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7.0/10
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"I'm an alien, I'm a legal alien
I'm an Englishman in New York."
(Sting, "Englishman in New York")

La cosa buffa di "Piece" è che per molti versi la sua lunghezza calza alla vicenda ivi narrata come un guanto, mentre in altre circostanze si ha come l'impressione che le conferisca, a seconda delle occasioni, una "taglia" in più o in meno rispetto a quella che dovrebbe portare. Non ha molto senso, lo so. Non è previsto che ne abbia. Ma non è neppure previsto che un simile paradosso abbia luogo. Chiariamoci: a livello di intrattenimento e di scavo introspettivo non vi è nulla da rimproverare a Hinako Ashihara, che anzi denota un'innegabile avvedutezza in entrambi gli ambiti; il problema, semmai, è la dispersività di un impianto narrativo le cui propaggini, per quanto promettenti, lasciano un po' di amaro in bocca per come si amalgamano - o non - fra loro.

Fredda, anodina, sussiegosa, anaffettiva: a soli diciannove anni Mizuho Suga gode di una nomea tutt'altro che invidiabile tra amici e conoscenti, per non parlare di come anche i suoi genitori, in particolar modo la madre, non abbiano la più pallida idea di cosa le passi per la testa. La sua tendenza a razionalizzare ogni cosa non le permette di vedere il quadro d'insieme e, conseguentemente, prendere coscienza di quanto la sua inadeguatezza sociale minacci di rovinarle la vita. A riscuoterla da questo stato di torpore emotivo è la morte di Haruka Origuchi, una sua ex compagna di classe che, a dispetto della fugacità delle loro interazioni, sembrava tenerla in grande considerazione - così grande, in effetti, da spacciarla con sua madre per la sua unica amica. Mizuho sa di non meritare i ringraziamenti in cui la donna, che non ha mai saputo come prendere la figlia, si profonde per esserle stata vicino fino alla fine, ciononostante si lascia persuadere a far luce su un aspetto a dir poco sconcertante della sua breve vita, non avendo il benché minimo sentore di quanto questo viaggio nella memoria - la sua prima ancora di quella della ragazza - finirà per cambiarla.

Che il mistero di Haruka sia il motore immobile della storia e non la storia risulta lampante fin dall'inizio, che infatti non ha nulla a che vedere con lei: del resto è Mizuho che il lettore vuole vedere sbocciare, e se questa è la molla di cui ha bisogno l'innegabile comodità di siffatto espediente narrativo - che badate bene, di per sé è più che legittimo - passa tranquillamente in secondo piano. E allora qual è il problema? È presto detto: il fatto che l'interrogativo originale non sia il più importante non significa che meriti una risposta raffazzonata. E il modo in cui la Ashihara, peraltro dopo essersi presa tutto il tempo del mondo, liquida la spinosa faccenda è quantomai maldestro, neghittoso, sbrigativo, inconsistente. Spiace dirlo, e molto, perché le intenzioni erano certamente delle migliori, ma tant'è. Qualche segno premonitore, in retrospettiva, ci sarebbe, ma nessuno di questi è il tarlo da cui il lettore, pur distratto dalle varie sottotrame, dovrebbe venir roso. In altre parole non si capisce quanto la Ashihara avesse premeditato la cosa fin dall'inizio e quanto, invece, si sia risolta soltanto in seguito a fare della proverbiale mosca un elefante azzoppato.
Una grave pecca, d'accordo. Cionondimeno sarebbe disonesto da parte mia affermare di aver mai avuto la sensazione di stare perdendo il mio tempo, ed è proprio per questo che la delusione è tanta. Perché okay, magari Haruka è un pelino troppo immobile persino per gli standard dei motori immobili (il che è anche comprensibile, dato il suo status di personaggio postumo), ma quel che c'è in mezzo vale il prezzo del biglietto. E allora di nuovo: qual è il problema? Che non tutta la carne che c'è sul fuoco, per quanto succulenta, ha la medesima rilevanza. "È la vita", potrebbe obiettare qualcuno. Ma per quanto possa - e debba - assomigliarle "Piece" rimane un'opera di finzione con l'obbligo di avere delle priorità ben definite. Ciò detto, se mai la Ashihara decidesse di creare uno spin-off dedicato, poniamo, a Maruo lo sdentato, al piccolo Akito o alla signora Narumi da giovane sarei pronta a seguirla fino in capo al mondo.

Sembrerà scontato dal momento che si tratta di un manga dalla spiccata vena intimista, ma i personaggi di "Piece" sono senza ombra di dubbio il suo piatto forte. Hinako Ashihara sa come andare oltre ciò che risulta visibile e portare alla luce veri e propri tesori che gli eventi avevano costretto i proprietari a seppellire, come nel caso di Remi o di Hiro, il dolce e tormentato fratello di quello che è l'indiscusso catalizzatore per Mizuho, vale a dire Hikaru Narumi. Se avete letto "Bokura ga Ita" avrete presente il tipo: belloccio, sfuggente, manipolatore e a un tempo vittima e carnefice di se stesso, proprio come Motoharu Yano, che tuttavia ha dalla sua una voglia di migliorarsi che nel primo, il più delle volte, latita.
Personaggi come Mizuho, per quanto molto realistici, costituiscono sempre un azzardo per un autore che voglia impiegarli come protagonisti. In tal senso la Ashihara - altro paradosso - ha talvolta la tendenza a peccare di troppo zelo, trasformando le sue riflessioni, peraltro molto puntuali e interessanti, in "compiti per casa" a suo esclusivo uso e consumo: un peccato con un suo perché, ma pur sempre un peccato. In altre parole la sua splendida voce interiore, che lei per prima non è ancora avvezza a udire, rischia di stuccare nel tentativo di recuperare il tempo perduto.

Fermo restando che non saprei fare di meglio, devo confessare che il tratto della Ashihara non mi entusiasma: sa discernere con esattezza ciò che è superfluo da ciò che non lo è, dote che traspare ampiamente da come costruisce le tavole, ma a livello anatomico costringe il lettore ad assistere ad un'orgia di sguardi vacui, teste sproporzionate, nasi piatti, schiene curve e braccette scheletriche a cui può essere difficile fare l'abitudine. Per una storia come questa, che si ripropone - peraltro con successo - di elevarsi rispetto agli standard contenutistici degli shoujo odierni, ci sarebbe voluta una mano capace di combinare rigore e armonia in modo da trarre il meglio da entrambe... a meno di non trasformare questa sua legnosità in un punto di forza, un discorso, nel caso dell'autrice in questione, di assai impervia applicazione. Provate a immaginare lo stesso manga disegnato, che so, da una Fuyumi Soryo: non sarebbe stato una cannonata?

Arrivati a questo punto spero sia chiaro che nel mio 7 non c'è alcunché di punitivo e che se mi sono presa la libertà di bacchettare la Ashihara è solo perché ritengo che abbia del potenziale. Sono autori come lei che rendono lo "sporco lavoro" di chi, suo malgrado, si ritrova a dover scrivere una recensione non proprio accomodante un onore.