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<i>Miraggio</i>: parola evocativa fin dai suoni che la compongono. Su questo nome gioca un <i>Matsumoto</i> maturo, che ha già raccontato molte e molte storie e che adesso più di prima sa trastullarsi con la fantasia di un lettore che lo sappia seguire prescindendo dai piani logici di una narrazione sequenziale. <b>Racconti dal Bar Miraggio</b> possiede tutte le caratteristiche di un’opera matura, essendo spesso criptica e dominata da una vena di amara consapevolezza che è tipica di una visione della vita di lunga durata.
Il bar Miraggio non ha un’identità precisa, è simile a una nebulosa sperduta di un lontano spazio, che può apparire casualmente a chi vaga senza meta, quando meno se l’aspetta. Il tema del continuo errare, tanto caro a <i>Matsumoto</i> fin dai tempi di <i><a href="/manga/Capitan+Harlock">Harlock</a></i>, è presente anche qui. La novità sta nel topos dell’oasi in mezzo al deserto, un miraggio quasi evanescente per il vagabondo che lo avvista.
Lì c’è Maya, una donna – nel vero senso della parola – che come tale può essere madre, compagna, amante, confidente, personificazione capricciosa dell’illusione e della vanità. Maya è la rappresentazione poliedrica di ciò che è l’essere femminile. Il nome stesso di Maya nelle sue radici etimologiche è arcano, custodisce il suo segreto, il segreto della sua realtà o – se così si può dire – della sua irrealtà. A Maya <i>Matsumoto</i> è riuscito a conferire la stessa aura di Harlock quanto a fascino e a mistero. Il suo sguardo interlocutorio contiene tutta la storia e tutte le storie degli uomini. La donna è un primordiale mistero la cui rivelazione porta Tatejima, il protagonista, a perdersi. Maya contiene in sé l’amplificazione e la dilatazione di tutte le qualità delle donne, dall’essenza materna alla più cupa aspirazione vendicativa. Maya può anche essere un’allegoria, ma è quanto mai reale nel forte carattere che la contraddistingue. Maya è il mistero stesso dell’esistenza, è un’<i>esistenza ancora viscida</i>.

Il bar Miraggio compare nel bel mezzo della città al protagonista, Tatejima, un povero ragazzo in cerca di lavoro. Maya sbuca dalla penombra, un contorno non perfettamente definito, quasi mangiata dall’oscurità. Maya interroga il ragazzo, diventa la proiezione della sua coscienza, il riflesso del suo destino.
E subito ci si trova di fronte a un protagonista che conserva le caratteristiche fisiche di un Tetsuro, ma che allo stesso tempo è profondamente diverso da lui. Tatejima mostra la maturazione dell’autore nella caratterizzazione dei protagonisti: le inclinazioni vanagloriose e fanfarone lasciano il posto a un personaggio estremamente conscio dei suoi limiti, che spesso gli pregiudicano un ambìto posto in società. Tatejima si mostra alquanto riflessivo e cauto, si sofferma a rimuginare su se stesso. Egli si potrebbe considerare un Tetsuro adulto e ripulito da tutte quelle spigolosità che lo rendevano un protagonista insopportabile.

Il destino è la tematica che fa da sfondo a ogni racconto che si incastona dentro la cornice del locale. Questo grande quadro racchiuso dal bar Miraggio è un unico volume, che custodisce come un forziere pagine di storia che si susseguono al di fuori della logica del tempo e dello spazio. Un lettore profano potrebbe rimanere irretito nei fili della narrazione, intrappolato nell’illusione di trovarsi di fronte a un’opera che di unico ha solo il nome: una semplice sommatoria di racconti autoconclusivi e in sé conchiusi. Un lettore del genere fa la fine di quegli stessi personaggi che una volta usciti dal bar non lo ritroveranno mai più. D’altronde l’opera ha lo stesso effetto del Miraggio: è ingannevole, e raggira chi la minimizza, essendo uno caleidoscopio che ricompone i suoi elementi per realizzare forme incessantemente cangianti. Tutto con l’ausilio di una tecnica narrativa che si serve degli espedienti dell’esordio in medias res – non del tutto sconosciuto a <i>Matsumoto</i> – e dell’elisione.

