Live dal Far East Film Festival 27: le nostre prime impressioni sui film in concorso
Da Cells at works! al sorprendente A Bad Summer, fino a Silent City Driver, scopriamo cosa ci sta riservando la kermesse udinese nella sua nuova edizione
di zettaiLara

Una seconda modalità di poter partecipare al festival avviene attraverso il portale MYmovies: il FEFF offre anche quest’anno una preziosa selezione di titoli online per l’intera durata del festival, con 23 film che le case di distribuzione asiatiche hanno reso disponibili per lo streaming.

Ricordandovi che nella nostra precedente news potrete trovare l'elenco completo di tutti i film in programma, nonché le varie modalità di accredito, compresa quella online, di seguito vi proponiamo invece le nostre prime impressioni sui film che abbiamo già passato in rassegna: per chi non avesse ancora aderito all'iniziativa, dunque, c'è ancora tempo e svariati motivi per farlo: buona visione a tutti!
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Hear me: our Summer - South Korea 2024, Italian Premiere
disponibile online

Sono davvero necessarie le parole per esprimersi?
Hear Me: Our Summer ci insegna di no. Questo, infatti, è un film silenzioso in cui il dialogo è ridotto a poche battute. Prevale il silenzio e la comunicazione non verbale, in quanto i protagonisti utilizzano il linguaggio dei segni per esprimersi. Ma non solo: anche le espressioni facciali e il linguaggio del corpo sono importanti. E in questo gli attori protagonisti sono stati straordinari riuscendo a trasmettere tanto senza dire una parola.
Hear Me: Our Summer è un remake del film thailandese Hear Me del 2009 (di cui consiglio la visione) ed è riuscito ad essere fedele all’originale, svecchiandolo e cambiando il minimo; a questo proposito, aspettate di vedere la scena dopo i primi titoli di coda perché è davvero dolcissima.
Il film presenta un tema difficile, come la disabilità uditiva, in maniera semplice e dolce, trasformandosi così per gli spettatori in un caldo abbraccio.
Hear Me: Our Summer ci insegna di no. Questo, infatti, è un film silenzioso in cui il dialogo è ridotto a poche battute. Prevale il silenzio e la comunicazione non verbale, in quanto i protagonisti utilizzano il linguaggio dei segni per esprimersi. Ma non solo: anche le espressioni facciali e il linguaggio del corpo sono importanti. E in questo gli attori protagonisti sono stati straordinari riuscendo a trasmettere tanto senza dire una parola.
Hear Me: Our Summer è un remake del film thailandese Hear Me del 2009 (di cui consiglio la visione) ed è riuscito ad essere fedele all’originale, svecchiandolo e cambiando il minimo; a questo proposito, aspettate di vedere la scena dopo i primi titoli di coda perché è davvero dolcissima.
Il film presenta un tema difficile, come la disabilità uditiva, in maniera semplice e dolce, trasformandosi così per gli spettatori in un caldo abbraccio.
Autore: alis89
Remake del film Taiwanese del 2009 "Hear me", questo film, forse non sarà così eclatante e ha per giunta una trama piuttosto semplice, ma riesce a non essere per nulla banale e a raccontare con grande efficacia sia una storia d'amore giovanile di una dolcezza estrema, sia una di affetto totale tra sorelle. Al centro di entrambe le narrazioni troviamo Yeo-reum e la sua crescita caratteriale ed emozionale. È la sorella maggiore di Ga-eul, promettente nuotatrice sordomuta, ed è anche la ragazza di cui Yong-joon, l'altro protagonista, si innamora a prima vista.
La trama si snoda su un doppio binario, l'amore tra sorelle e l'innamoramento romantico, entrambi rappresentati con leggerezza e in modo toccante. E anche se il colpo di scena finale è forse un po' telefonato, allo stesso tempo rimane coerente con quanto messo in campo dallo script, anzi, ne amplifica la forza di alcune tematiche.
