Recensione
Cowboy Bebop
8.5/10
Recensione di DarkSoulRead
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“Non devi temere la morte, è un'insonne compagna che non tradisce. Nel momento in cui si avvicina, quando al suo cospetto il sangue gela nelle vene, sappi che essa non fa altro che proteggerti dolcemente”.
Dagli anni '80 agli anni '90 l’animazione giapponese ha subito un’importante mutazione, sia a livello strutturale che narrativo, soprattutto per quanto riguarda le numerose opere di fantascienza. Perché se i robot stanno agli anni '80 come i Pokemon stanno ai 2000, e se a quei tempi tutto (o quasi) ciò che di fantascientifico usciva aveva a che fare con i mecha, nella decade successiva le cose iniziarono a cambiare. Nei primi anni novanta (già verso la fine degli '80 in realtà) i soliti robottoni cominciarono pian piano a lasciar spazio all’introspezione di personaggi dalla profonda demarcazione psicologica, più congrui a trame complesse che spaziavano dal mistery al fantapolitico, in scenari postapocalittici decisamente più futuribili rispetto a quelli a cui eravamo stati abituati.
Opere come «Akira» (1988), «Ghost in the Shell» (1995), e soprattutto «Neon Genesis Evangelion» (1995) opera simbolo ibrido tra “il vecchio” e “il nuovo”, possono ritenersi cruciali per questo sviluppo.
Nel pieno fiorire di uno dei più interessanti rami evolutivi della storia dell’animazione giapponese, dal fervido estro di un ispiratissimo Shin'ichirō Watanabe, precisamente nel 1998, nasce «Cowboy Bepop».
Nel 2021 l’esplosione di un gate sperimentale danneggia la Luna, causando la caduta di enormi meteoriti che rendono inabitabile il pianeta Terra. L’uomo colonizza il sistema solare migrando sugli altri pianeti: Marte, Venere, Ganimede. Spike Siegel, ex membro di una spietata organizzazione criminale di Marte denominata Red Dragon, e il suo socio Jet Black, un austero omone senza un braccio, viaggiano per lo spazio alla ricerca di criminali come cacciatori di taglie a bordo della loro astronave: il Bepop. Ai due si aggiungono il cane Ein (un Welsh Corgi iper-intelligente), la prosperosa Faye Valentine di "fujikiana" memoria, e Radical Edward “Ed” ingegnosa ragazzina hacker.
Durante le loro avventure i protagonisti dovranno fare i conti con le eco di un passato infausto e doloroso, le cui porte ancora aperte rendono colmo di rassegnazione il presente e denso d’oscurità il futuro.
Lo stile narrativo a struttura episodica aiuta a mantener sempre in ritmo una storia altrimenti snella e poco elaborata, con la trama che preserva una certa densità nel proseguire degli episodi seppur venga svelata a piccole dosi e principalmente da onirici flashback, grazie anche alla brevità complessiva della serie (26 episodi).
D’altro canto alcune puntate, seppur figlie di una brillante idea di base, restano esercizi di stile fine a se stessi, slegati da quello che l’opera vuole essere nel suo disegno finale (come l’episodio 11). A supportare la struttura narrativa è un cast di personaggi di tutto rispetto, il cui misterioso passato diventa il “fil rouge” che li unisce.
Spike Siegel, le cui malconce sigarette ricordano quelle di Jigen, è un protagonista atipico magnificamente tratteggiato. Il trascorso tormentato, e il nobile e incessante amore che nutre per la donna della sua vita Julia, di cui ha ormai perso le tracce, vanno in armonica antitesi con una personalità spesso cinica e opportunista, facendolo oscillare in un sottile filo tra eroe ed antieroe. “Guardami gli occhi: il destro è artificiale, quello vero l'ho perso in un incidente. Da allora con l'occhio sinistro registro il presente, mentre con il destro ricordo il passato; mi ha insegnato che non sempre ciò che è visibile corrisponde alla realtà”.