L’insieme di racconti che costituiranno il soggetto del quadro risale al 1991, quando questi furono pubblicati in serie sulla rivista seinen <i>Big Comic Superior</i> della <b>Shogakukan</b>. Ogni storia propone un percorso interpretativo ben delineato, ma al contempo mischia ad arte sogno e realtà, cosicché ne risultano alienate tutte le razionali distinzioni tra successione logica e cronologica.
Il passato è già stato scritto e il futuro è l’unico spazio in cui si può agire, a condizione di non interrogare il destino. Il presente è da vivere, finché si può, finché l’illusione della vita non si estinguerà con una frase uguale a un verdetto finale di salvezza o condanna, sotto lo sguardo di una donna con l’abito nero, dotata di “accette di mantide” o di tenere braccia.
A spiegare in maniera simbolica l’identità di Maya interviene lo specchio. Nella prospettiva rovesciata dell’opera, lo specchio, di solito connotato come portatore di vanità e d’illusione, si trasforma nel massimo veicolo di verità. Il riflesso di Maya è simile a quello di una chimera, mostruosa e allo stesso tempo paradossalmente veritiera.
Maya, miraggio, passato, presente, futuro, sogno, realtà sono le parole chiave di un’opera che vuole essere la rappresentazione del trapasso, limen che separa la vita dalla sua fine. La soglia del bar Miraggio è la vera soglia: una volta varcata, la vita cambia, per sempre.

E il tutto si gioca sul vedere, sul non vedere, sul credere o meno a quello che si vede, stravolgendo una volta e per tutte la radice etimologica del termine “<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Storia#Etimologia">storia</a>”. Il Miraggio è un luogo dove l’è stato e l’adesso si ricongiungono; così nell’opera non mancano episodi in cui sono visibili perfino due Maya, figurazioni simboliche di una coscienza di stampo quasi “bergsoniano”.
Luce e tenebra si alternano in maniera netta, e ciò si evince dalle precise scelte grafiche di <i>Matsumoto</i>. Non c’è un trapasso graduale dalla luce all’ombra. Le tavole del volumetto sono tutte o bianche o nere, perché la visione dell’autore è dicotomica. O si vede o non si vede, non si può vedere ciò che c’è nell’oscurità se non c’è luce. E c’è solo un posto in cui si può trovare la luce per vedere…

Il finale spiega in maniera inoppugnabile l’inevitabilità del destino denotando la prospettiva fatalista di <i>Matsumoto</i>. Ma si tratta di una visione diversa dalle precedenti produzioni dell’autore: i tempi dell’Arcadia vittoriosa e forte hanno lasciato il posto allo scavo continuo nelle pieghe dell’animo umano. È qui che sta la cesura. Un gioco di specchi e di riflessi ricorsivi si snoda sotterraneo nel messaggio dell’opera, come se la realtà di tutti i giorni fosse un’utopia, una mera corsa in cui ci affanniamo per afferrare un traguardo finale che consiste nei nostri più concreti obiettivi. I quali a conti fatti di concreto hanno solo ciò che noi crediamo essere tale.

La profonda maturazione di <i>Matsumoto</i> è testimoniata anche dai disegni, all’apparenza non molto distanti da quelli delle opere precedenti: le donne mostrano corpi sinuosi, sensuali ed eleganti. Come sempre la grazia femminile lascia spesso il posto a personaggi maschili deformi. Però sguardi come quelli di Maya non si sono mai visti nelle altre donne di <i>Matsumoto</i> e, seppure graficamente Maya sia molto simile alla Maetel di <i><a href="/manga/Ginga+Tetsudou+999">Galaxy Express 999</a></i>, il suo sguardo sornione e astuto scuote la coscienza del lettore. Maya è l’evoluzione ultima dell’essere femminino “matsumotiano”. Lacrime come quelle che solcano il suo viso sono singolari, così come unico è lo sguardo che scava in chiunque la interroghi.
La tipica vena caricaturale dell’autore qui si fa ancora più accentuata, cosicché spesso le qualità morali del personaggio sono affatto riscontrabili nei suoi tratti fisici. <b>Racconti dal Bar Miraggio</b> è dunque una sorta di galleria fisiognomica, in cui sfilano tutte le possibili varietà di caratteri e di casi umani. Allo stesso tempo lo stile figurativo dell’opera è testimone di una profonda evoluzione in quella che è la resa dei moti interiori del personaggio.

