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Quando ci si attende cose grandi da un’opera la delusione più cocente che si può ricevere è quella causata dalla presa in giro voluta da chi ne è artefice.
Sentenze del genere non sono tirate fuori dal nulla, anche se potrebbero sembrare simili a frasi fatte; in realtà derivano da esperienze dirette, spesso traumatiche.
Space Symphony Maetel avrebbe dovuto essere la vera rivincita dell’universo di Galaxy Express e di Maetel stessa che ne è l’emblema. Invece questa serie OAV del 2004 mortifica definitivamente ogni speranza di trovarsi di fronte alla storia di uno dei più grandi personaggi di Matsumoto narrata finalmente per come si deve. Un’attesa che ci si portava dietro dalla visione della serie del 1979, ogni volta sotterrata puntualmente dalla delusione.

Perché vedere Space Symphony Maetel è lesivo di qualsiasi ultimo briciolo di pazienza o di buona predisposizione? Dopo un primo OAV sensazionale, sia sul versante della trama sia su quello tecnico, avviene una discesa libera verso l’inutilità dei fatti narrati e di molti dei personaggi, che spesso risultano privi di qualsiasi approfondimento caratteriale. Questo è un escamotage quanto mai trito, ma che qui appare ancora più subdolo. Lo spettatore si troverà di fronte a una cornice di due OAV dai livelli molto alti – il primo e l’ultimo – che racchiudono un nucleo di episodi che su tutti i versanti fanno semplicemente acqua da ogni parte.

Ma andiamoci con ordine. La parabola discendente comincia dai protagonisti e dalla trama. Il pianeta Lamethal, che proprio nel mediocre prequel “Maetel Legend” viene presentato per la prima volta, è ormai completamente ricoperto da neve e macchine. È un’immagine suggestiva, unica, che tanto poteva raccontare. E in effetti all’inizio della vicenda la disposizione scenica e simbolica dei soggetti è suggestiva. Per come viene presentato il pianeta nel primo OAV gli spunti di riflessione potevano essere molto interessanti: la neve è fredda come gli automi sotto le dirette dipendenze di Promethyum. Loro ormai hanno sotto il pieno controllo gli ultimi esponenti della razza umana. Quest’ultima è relegata nella parte più periferica, più vicina al nucleo, più calda, proprio come i loro cuori.
E Maetel finalmente ci appare in tutto il suo dissidio, l’animo straziato dai sentimenti contrastanti di attrazione-repulsione verso ciò che è la sua casa, verso ciò che rappresenta la madre Promethyum, il focolare domestico spento per sempre dalla morsa del gelo e della fame.
La razza umana non può fronteggiare con la tecnologia – seppure avanzatissima e sicura - la forza della natura: la serie avrebbe voluto comunicare un tema quanto mai attuale.
E Promethyum, anche lei dall’animo lacerato, ancora troppo umano per essere la regina di un pianeta che ambisce a essere il regno delle macchine, allo stesso tempo mostra la fredda determinazione di un automa, una sconcertante certezza matematica nel calcolare il raggiungimento degli obiettivi. Promethyum ha un’evoluzione unica ed è il solo personaggio che salva la serie sul versante della caratterizzazione. La piena umanità che la connota nasconde qualche piega sottile e sconosciuta, che ne fa una donna criptica e sfaccettata.

Ecco come ci si presenta la serie nei primi due OAV. Ma le speranze e le attese vengono subito abbattute. Già nello svolgimento del secondo OAV assistiamo a un calo di qualità vistoso, ci troviamo di fronte a personaggi patinati e inutili, adornati di una retorica patriottica pedante e inclini a sacrifici dominati dal solo slancio irrazionale per la vanagloria.
Osserviamo il protagonista Nazca che, a parte l’entrata in scena niente male del primo OAV, non fa altro che cianciare. La sua vigliaccheria non ha limiti e lui spesso finisce per essere offuscato dagli altri personaggi presenti in scena, per giunta secondari.
La parte centrale della serie – ciò che è raggruppato nella cornice di cui sopra – non è che un malmesso pot-pourri di situazioni ed eventi slegati tra loro.