Se Spike il passato non riesce a dimenticarlo, l’incallita fumatrice (anche lei) col pallino del gioco d’azzardo Faye Valentine, ha perso la memoria dopo un terribile incidente a seguito del quale è rimasta ibernata per oltre 50 anni.
Evento che l’ha resa particolarmente fragile, tanto da portarla a nascondere le sue debolezze dietro ad un’imperscrutabile maschera di arroganza. Dimenticare e ricordare, altra antinomia simmetrica, stavolta narrativa.
Meritevoli di menzione anche i comprimari, studiati ad hoc per esprimere al meglio il proprio potenziale all’interno di una composizione autoconclusiva. Come l’eccentrico Andy Von De Oniyate, cowboy casinista che utilizza un improbabile slang americanizzato, la cui maturazione dopo l’incontro con Spike è rappresentata dalla mutazione del suo gimmick a fine puntata, da cowboy a samurai. Che nell’indecifrabile mente di Watanabe balenasse già l’idea di «Samurai Champloo»?
Meno convincente il main villain Vicious, il cui chara ha ispirato a Sephiroth di «Final Fantasy VII», il quale entra in scena troppo poco per riuscire a bucare lo schermo.
Nonostante la storia aneli a una certa maturità fornendo a tratti ottimi spunti di riflessione, l’intreccio risulta di per sé piuttosto sterile, non portando di fatto nulla di particolarmente innovativo.
Non sono stati infatti fattori come la trama o il background dell’universo narrativo a rendere «Cowboy Bepop» un anime di incommensurabile valore, ma piuttosto il suo “stile”.
Un “western” spaziale jazzato, amalgama insolita di abbacinante bellezza.
L’ambientazione sci-fi è bagnata da un alone noir, a metà tra «City Hunter» e «Blade Runner»; il mood, che a tratti richiama l’humour di «Lupin III», va in perfetto contrasto con una sottotrama cupa e violenta, permeando la serie di un'atmosfera piuttosto singolare, capace di affascinare da subito lo spettatore. Le scene d’azione intrise di brio e teatralità si susseguono a dialoghi brillanti e nichilisti “Non è stato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio”. Passando da momenti riflessivi a sequenze di puro e grottesco pulp tarantiniano, in cui densità e rarefazione si alternano armoniosamente, rendendo «Cowboy Bepop» un prodotto estremamente trasversale, catalogabile in più generi, dal poliziesco alla fantascienza.
Il contesto inscenato è abbastanza realistico, non vi sono alieni o armi ai raggi laser, in linea con “l’umanità” dei personaggi. Gli idiomi di «Cowboy Bepop» si specchiano nei dettami tipici del cinema, grazie ad una semantica autoriale che spesso ricorda più i film d’essai che non le serie animate; lo si vede dai dettagli, come quando Spike girato di spalle, tra lo stupore di una Faye armata, le consiglia di abbassare l’arma avendo visto la pistola della donna dal riflesso di un bicchiere. L’avanguardista veste grafica avvalora combattimenti che mirano all’estremizzazione della spettacolarità visiva e immortala magistralmente sequenze sbalorditive, come lo scontro con Vicious nella cattedrale.
Numerose le influenze e i riferimenti: da Kurosawa a Sergio Leone, da «Star Wars» a «Sin City», da «The Crow» a «Daredevil», da «Blade runner» a «Lupin III» appunto. E poi le infinite citazioni musicali, si omaggiano dai Rolling Stones ai Guns N’ Roses, sfumando dai rockeggianti combattimenti al blues della malinconia.
