logo AnimeClick.it

-

Provo timore a parlare di "Saya no uta", perché sento che ogni tentativo di descriverla possa banalizzarla, come se non esistessero termini concreti capaci di descrivere bene ciò che è astratto.
Per chi ha studiato linguistica, sa che questo è un "problema" annoso del linguaggio: esso è sempre una convenzione, una serie di etichette e di paletti che diamo a un gradiente di suoni e concetti informi, non importa su quale piano di articolazione ci troviamo, o se stiamo parlando di Langue o Parole, la realtà in sé del linguaggio è ineluttabilmente indefinita.
Ed è quasi strano percepire questo concetto anche nella descrizione del piano emotivo di un'opera, soprattutto se tale opera si ispira alle creazioni di Lovecraft, che sui limiti della comprensione umana ha creato un immaginario.

Ma proviamoci comunque, perché l'opera merita di essere condivisa.

"Saya no uta" parla di Fuminori Sakisaka, uno studente di medicina che, a seguito di un tremendo incidente automobilistico in cui ha perso tutta la famiglia, ha riportato gravi danni neurologici da cui è sopravvissuto miracolosamente.
Eppure, questa sopravvivenza ha un prezzo. La mente di Fuminori ne esce profondamente alterata: il suo mondo ora è una landa infernale, dove il cielo è sempre nero, gli edifici sono ammassi di carne e viscere e, soprattutto, le persone sono entità mostruose la cui sola voce è insostenibile.
Tutte le persone, tranne una: Saya.
Una misteriosa ragazzina che gli appare una notte in ospedale, e che deciderà di vivere con lui una volta dimesso. Una creatura angelica, di una purezza disarmante e piena di qualità sorprendenti, che ben presto diventerà l'unico faro nel mondo corrotto e distorto di Fuminori.
Sarà ben presto chiaro che Saya non è esattamente ciò che sembra.

Ecco, vorrei già chiedere scusa, perché sento di aver alterato la percezione dell'opera con questo riassunto, e ci tengo che questa recensione sia vista come invito a giocarla e viverla appieno.

La visual novel è piena di eccessi, una quantità di elementi e tematiche disturbanti che lascerebbero esterrefatta qualsiasi persona normale, eppure non è praticamente mai volgare o gratuita, è solo estrema.
C'è una poetica incredibile nell'opera del maestro Urobuchi, una capacità di intessere gli elementi in modo che ognuno dia le giuste sensazioni, e di scrivere con un linguaggio espressivo, senza sovrabbondare ne deficitare nell'uso delle parole. Si percepisce molto quanto quest'opera provenga dal suo animo, e sia il bisogno di concretizzare un malessere che lo accompagnava da sempre; dopotutto, ci sono anche elementi autobiografici, per chi sa riconoscerli.

Ciò che ne esce fuori è un lavoro maestoso.
Una visual novel pregna di un relativismo così ben trasmesso da essere questo agghiacciante, ben più del gore o della sessualità immorale rappresentata esplicitamente. Il rapporto tra Saya e Fuminori è così puro e intenso che, nonostante le azioni di cui si macchino, e nonostante ciò che rappresentino per il mondo circostante, diventa impossibile non essere, anche solo in parte, a loro favore.
L'opera infatti crea conflitto nell'animo dell'utente, e lo fa in ogni istanza. Ogni finale è sia il migliore che il peggiore per diversi aspetti, e causa sofferenze perché rimangono reali, nessuno di essi sarà mai capace di donarci una soluzione utopistica al nostro desiderio infantile di risolvere la situazione in modo ideale, illuminando il tutto con una luce positiva.

"Saya no uta" non è mai ideale, non può esserlo, non deve esserlo: rimane sempre spietatamente concreto, ed è questa la sua forza e il suo valore. Ci fa chiedere quale sia la nostra morale, e ci fa domandare se essa sia davvero una virtù, o un limite.
Chi è il migliore: chi sacrifica sé stesso per il bene comune, per salvare un'umanità che non apprezza e non lo ricambierà, o chi decide di sacrificare tutto ciò che lo circonda in cambio dell'unico sentimento vero che prova, scevro dalle maschere sociali che ha portato sino a quel momento?
Il secondo sarà egoista, ma è davvero crudele essere egoisti per raggiungere la felicità? E se lo è, se i valori che ci hanno insegnato sono così forti, se il bene comune è davvero superiore al bene personale, avremmo noi la forza di seguire questa morale, o preferiremmo continuare a illuderci e ignorare la realtà, per evitare di affrontare il peso di condannarci all'infelicità per delle persone che, in fondo, abbiamo sempre odiato?

Nessun uomo è un'isola, ma ogni uomo è vittima del suo istinto di autoconservazione.
Ogni esperienza è preziosa, e ogni uomo reclama il diritto ad esistere.
E tutte queste cose rendono impossibile la creazione di un mondo ideale. Anzi, forse la rende quasi angosciosa, perché solo essendo schiavi creeremmo un mondo perfetto, e tale concetto ci fa orrore.

Un'opera del genere, capace di sollevare così bene tali domande, va solo premiata e ricordata.
Chiunque abbia la forza di affrontarla, deve conoscerla e deve farne esperienza, perché ne uscirà arricchito.

In un'epoca dove le persone vedono la profondità anche nelle pozzanghere, mi ha fatto bene ricordarmi cosa sia un'opera davvero profonda, e cosa distingua un autore vero da uno scribacchino.

Ti voglio bene, Urobuchi.
Auf wiedersehen.