La regia, senza fare scelte eccessive, gioca con particolare efficacia con suoni e silenzi, mentre la sceneggiatura ci regala atmosfere delicatissime e meravigliose conversazioni silenziose, spesso molto dirette ma anche piene di tatto.
Bella anche la palette pastello che permea la fotografia: dominata dal blu in ogni sua possibile sfumatura e da bianchi luminosissimi, restituisce la magia e la spensieratezza dell'amore giovanile che sboccia.
Questa estetica, tipica di tante opere sentimentali sudcoreane, ha qui un equilibrio perfetto e una sua nobiltà: non è “bellezza confezionata ad arte”, è una fotografia che in un certo senso respira l'aria della sua sceneggiatura e per questo ha una sua impronta naturale e autentica.
Ciliegina sulla torta le performance attoriali, tutte molto convincenti, e una colonna sonora incantevole.
La trama si snoda su un doppio binario, l'amore tra sorelle e l'innamoramento romantico, entrambi rappresentati con leggerezza e in modo toccante. E anche se il colpo di scena finale è forse un po' telefonato, allo stesso tempo rimane coerente con quanto messo in campo dallo script, anzi, ne amplifica la forza di alcune tematiche.
La regia, senza fare scelte eccessive, gioca con particolare efficacia con suoni e silenzi, mentre la sceneggiatura ci regala atmosfere delicatissime e meravigliose conversazioni silenziose, spesso molto dirette ma anche piene di tatto.
Bella anche la palette pastello che permea la fotografia: dominata dal blu in ogni sua possibile sfumatura e da bianchi luminosissimi, restituisce la magia e la spensieratezza dell'amore giovanile che sboccia.
Questa estetica, tipica di tante opere sentimentali sudcoreane, ha qui un equilibrio perfetto e una sua nobiltà: non è “bellezza confezionata ad arte”, è una fotografia che in un certo senso respira l'aria della sua sceneggiatura e per questo ha una sua impronta naturale e autentica.
Ciliegina sulla torta le performance attoriali, tutte molto convincenti, e una colonna sonora incantevole.
Autore: Rudido
Cells at Work! - Japan 2024
disponibile solo in sala (proiezione del 25 aprile 2025)

A chi serba affezionate memorie d'infanzia con la serie animata "Siamo fatti cosi", l'idea scaturita dalla mangaka Akane Shimizu per la sua opera Cells at work! non sembrerà forse più di tanto eccezionale. C'è tuttavia un dettaglio da non dimenticare: quando un particolare concept passa per una elaborazione "made in Japan", il risultato potrebbe serbare delle sorprese. La fama del film era stata preceduta da innumerevoli notizie circa lo stratosferico budget impiegato da Warner Bros, il variegato cast di noti attori che godono di cameo più o meno importanti, e l'ottima performance in termini di incassi al botteghino nipponico.
A ragion veduta, la pellicola intrattiene che è un vero, solido piacere.
La costruzione della storia alterna un duplice piano in contemporanea: da un lato le disavventure di un maldestro globulo rosso e di un cupo ma valoroso globulo bianco, all'interno di quel macchinario straordinariamente complesso e magnificamente perfetto che costituisce il corpo umano. Impeccabili le performance dei due protagonisti, interpretati da Mei Nagano e da un quasi irriconoscibile Takeru Sato.
Dall'altro lato, lo spaccato di vita della giovane liceale Niko e del suo irresponsabile padre, interpretato dal sempre brillante Sadao Abe, ci espone tutti i loro comportamenti, sentimenti e azioni che sollecitano "risposte dall'interno": talora si tratta di vere e proprie 'esplosioni' con effetti a catena, altre volte ci si ritrova a stupirsi di quanto siano incredibili i processi che, a nostra insaputa, avvengono di continuo nei nostri corpi.
Ed è così che, spesso proprio per (de)merito del personaggio di Abe, innumerevoli e notevolmente ben costruite sono le scene che fanno scaturire grasse risate, se non addirittura grassissime, a firma della regia di quel Hideki Takeuchi che non delude proprio mai.