Gli sfondi sono pochi, e ciò è in linea con il significato dell’opera, ambientata in gran parte nella sala del bar, tappezzata da una lussuosa carta da parati, quasi un apparato scenico per le rappresentazioni inscenate al Miraggio. Quando sono presenti, gli sfondi emozionano, perché accorpati all’intensità linguistica dei dialoghi.
L’appassionato dell’Arcadia ricaverà dai dettagli tecnologici che percorrono il volumetto una magra soddisfazione, visto che il mecha tipico delle produzioni di <i>Matsumoto</i> qui non avrà molto spazio.
Il tratto è un altro fattore indice di piena maturità. Linee sinuose e ondulate fanno da contorno alla figura di Maya, evidenziandone il languore quasi esotico, così come linee interrotte e spezzate definiscono i personaggi dall’equilibrio precario che affollano il locale.
Lo scorrimento convulso della narrazione trova espressione in tavole dinamiche, che suddividono la pagina in un caleidoscopico succedersi di focus su volti, occhi, parti del corpo, oggetti vari, che con la semplicità della loro apparizione raccontano la complessità del genere umano. I dettagli ricorrono con insistenza nei punti di snodo di ogni storia, a imprimere nella memoria visiva del lettore l’oggetto ritrattovi, che si fa simbolo narrante.

Quest’opera è stata pubblicata in Italia da <b>Hazard Edizioni</b>, editore che già tempo fa di <i>Matsumoto</i> aveva pubblicato opere importanti e mature, non ultime <i><a href="/manga/Queen+Emeraldas">Queen Emeraldas</a></i> e <i><a href="/manga/La+corazzata+spazio+temporale+Mahoraba">La corazzata spazio-temporale Mahoroba</a></i>.
La qualità dell’edizione è alta, la stampa è buona, soprattutto nella resa del nero. Il nero costituisce una parte significativa nelle tavole delle opere di <i>Leiji Matsumoto</i>, e la sua resa è fondamentale per apprezzarle a fondo. Sono degne di nota anche la qualità della carta e della copertina.
Da segnalare la resa dei concetti nell’italiano, di non facile realizzazione data la complessità dell’opera, coerente e chiara nell’esprimere pensieri che il più delle volte condensano un nucleo composito di filosofia. Qualche piccola imperfezione nell’apparato delle note e qualche svista non inficiano dunque la bontà del lavoro svolto dalla casa editrice.

A un lettore troppo avvezzo al <i>Matsumoto</i> dei tempi di <i>Galaxy Express 999</i> o di <i>Capitan Harlock</i>, <b>Racconti dal Bar Miraggio</b> si presenta come frutto di un autore irriconoscibile. Ma non bisogna allarmarsi, questo è solo l’effetto immediato che suscita l’opera, soprattutto a colui che non ha avuto il tempo e la voglia di andare oltre la superficie, perché lo scrigno ha un fondo che può contenere ancora molto, se non molto di più. I risultati di questa lettura potrebbero essere due. Se il lettore è l’affezionato alle strategie e ai combattimenti spaziali, allora quest’opera lo sconvolgerà. Se invece il lettore appartiene alla tipologia degli estimatori della filosofia profonda e malinconica che indaga le radici del comportamento umano, presente nel <i>leijiverse</i> al di sotto delle contingenze, allora non potrà che considerare quest’opera come un prezioso testamento da custodire. Un testamento in cui l’autore ha condensato la sua visione antropologica e metafisica dell’esistenza, e se stesso.
In fondo un bancone da bar e una bottiglia di sakè ci sono sempre stati, nel <i>leijiverse</i>, e in quest’opera costituiscono la scena principale, sulla quale si narrerà l’atto conclusivo del miraggio dell’esistenza: l’autore ci aspetta lì, fuori dal teatro.