamente represso per non stare più male insegnandomi a conviverci.
È stato in grado di darmi una grinta che, nel particolare momento che stavo vivendo, mi ha sicuramente dato una mano ad andare avanti.
Ed è stato in grado restituirmi quella speranza di poter superare qualunque ostacolo che, ormai, credevo perduta.
Alla fine, avevi ragione Yamada:
È andato tutto bene
Ti ringrazio.