Se si aggiungono ambientazioni accurate e ricercatissime, una colonna sonora coi fiocchi curata dai Face 2 fake, scene d'azioni ineccepibili e interpretazioni attoriali intense e calibrate, rimane poco altro da aggiungere: il film sa far divertire e commuovere, trattenere il fiato e riflettere, a più riprese, anche sulla rilevanza del saperci prendere cura della nostra più preziosa custodia. Senza mai mancare, naturalmente, di "fare i compiti per casa" e compiere ogni giorno il nostro dovere, per il bene collettivo.
A ragion veduta, la pellicola intrattiene che è un vero, solido piacere.
La costruzione della storia alterna un duplice piano in contemporanea: da un lato le disavventure di un maldestro globulo rosso e di un cupo ma valoroso globulo bianco, all'interno di quel macchinario straordinariamente complesso e magnificamente perfetto che costituisce il corpo umano. Impeccabili le performance dei due protagonisti, interpretati da Mei Nagano e da un quasi irriconoscibile Takeru Sato.
Dall'altro lato, lo spaccato di vita della giovane liceale Niko e del suo irresponsabile padre, interpretato dal sempre brillante Sadao Abe, ci espone tutti i loro comportamenti, sentimenti e azioni che sollecitano "risposte dall'interno": talora si tratta di vere e proprie 'esplosioni' con effetti a catena, altre volte ci si ritrova a stupirsi di quanto siano incredibili i processi che, a nostra insaputa, avvengono di continuo nei nostri corpi.
Ed è così che, spesso proprio per (de)merito del personaggio di Abe, innumerevoli e notevolmente ben costruite sono le scene che fanno scaturire grasse risate, se non addirittura grassissime, a firma della regia di quel Hideki Takeuchi che non delude proprio mai.
Se si aggiungono ambientazioni accurate e ricercatissime, una colonna sonora coi fiocchi curata dai Face 2 fake, scene d'azioni ineccepibili e interpretazioni attoriali intense e calibrate, rimane poco altro da aggiungere: il film sa far divertire e commuovere, trattenere il fiato e riflettere, a più riprese, anche sulla rilevanza del saperci prendere cura della nostra più preziosa custodia. Senza mai mancare, naturalmente, di "fare i compiti per casa" e compiere ogni giorno il nostro dovere, per il bene collettivo.
Autore: zettaiLara
Silent City Driver - Mongolia 2024, Italian Premiere
disponibile online
“Silent City Driver” è una potente storia di solitudini che si incontrano e di una ricerca di riscatto che termina con un gesto estremo e scioccante.
Protagonista della pellicola è Myagmar, un ex detenuto profondamente segnato, che vive ai margini della società.
Abita con i cani randagi che accoglie e lavora come autista di carro funebre, ma l'inattesa conoscenza di Saruul, figlia di un falegname cieco di bare, riaccende in lui la scintilla, e la speranza di connessione umana.
Il 13° lungometraggio di Sengedorj Janchivdorj è lento e meditativo, scava a fondo nei silenzi e nei gesti ed è elevato dalla fotografia desaturata di Enkhbayar Enkhtur, che restituisce tutta la sofferenza psicologica ed emozionale del protagonista.
La canzone ricorrente “Comme un Boomerang“ di Serge Gainsbourg aggiunge malinconia, sottolineando costantemente che anche quando si tenta di fuggire da sé stessi il passato torna sempre a farsi sentire.
Premiato come Miglior Film e per la Migliore Scenografia al Tallinn Black Nights Film Festival 2024, “Silent City Driver” è uno dei rari film in cui ogni minuto è pienamente giustificato.
Un'opera intensa e suggestiva su un uomo tormentato dai fantasmi del passato, alla ricerca di una riconciliazione con la propria esistenza.
Il gesto definitivo con cui si chiude il racconto è anche particolarmente criptico: forma estrema di espiazione o unione di due emarginati?
Rifiuto totale del mondo o metafora della prigione interiore?
Una scelta registica così estrema non offre risposte facili, ma resta incisa nella memoria, lasciandoci il compito di decifrarne i significati.
