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8.5/10
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“Levius” è una nuova serie anime di Netflix doppiata in italiano.
Andiamo con ordine. Siamo in un mondo dai toni steampunk diviso in sette continenti. L’anno è il 1842 della Nuova Era. La guerra per il controllo della cosiddetta acqua di Agartha è finita da cinque anni, e Levius ha perso molto nel conflitto. Durante l’attacco a Greenbridge - la sua città natale - suo padre è morto e sua madre è rimasta gravemente ferita, e ora è in coma. Come se non bastasse, Levius ha anche perso il braccio sinistro e porta una protesi di tipo medico.
Levius va a vivere da suo zio Zack, un ex pugile, che lo instrada al mondo del pugilato meccanico, uno sport in cui si sfrutta l’acqua di Agartha per produrre iper-vapore che muove gli arti meccanici degli atleti.

Nell’anime assistiamo a vari combattimenti di Levius nel cosiddetto grade 3 (G3), fino all’incontro per la promozione alla G2. Si dovrà scontrare con un’avversaria temibile, A. J., talmente forte da non sembrare umana. La ragazza è sponsorizzata dall’industria bellica Amethyst, il cui presidente è il folle Jack Pudding, detto Dottor Clown perché porta sempre una maschera.
Nel manga questo personaggio è visivamente molto diverso, davvero simile a una pagliaccio con tanto di naso rosso, mentre nell’anime il suo aspetto è molto più elegante, poiché indossa una maschera veneziana che gli copre metà del viso. Tuttavia, pur essendo più misurato e sobrio, la sua ideologia resta assurda: la lotta e la violenza mortale come suprema bellezza.

Il messaggio veicolato da “Levius” è quindi delicato e facilmente fraintendibile. Una lettura superficiale potrebbe suggerire che “la violenza è bella”, ma a una visione più consapevole risulta chiaro che non è così. Nell’anime (e ancora più marcatamente nel manga) esistono due tipi di scontro: quello brutale e su scala macroscopica - la guerra -, che genera vittime innocenti, distruzione e rovine, e quello volontario e controllato, praticato come forma di danza catartica. Certo, la perfezione dei movimenti e la natura non-artificiale dello scontro sul ring può portare alla morte, ma questa sarà comunque una fine onorevole, che pone fine a una altrettanto onorevole ricerca (“È meglio bruciare che spegnersi lentamente”, dissero Neil Young e Kurt Cobain). Anche se i combattimenti della Federazione sono altamente regimentati e gli atleti sono sottoposti a scrupolosi controlli, il boxare rappresenta la sublimazione del trauma della guerra appena finita (anche in “Alita” è così). Non è la stessa cosa che in “Fight Club” di Palahniuk (film di David Fincher, 1999), perché in quel caso gli incontri, sebbene strutturati, sono clandestini. Tuttavia penso che in entrambe le storie i contendenti raggiungano un certo grado di catarsi e di fuga dalla realtà (un dolore fisico per scacciarne uno psicologico). Diventare forti “distruggendo qualcosa di bello”, come il protagonista di “Fight Club” fa con il ragazzo biondo.
Naturalmente l’affermazione di Levius, “Devo salvare A. J. coi miei pugni”, va interpretata. Infatti, si capisce chiaramente che la giovane è manipolata e condizionata dal Dottor Clown. Addirittura, quando mostra tutta la sua potenza, il suo volto si trasfigura e sembra Nancy che, nella serie messicana “Dialbero”, viene posseduta dai demoni. In tutt’e due i casi, i demoni sono quelli interiori, e l’amore può essere apparentemente brutale.

Il Dottor Clown dice che A. J. è sua figlia adottiva, ma in lui non c’è vero affetto. Si tratta solo dell’infatuazione di un collezionista per un bell’oggetto, e non ci viene detto nulla della vera famiglia di A. J. (mentre nel manga si scopre che fine hanno fatto suo padre e suo fratello).
Dall’altro lato abbiamo la squadra di Levius: Zack, poi Natalia, una pugile senza casa che fa da sparring partner, Bill, un ingegnere meccanico di prima categoria, e infine, a latere, la nonna come presenza bonaria o nume tutelare. Questa è davvero una famiglia, perché se ne percepisce il calore e l’affetto, senza però che ci sia l’elemento romance che banalizzerebbe tutto.

Diversi anime e manga hanno trattato il tema della boxe affiancandolo a concetti come l’amicizia - basti pensare a “Rocky Joe” di Asao Takamori, che a me non è piaciuto, o “Rainbow” di George Abe e Masasumi Kakizaki, che invece ho trovato molto profondo, o ancora il capolavoro sui generis “Blue Fighter” di Jirô Taniguchi.

L’aspetto più bello dell’anime è senz’altro il colore, che ovviamente manca nel manga e qui invece contribuisce a dare levità ai personaggi. Voglio usare proprio questa parola, “levità”, perché “Levius” in latino significa “più leggero”. Sono tinte tenui, che riflettono benissimo la luce e sembrano anzi esse stesse composte di luce, sulla pelle, sui capelli, ma soprattutto negli occhi. Quelli di Levius e di A. J. sono blu, ma non è un colore freddo. Sono occhi blu “gloriosi e vulnerabili”, per dirla come Palahniuk. L’occhio sano del Dottor Clown è grigio, di un grigio metallico, mentre l’altro è fisso e spento come quello di una bambola. E Natalia? Stupendi occhi color ambra che ricordano quelli di Edward Elric (“Fullmetal Alchemist”): occhi di un maledetto o di un prescelto, tanto che mi chiedo se ci saranno future rivelazioni riguardanti Natalia (nel manga, non compare nel primo ciclo, quindi non so dire quanto la sua storia nell’anime sia aderente al copione originale di Haruhisa Nakata, che introduce Natalia solo nel secondo arco narrativo, quello intitolato “Levius est”). E, per finire, gli occhi di Zack: uno è di un blu profondo, l’altro è coperto da una lente speciale, perché corre il rischio di essere lesionato dalla luce diretta.
In realtà, anche nel manga ci sono pagine a colori, ma sono molto più cupe, in accordo con l’atmosfera da Rivoluzione Industriale. Nell’anime, questi toni fumosi sono riprodotti per rappresentare la città (che ovviamente riecheggia una Londra vittoriana) e sono in contrasto coi colori caldi - direi “disperati” - che caratterizzano i ricordi della guerra.
Nell’anime un altro elemento cromatico/visivo molto importante sono i lividi che, sulla pelle diafana dei protagonisti (soprattutto per quel che riguarda Levius), risaltano in modo molto realistico e ricco di sfumature.

Il manga è un po’ più complesso dell’anime, perché ci viene spiegato meglio il world building. Inoltre ci sono alcuni dettagli diversi che secondo me sono significativi: innanzitutto A. J. nel manga è muta, e poi l’incontro finale non è per la promozione al G2 ma al G1, cioè una sorta di Olimpo composto da dodici (più uno) combattenti divinizzati. E poi c’è il background relativo alla famiglia naturale di A. J.

In definitiva, quindi, l’anime di “Levius” mi è piaciuto moltissimo per quel che riguarda i colori e la luce, ma meno per quanto riguarda la storia. Bisogna infatti stare molto attenti a recepire il messaggio del Dottor Clown come chiaramente folle.

Il mondo e la struttura sono molto simili a quelli proposti in “Alita”, ma ovviamente il disegno di Yukito Kishirô è molto, molto diverso da quello di Nakata, dato che “Alita” è un manga degli anni Novanta e risente quindi dello stile grafico del periodo; inoltre “Alita” è molto chiaramente cyberpunk, e non steampunk come “Levius”.