Proprio la musica gioca un ruolo fondamentale, il titolo di ogni puntata è un portmanteau tra un genere musicale e un termine astronomico, spesso richiamante il nome di qualche brano occidentale. Encomiabile il lavoro svolto dai The Seatbelts, band creata sul momento da Yoko Kanno esclusivamente per lavorare alla colonna sonora della serie, che ci delizia con delle OST (tra cui «Green Bird» e «The Real Folk Blues») da hall of hame; si passa dal pop al metal, dal jazz al blues, per far sì che ogni momento abbia la giusta cromatura nella vasta gamma di sfumature che «Cowboy Bepop» vuole proporre.
Il tutto cucito in uno sfarzoso arazzo di musica e immagini dalla visionaria regia di Watanabe, per una coesione artistica che va oltre l’eccellenza di un comparto tecnico sontuoso.
Menzione d’onore per il doppiaggio italiano, che si mantiene su livelli altissimi.
Il finale, istrionico e struggente, cala magnificamente il sipario su un’opera tanto pop quanto lirica, innalzando la serie al pantheon dei masterpieces. Purtroppo manca un collante alle puntate “filler” e l’effettivo canovaccio narrativo copre soltanto 6-7 episodi, rendendo i restanti soltanto riempitivi, seppur di pregevolissima fattura; «Cowboy Bepop» non è un prodotto esente da difetti e se la fusione tecnica tra musica e immagini ha dell’incredibile la sceneggiatura non è altrettanto miracolosa; un po’ per scelta dell’autore un po’ per tangibili buchi di trama vi sono alcuni “Black Hole” narrativi che lasciano spazio speculativo allo spettatore.
Watanabe al suo primo lavoro da solista alla regia mostra un naturale talento indomito e narcisista, così sfavillante da farlo imporre tra gli autori giapponesi che maggiormente hanno segnato l’era post-moderna.
Il regista prende gli stilemi di «Lupin III» li raffina imborghesendoli con un velo di filosofia, ci mischia «2001: Odissea nello spazio» con una grattata di Sergio Leone e, in un processo di rielaborazione quanto mai arcano, ne cava un prodotto originale come «Cowboy Bepop».
Una serie cult, uno dei capolavori degli anni '90, da vedere e rivedere, possibilmente in momenti di vita e stati d’animo diversi, così da comprenderne a pieno tutte le sfaccettature.
“See you space cowboy”
Dagli anni '80 agli anni '90 l’animazione giapponese ha subito un’importante mutazione, sia a livello strutturale che narrativo, soprattutto per quanto riguarda le numerose opere di fantascienza. Perché se i robot stanno agli anni '80 come i Pokemon stanno ai 2000, e se a quei tempi tutto (o quasi) ciò che di fantascientifico usciva aveva a che fare con i mecha, nella decade successiva le cose iniziarono a cambiare. Nei primi anni novanta (già verso la fine degli '80 in realtà) i soliti robottoni cominciarono pian piano a lasciar spazio all’introspezione di personaggi dalla profonda demarcazione psicologica, più congrui a trame complesse che spaziavano dal mistery al fantapolitico, in scenari postapocalittici decisamente più futuribili rispetto a quelli a cui eravamo stati abituati.
Opere come «Akira» (1988), «Ghost in the Shell» (1995), e soprattutto «Neon Genesis Evangelion» (1995) opera simbolo ibrido tra “il vecchio” e “il nuovo”, possono ritenersi cruciali per questo sviluppo.
Nel pieno fiorire di uno dei più interessanti rami evolutivi della storia dell’animazione giapponese, dal fervido estro di un ispiratissimo Shin'ichirō Watanabe, precisamente nel 1998, nasce «Cowboy Bepop».
Nel 2021 l’esplosione di un gate sperimentale danneggia la Luna, causando la caduta di enormi meteoriti che rendono inabitabile il pianeta Terra. L’uomo colonizza il sistema solare migrando sugli altri pianeti: Marte, Venere, Ganimede. Spike Siegel, ex membro di una spietata organizzazione criminale di Marte denominata Red Dragon, e il suo socio Jet Black, un austero omone senza un braccio, viaggiano per lo spazio alla ricerca di criminali come cacciatori di taglie a bordo della loro astronave: il Bepop. Ai due si aggiungono il cane Ein (un Welsh Corgi iper-intelligente), la prosperosa Faye Valentine di "fujikiana" memoria, e Radical Edward “Ed” ingegnosa ragazzina hacker.