Protagonista della pellicola è Myagmar, un ex detenuto profondamente segnato, che vive ai margini della società.
Abita con i cani randagi che accoglie e lavora come autista di carro funebre, ma l'inattesa conoscenza di Saruul, figlia di un falegname cieco di bare, riaccende in lui la scintilla, e la speranza di connessione umana.
Il 13° lungometraggio di Sengedorj Janchivdorj è lento e meditativo, scava a fondo nei silenzi e nei gesti ed è elevato dalla fotografia desaturata di Enkhbayar Enkhtur, che restituisce tutta la sofferenza psicologica ed emozionale del protagonista.
La canzone ricorrente “Comme un Boomerang“ di Serge Gainsbourg aggiunge malinconia, sottolineando costantemente che anche quando si tenta di fuggire da sé stessi il passato torna sempre a farsi sentire.
Premiato come Miglior Film e per la Migliore Scenografia al Tallinn Black Nights Film Festival 2024, “Silent City Driver” è uno dei rari film in cui ogni minuto è pienamente giustificato.
Un'opera intensa e suggestiva su un uomo tormentato dai fantasmi del passato, alla ricerca di una riconciliazione con la propria esistenza.
Il gesto definitivo con cui si chiude il racconto è anche particolarmente criptico: forma estrema di espiazione o unione di due emarginati?
Rifiuto totale del mondo o metafora della prigione interiore?
Una scelta registica così estrema non offre risposte facili, ma resta incisa nella memoria, lasciandoci il compito di decifrarne i significati.
Autore: Rudido
disponibile online
In Dirty Money, il regista Kim Min-soo racconta la storia di Myung-deuk e Dong-hyuk, due detective della polizia di Incheon che, travolti dai debiti e da drammi personali, si lasciano corrompere da un’organizzazione criminale cinese. Decidono poi di tradire i loro stessi complici tentando un furto di denaro sporco, un’azione che, come prevedibile, scatena una spirale di violenza e rovina.
Se da un lato il film riesce a mantenere un buon ritmo narrativo grazie a un montaggio serrato, alle scene d’azione e a una fotografia sporca ed efficace, dall’altro rivela rapidamente i suoi limiti. La trama si appoggia a schemi narrativi abusati, riproponendo senza grandi variazioni il classico canovaccio del buddy movie con sbirri corrotti e colpi andati male. I due protagonisti, pur ben interpretati da Jung Woo e Kim Dae-myung, faticano a emanciparsi dai cliché di genere, rimanendo imprigionati in dinamiche già viste e poco sorprendenti.
A peggiorare le cose, Dirty Money indulge in una violenza gratuita che, invece di aumentare la tensione o l’impatto emotivo, appare spesso fine a sé stessa. Le scene più crude sembrano inserite per scuotere lo spettatore in modo artificioso, senza una reale necessità narrativa.
Nonostante qualche buon momento di suspense e la discreta alchimia tra i protagonisti, il film manca di originalità e resta un prodotto che intrattiene senza mai davvero sorprendere. Un esordio che dimostra mestiere, ma poca capacità di rinnovare il genere.
Se da un lato il film riesce a mantenere un buon ritmo narrativo grazie a un montaggio serrato, alle scene d’azione e a una fotografia sporca ed efficace, dall’altro rivela rapidamente i suoi limiti. La trama si appoggia a schemi narrativi abusati, riproponendo senza grandi variazioni il classico canovaccio del buddy movie con sbirri corrotti e colpi andati male. I due protagonisti, pur ben interpretati da Jung Woo e Kim Dae-myung, faticano a emanciparsi dai cliché di genere, rimanendo imprigionati in dinamiche già viste e poco sorprendenti.
A peggiorare le cose, Dirty Money indulge in una violenza gratuita che, invece di aumentare la tensione o l’impatto emotivo, appare spesso fine a sé stessa. Le scene più crude sembrano inserite per scuotere lo spettatore in modo artificioso, senza una reale necessità narrativa.