Affascinato dal possibile svolgersi di una bella battaglia spaziale, lo spettatore viene subito disatteso con l’intramezzo di scenette inutili su Nazca e compagnia, la cui presenza scenica davvero insignificante finisce per snervarlo. Il tutto si articola su una trama altalenante, spezzettata, noiosa, che non fa che emulare al contrario il ritmo convulso e coinvolgente del primo OAV.
Speranzoso di ritrovare un rialzamento del filo narrativo nei camei di Harlock, Tochiro ed Emeraldas, chi guarda l’opera ritroverà ancora una volta fantocci irriconoscibili che dei personaggi veri che vogliono imitare hanno conservato solo un’esagerazione parossistica del lato “leggero” del loro carattere.
E la Death Shadow? Il suo unico compito sarà, assieme alla Queen Emeraldas, di volteggiare fino alla fine della serie, senza sparare neanche un colpo dai suoi storici cannoni.
E il rapporto di Promethyum con le figlie? Se il rapporto con Maetel sarà approfondito in maniera egregia nel primo OAV, ci si dimenticherà totalmente del legame con Emeraldas, che finirà per fronteggiare la madre senza nessun moto. Il filo tra la madre e la figlia viene completamente reciso, con la conseguenza di presentare sulla scena due perfette sconosciute.
Qualcosa si risolleva nell’OAV finale, la trama s’infittisce per giungere alle dovute conclusioni; la regina Promethyum finalmente si rivela un personaggio unico, denso di fascino e sterminato quanto la sua stessa essenza. Ma sono solo piccoli sprazzi che lasciano allo spettatore ancora troppa sete.

Il perfido escamotage in effetti ha un perché evidente: si tratta di una goffa scelta della Avex per mascherare alla bell’e meglio i bassissimi budget di produzione creando luccicanti specchietti per le allodole.
Il primo specchietto su cui si punta in assoluto è il chara-design. I disegni sembrano appartenere a due opere disparate. La figurazione raffinata lascia il posto al disegno grossolano e dai contorni rozzi dell’OAV 3, che finirà per perpetuarsi fino al penultimo, alternandosi, ma per pochi fotogrammi, a disegni solo lievemente migliori. L’assenza di budget è l’unica motivazione accettabile per giustificare una diversità così sconcertante, fino al punto che sembrano esserci due stili nel settore del chara, non soltanto quella di Masunaga Keisuke, nonostante tutto encomiabile per ciò che è riuscito a fare negli OAV- cornice.

Stesso discorso per la fotografia e per la grafica: qualità medio-alta per i primi e l’ultimo OAV, scarsezza vergognosa per gli OAV centrali.
Il tocco registico è pressoché assente. Sembra quasi che la mano del regista Masaki Shinichi si sia “allontanata dal ciak” dopo il primo bis di OAV, lasciando la serie in balìa del caos narrativo, dell’affollarsi e dell’affastellarsi di immagini non legate tra loro sulla scena. Il risultato è un vociare vano e fastidioso di personaggi-macchietta che finisce per fare perdere il filo della vicenda principale. Il taglio delle scene è troppo netto, ci sono stacchi eccessivamente duri che allargano fin troppo la struttura già di suo smagliata della trama.
L’unica cosa che resta costante è il mecha, opera di Itabashi Kotsumi, nome costante che ci accompagna da altre celebri rese in anime dell’universo-Matsumoto e noto per la precisione dei dettagli. L’autore ha realizzato le affascinanti astronavi-ammiraglie della flotta di Lamethal e di Promethyum, emozionandoci nel regalarci ancora una volta la cara vecchia immagine dell’Arcadia-Death Shadow.

Altro punto in meno alle musiche, di qualità mediocre. I motivi si ripetono stanchi, petulanti fino alla fine. Non trasmettono pathos né tensione, diventando un sottofondo anonimo che si mimetizza alle orecchie tra le parole dei dialoghi, che riescono a nasconderle nonostante il loro spessore esiguo. L’autore è Hakase Tarou, nome sconosciuto, d’altronde la carriera precedente è inesistente.

Come giudicare questo prodotto? Non è certo facile per chi prima d’ora si è trovato davanti di peggio riguardo all’universo di Galaxy Express. Lo sconforto per l’illusione che finalmente si fosse riusciti a realizzare un’opera degna di Maetel lascia il posto alla domanda se a questo punto non fosse stato meglio realizzare un lungometraggio. Magari si sarebbero evitati sforzi inutili, parole blaterate, personaggi caratterialmente falliti. Magari si sarebbe potuta raccontare infine una storia nel vero senso della parola. Una storia con protagonista la donna che ha segnato la fama e la carriera di Matsumoto, che rappresenta la sfida all’eternità e che con questo prodotto verrà dimenticata per sempre come un astro che si è spento alla fine del suo lungo peregrinare.
Peccato che la cornice da sola non faccia il quadro: la media tra il nove della cornice e il tre del quadro è sei.