Durante le loro avventure i protagonisti dovranno fare i conti con le eco di un passato infausto e doloroso, le cui porte ancora aperte rendono colmo di rassegnazione il presente e denso d’oscurità il futuro.
Lo stile narrativo a struttura episodica aiuta a mantener sempre in ritmo una storia altrimenti snella e poco elaborata, con la trama che preserva una certa densità nel proseguire degli episodi seppur venga svelata a piccole dosi e principalmente da onirici flashback, grazie anche alla brevità complessiva della serie (26 episodi).
D’altro canto alcune puntate, seppur figlie di una brillante idea di base, restano esercizi di stile fine a se stessi, slegati da quello che l’opera vuole essere nel suo disegno finale (come l’episodio 11). A supportare la struttura narrativa è un cast di personaggi di tutto rispetto, il cui misterioso passato diventa il “fil rouge” che li unisce.
Spike Siegel, le cui malconce sigarette ricordano quelle di Jigen, è un protagonista atipico magnificamente tratteggiato. Il trascorso tormentato, e il nobile e incessante amore che nutre per la donna della sua vita Julia, di cui ha ormai perso le tracce, vanno in armonica antitesi con una personalità spesso cinica e opportunista, facendolo oscillare in un sottile filo tra eroe ed antieroe. “Guardami gli occhi: il destro è artificiale, quello vero l'ho perso in un incidente. Da allora con l'occhio sinistro registro il presente, mentre con il destro ricordo il passato; mi ha insegnato che non sempre ciò che è visibile corrisponde alla realtà”.
Se Spike il passato non riesce a dimenticarlo, l’incallita fumatrice (anche lei) col pallino del gioco d’azzardo Faye Valentine, ha perso la memoria dopo un terribile incidente a seguito del quale è rimasta ibernata per oltre 50 anni.
Evento che l’ha resa particolarmente fragile, tanto da portarla a nascondere le sue debolezze dietro ad un’imperscrutabile maschera di arroganza. Dimenticare e ricordare, altra antinomia simmetrica, stavolta narrativa.
Meritevoli di menzione anche i comprimari, studiati ad hoc per esprimere al meglio il proprio potenziale all’interno di una composizione autoconclusiva. Come l’eccentrico Andy Von De Oniyate, cowboy casinista che utilizza un improbabile slang americanizzato, la cui maturazione dopo l’incontro con Spike è rappresentata dalla mutazione del suo gimmick a fine puntata, da cowboy a samurai. Che nell’indecifrabile mente di Watanabe balenasse già l’idea di «Samurai Champloo»?
Meno convincente il main villain Vicious, il cui chara ha ispirato a Sephiroth di «Final Fantasy VII», il quale entra in scena troppo poco per riuscire a bucare lo schermo.
Nonostante la storia aneli a una certa maturità fornendo a tratti ottimi spunti di riflessione, l’intreccio risulta di per sé piuttosto sterile, non portando di fatto nulla di particolarmente innovativo.
Non sono stati infatti fattori come la trama o il background dell’universo narrativo a rendere «Cowboy Bepop» un anime di incommensurabile valore, ma piuttosto il suo “stile”.
Un “western” spaziale jazzato, amalgama insolita di abbacinante bellezza.