Nonostante qualche buon momento di suspense e la discreta alchimia tra i protagonisti, il film manca di originalità e resta un prodotto che intrattiene senza mai davvero sorprendere. Un esordio che dimostra mestiere, ma poca capacità di rinnovare il genere.
Autore: bob71
"Dirty Money", esordio alla regia del sudcoreano Min-soo Kim, è un’adrenalinica crime-story che, pur non brillando per originalità, riesce comunque a centrare il bersaglio, intrattenendo per tutta la sua durata di 100 minuti.
La sceneggiatura pesca a piene mani da dinamiche e cliché visti e rivisti: dai doppi giochi alla corruzione dilagante, dai classici colpi finiti male alla figlioletta ospedalizzata, ma riesce comunque a mantenere abbastanza alta la tensione (e l'attenzione) grazie a un buon ritmo e a una regia senza sbavature.
Ma soprattutto il cast è uno dei punti di forza del film: gli interpreti convincono e rendono credibili personaggi che, sulla carta, sembrerebbero molto stereotipati.
La fotografia riesce a dare atmosfera alle sequenze senza eccessi o cali repentini, sottolineando tanto i momenti di tensione quanto le esplosioni di violenza.
In definitiva, "Dirty Money" non offre nulla di davvero nuovo, ma è un debutto solido che intrattiene e non annoia.
La sceneggiatura pesca a piene mani da dinamiche e cliché visti e rivisti: dai doppi giochi alla corruzione dilagante, dai classici colpi finiti male alla figlioletta ospedalizzata, ma riesce comunque a mantenere abbastanza alta la tensione (e l'attenzione) grazie a un buon ritmo e a una regia senza sbavature.
Ma soprattutto il cast è uno dei punti di forza del film: gli interpreti convincono e rendono credibili personaggi che, sulla carta, sembrerebbero molto stereotipati.
La fotografia riesce a dare atmosfera alle sequenze senza eccessi o cali repentini, sottolineando tanto i momenti di tensione quanto le esplosioni di violenza.
In definitiva, "Dirty Money" non offre nulla di davvero nuovo, ma è un debutto solido che intrattiene e non annoia.
Autore: Rudido
Like a Rolling Stone - China 2024, European Festival Premiere - disponibile solo in sala (proiezione del 25 aprile 2025)
Like a Rolling Stone colpisce per la delicatezza e l'onestà con cui racconta una figura femminile spesso messa ai margini della propria storia.
La protagonista è sempre "qualcosa per qualcun altro" – figlia, madre, moglie, lavoratrice, nonna – e raramente sé stessa, ma il film si prende il tempo di restituirle la possibilità di essere, prima di tutto, una persona con i propri sogni ed aspirazioni.
Quello che ho apprezzato maggiormente è il modo in cui il racconto riesce a essere universale partendo da un'esperienza profondamente individuale: non c'è mai la volontà di generalizzare o di trasformare il vissuto personale in una "causa" astratta.
Attraverso il ritratto di una sola vita, Like a Rolling Stone riesce a dare voce a molte, offrendo uno specchio in cui riconoscersi senza forzature e senza retorica.
Il film evita facili scorciatoie emotive, rimanendo sempre sincero e sobrio, e proprio per questo riesce a parlare con forza.
È un'opera che emoziona, lasciando spazio a chi guarda di ritrovarsi nei silenzi, nelle scelte mancate, nelle rinunce, nei piccoli gesti quotidiani che, sommati, costruiscono un'intera esistenza.
La protagonista è sempre "qualcosa per qualcun altro" – figlia, madre, moglie, lavoratrice, nonna – e raramente sé stessa, ma il film si prende il tempo di restituirle la possibilità di essere, prima di tutto, una persona con i propri sogni ed aspirazioni.
Quello che ho apprezzato maggiormente è il modo in cui il racconto riesce a essere universale partendo da un'esperienza profondamente individuale: non c'è mai la volontà di generalizzare o di trasformare il vissuto personale in una "causa" astratta.
Attraverso il ritratto di una sola vita, Like a Rolling Stone riesce a dare voce a molte, offrendo uno specchio in cui riconoscersi senza forzature e senza retorica.
Il film evita facili scorciatoie emotive, rimanendo sempre sincero e sobrio, e proprio per questo riesce a parlare con forza.
È un'opera che emoziona, lasciando spazio a chi guarda di ritrovarsi nei silenzi, nelle scelte mancate, nelle rinunce, nei piccoli gesti quotidiani che, sommati, costruiscono un'intera esistenza.
Autore: mxcol
See You Tomorrow - Japan 2024, International Premiere
disponibile online
Primo lungometraggio della ventisettenne Saki Michimoto, “See You Tomorrow” è un film convincente, che parla di arte, di amicizia e del talento che isola chi lo possiede.
Film graficamente molto interessante, costellato di inquadrature eleganti ma che sa anche ben raccontare la sua storia rimanendo sempre su toni intimi e quasi confidenziali, e funzionando a mio parere senza passi falsi fino alla fine.
Fulcro di tutto è Nao, il suo talento e il suo rapportarsi con gli amici e il mondo esterno: le dinamiche che si sviluppano e l'apparente o reale distacco della protagonista verso gli altri sono infatti rappresentate costantemente dall'inizio alla fine della pellicola. L'artista sembra dunque un pesce fuor d'acqua in qualunque contesto?
Forse.
Nao sembra da un lato condannata dalla sua stessa ossessione a non avvicinarsi troppo agli altri, rimanendo sempre una sorta di elemento esterno, ma dall'altro gli altri sono proprio i soggetti della sua opera e della sua curiosità.
Tra eleganza visiva, delicatezza e riflessioni sull'arte e la vita, “See You Tomorrow” mi ha lasciato comunque belle sensazioni, è un film misurato e in parte anche un po' “sfuggente” (come la sua protagonista), ma proprio per questo affascinante.
Film graficamente molto interessante, costellato di inquadrature eleganti ma che sa anche ben raccontare la sua storia rimanendo sempre su toni intimi e quasi confidenziali, e funzionando a mio parere senza passi falsi fino alla fine.
Fulcro di tutto è Nao, il suo talento e il suo rapportarsi con gli amici e il mondo esterno: le dinamiche che si sviluppano e l'apparente o reale distacco della protagonista verso gli altri sono infatti rappresentate costantemente dall'inizio alla fine della pellicola. L'artista sembra dunque un pesce fuor d'acqua in qualunque contesto?
Forse.
Nao sembra da un lato condannata dalla sua stessa ossessione a non avvicinarsi troppo agli altri, rimanendo sempre una sorta di elemento esterno, ma dall'altro gli altri sono proprio i soggetti della sua opera e della sua curiosità.
Tra eleganza visiva, delicatezza e riflessioni sull'arte e la vita, “See You Tomorrow” mi ha lasciato comunque belle sensazioni, è un film misurato e in parte anche un po' “sfuggente” (come la sua protagonista), ma proprio per questo affascinante.
Autore: Rudido
Il film racconta molto bene il percorso di vita e artistico di Nao, il cui talento per la fotografia da un lato le fa spiccare il volo verso un mondo di successo, dall'altro la isola dalle persone più vicine.
È difficile convivere con qualcuno più bravo di te, specie se quella persona mette il suo talento al primo posto e vede solo la sua passione, relegando in secondo piano tutto il resto. Perciò i sentimenti delle persone a lei vicine sono in continuo contrasto, tra positivi e negativi.
Non aiutano poi certi atteggiamenti di lei, come scattare foto in momenti che le persone in genere vorrebbero mantenere privati.
Ci si chiede allora se la solitudine sia frutto di questo modo di porsi, più che del talento in sé. Emblematica la scena finale, dove ancora una volta lo scattare foto diventa la cosa prioritaria, facendo perdere il contatto con tutto il resto.
Eppure a lei sembra piacere questo perdersi a scapito degli altri. Come invece la pensino loro, non ci è dato sapere.