L’ambientazione sci-fi è bagnata da un alone noir, a metà tra «City Hunter» e «Blade Runner»; il mood, che a tratti richiama l’humour di «Lupin III», va in perfetto contrasto con una sottotrama cupa e violenta, permeando la serie di un'atmosfera piuttosto singolare, capace di affascinare da subito lo spettatore. Le scene d’azione intrise di brio e teatralità si susseguono a dialoghi brillanti e nichilisti “Non è stato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio”. Passando da momenti riflessivi a sequenze di puro e grottesco pulp tarantiniano, in cui densità e rarefazione si alternano armoniosamente, rendendo «Cowboy Bepop» un prodotto estremamente trasversale, catalogabile in più generi, dal poliziesco alla fantascienza.
Il contesto inscenato è abbastanza realistico, non vi sono alieni o armi ai raggi laser, in linea con “l’umanità” dei personaggi. Gli idiomi di «Cowboy Bepop» si specchiano nei dettami tipici del cinema, grazie ad una semantica autoriale che spesso ricorda più i film d’essai che non le serie animate; lo si vede dai dettagli, come quando Spike girato di spalle, tra lo stupore di una Faye armata, le consiglia di abbassare l’arma avendo visto la pistola della donna dal riflesso di un bicchiere. L’avanguardista veste grafica avvalora combattimenti che mirano all’estremizzazione della spettacolarità visiva e immortala magistralmente sequenze sbalorditive, come lo scontro con Vicious nella cattedrale.
Numerose le influenze e i riferimenti: da Kurosawa a Sergio Leone, da «Star Wars» a «Sin City», da «The Crow» a «Daredevil», da «Blade runner» a «Lupin III» appunto. E poi le infinite citazioni musicali, si omaggiano dai Rolling Stones ai Guns N’ Roses, sfumando dai rockeggianti combattimenti al blues della malinconia.
Proprio la musica gioca un ruolo fondamentale, il titolo di ogni puntata è un portmanteau tra un genere musicale e un termine astronomico, spesso richiamante il nome di qualche brano occidentale. Encomiabile il lavoro svolto dai The Seatbelts, band creata sul momento da Yoko Kanno esclusivamente per lavorare alla colonna sonora della serie, che ci delizia con delle OST (tra cui «Green Bird» e «The Real Folk Blues») da hall of hame; si passa dal pop al metal, dal jazz al blues, per far sì che ogni momento abbia la giusta cromatura nella vasta gamma di sfumature che «Cowboy Bepop» vuole proporre.
Il tutto cucito in uno sfarzoso arazzo di musica e immagini dalla visionaria regia di Watanabe, per una coesione artistica che va oltre l’eccellenza di un comparto tecnico sontuoso.
Menzione d’onore per il doppiaggio italiano, che si mantiene su livelli altissimi.
Il finale, istrionico e struggente, cala magnificamente il sipario su un’opera tanto pop quanto lirica, innalzando la serie al pantheon dei masterpieces. Purtroppo manca un collante alle puntate “filler” e l’effettivo canovaccio narrativo copre soltanto 6-7 episodi, rendendo i restanti soltanto riempitivi, seppur di pregevolissima fattura; «Cowboy Bepop» non è un prodotto esente da difetti e se la fusione tecnica tra musica e immagini ha dell’incredibile la sceneggiatura non è altrettanto miracolosa; un po’ per scelta dell’autore un po’ per tangibili buchi di trama vi sono alcuni “Black Hole” narrativi che lasciano spazio speculativo allo spettatore.
Watanabe al suo primo lavoro da solista alla regia mostra un naturale talento indomito e narcisista, così sfavillante da farlo imporre tra gli autori giapponesi che maggiormente hanno segnato l’era post-moderna.
Il regista prende gli stilemi di «Lupin III» li raffina imborghesendoli con un velo di filosofia, ci mischia «2001: Odissea nello spazio» con una grattata di Sergio Leone e, in un processo di rielaborazione quanto mai arcano, ne cava un prodotto originale come «Cowboy Bepop».
Una serie cult, uno dei capolavori degli anni '90, da vedere e rivedere, possibilmente in momenti di vita e stati d’animo diversi, così da comprenderne a pieno tutte le sfaccettature.
“See you space cowboy”