La storia scorre in maniera naturale, senza grandi scossoni.
A me è venuto da empatizzare con i più, soprattutto con Yamada, surclassato e abbandonato, in imbarazzo per i suoi fallimenti, ancor più evidenti di fronte al successo di Nao, al punto di non riuscire più a guardare gli altri in faccia. Mi ha fatto tanta tenerezza.
Nao invece l'ho vista troppo nel suo mondo e incurante di quello degli altri, se non per scattare la foto giusta al momento giusto, e mi ha fatto sentire come se ci fosse davvero un muro tra lei e lo spettatore.
Ma probabilmente l'effetto voluto era proprio quello, così da farci percepire quanto solitario sia il suo cammino.
È difficile convivere con qualcuno più bravo di te, specie se quella persona mette il suo talento al primo posto e vede solo la sua passione, relegando in secondo piano tutto il resto. Perciò i sentimenti delle persone a lei vicine sono in continuo contrasto, tra positivi e negativi.
Non aiutano poi certi atteggiamenti di lei, come scattare foto in momenti che le persone in genere vorrebbero mantenere privati.
Ci si chiede allora se la solitudine sia frutto di questo modo di porsi, più che del talento in sé. Emblematica la scena finale, dove ancora una volta lo scattare foto diventa la cosa prioritaria, facendo perdere il contatto con tutto il resto.
Eppure a lei sembra piacere questo perdersi a scapito degli altri. Come invece la pensino loro, non ci è dato sapere.
La storia scorre in maniera naturale, senza grandi scossoni.
A me è venuto da empatizzare con i più, soprattutto con Yamada, surclassato e abbandonato, in imbarazzo per i suoi fallimenti, ancor più evidenti di fronte al successo di Nao, al punto di non riuscire più a guardare gli altri in faccia. Mi ha fatto tanta tenerezza.
Nao invece l'ho vista troppo nel suo mondo e incurante di quello degli altri, se non per scattare la foto giusta al momento giusto, e mi ha fatto sentire come se ci fosse davvero un muro tra lei e lo spettatore.
Ma probabilmente l'effetto voluto era proprio quello, così da farci percepire quanto solitario sia il suo cammino.
Autore: Godaime Hokage
Suzzanna: The Queen of Black Magic - USA 2024, Italian Premiere
disponibile online
"Suzzanna: The Queen of Black Magic" diretto da David Gregory, filmmaker statunitense, è un documentario (oltre che un omaggio) interessante e ben costruito sulla vita di Suzzanna Martha Frederika Van Osch, una leggendaria attrice del cinema horror indonesiano attiva soprattutto negli anni ’70 e ’80.
Suzzanna è stata una figura amatissima dal pubblico dell'epoca, e al tempo stesso la sua vita era avvolta dal mistero.
Attorno alla diva circolavano racconti esagerati e vere e proprie leggende, e molti spettatori credevano addirittura che avesse davvero poteri soprannaturali.
Il film ricostruisce la sua carriera e il suo impatto culturale, ma è anche interessante per chi vuole conoscere meglio la storia dell’Indonesia e l’evoluzione del suo cinema.
Un lavoro molto valido, che ci racconta non solo un’icona ma offre uno sguardo ravvicinato sull'universo cinematografico di questo stato-arcipelago.
Suzzanna è stata una figura amatissima dal pubblico dell'epoca, e al tempo stesso la sua vita era avvolta dal mistero.
Attorno alla diva circolavano racconti esagerati e vere e proprie leggende, e molti spettatori credevano addirittura che avesse davvero poteri soprannaturali.
Il film ricostruisce la sua carriera e il suo impatto culturale, ma è anche interessante per chi vuole conoscere meglio la storia dell’Indonesia e l’evoluzione del suo cinema.
Un lavoro molto valido, che ci racconta non solo un’icona ma offre uno sguardo ravvicinato sull'universo cinematografico di questo stato-arcipelago.
Autore: Rudido
A Bad Summer - Japan 2025, International Premiere
disponibile online
Il film parte molto lentamente, con un focus sui vari protagonisti della storia: assistenti sociali, persone che percepiscono sussidi meritatamente (o meno) e che cercano di vivere, con gran fatica, col poco che hanno, arrivando infine ai criminali che si approfittano delle disgrazie altrui.
Piano piano le loro vicende si intrecciano in un crescendo di follia e disperazione e il povero protagonista, un gentile ed onesto assistente sociale, interpretato da Takumi Kitamura, finisce per rimanere invischiato in una brutta storia solo perché perfetta vittima sacrificale dei macchinamenti di persone senza scrupoli.
Piano piano le loro vicende si intrecciano in un crescendo di follia e disperazione e il povero protagonista, un gentile ed onesto assistente sociale, interpretato da Takumi Kitamura, finisce per rimanere invischiato in una brutta storia solo perché perfetta vittima sacrificale dei macchinamenti di persone senza scrupoli.
La storia presenta luci e ombre, con personaggi che sembrano onesti ma che invece sono più oscuri dei peggiori delinquenti e poveri diavoli che cercano di sopravvivere in un mondo che gli si oppone in ogni modo.
Si arriva a pensare che farla finita sia l'unica soluzione, cercare la tragedia come via d'uscita, toccare il fondo per poi risalire, oppure per restarci e guardare da laggiù come le vite degli altri avanzino come se nulla fosse.
La storia lascia molto l'amaro in bocca; prevale la sensazione che, chi meritava più di tutti la salvezza alla fine abbia solo preso calci in faccia.
Fa riflettere, ma lascia anche frastornati.
Fa riflettere, ma lascia anche frastornati.
Autore: Godaime Hokage
L'ambigua relazione tra Sasaki, timido assistente sociale, e Aimi, madre single ed ex prostituta, coinvolta in un piano criminale orchestrato da un gangster, è il perno su cui si regge questa pellicola diretta dal versatile Hideo Jōjō.
Una rappresentazione nerissima e che mescola molto bene critica sociale, thriller, dramma psicologico e dilemmi morali; creando una tensione che sale fino a un confronto finale brutale, eccessivo e quasi catartico. Nella tempesta cade il velo dell'ipocrisia che avvolge i personaggi e tra carne, sangue e violenza (fisica e sociale), questi vengono schiacciati inesorabilmente come la cicala dell'incipit.
Un film che ritrae un'umanità senza speranza.
Bello e soprattutto possibile e attualissimo nella sua descrizione di una realtà e una società spietate, dove tra abusi e contraddizioni morali, le vite degli esseri umani sono travolte come granelli di sabbia nel vento da forze incontrollabili.
Una rappresentazione nerissima e che mescola molto bene critica sociale, thriller, dramma psicologico e dilemmi morali; creando una tensione che sale fino a un confronto finale brutale, eccessivo e quasi catartico. Nella tempesta cade il velo dell'ipocrisia che avvolge i personaggi e tra carne, sangue e violenza (fisica e sociale), questi vengono schiacciati inesorabilmente come la cicala dell'incipit.
Un film che ritrae un'umanità senza speranza.
Bello e soprattutto possibile e attualissimo nella sua descrizione di una realtà e una società spietate, dove tra abusi e contraddizioni morali, le vite degli esseri umani sono travolte come granelli di sabbia nel vento da forze incontrollabili.
Autore: Rudido

A Bad Summer di Jojo Hideo dipinge una torbida estate nipponica, soffocante di ipocrisie e cadute morali, adattando il romanzo di Somei Tamehito con una regia che alterna intuizioni felici a scelte meno convincenti. Protagonista è Sasaki (Kitamura Takumi), un giovane funzionario dei servizi sociali che, spinto dal desiderio di "fare la cosa giusta", si ritrova coinvolto in un vortice di corruzione e inganni.
La vicenda si apre con una denuncia sociale che presto si complica: Sasaki viene spinto dalla collega Miyata (Ito Marika) a smascherare un truffatore, ma finisce invece per scoprire abusi molto più gravi dentro il suo stesso ufficio ai danni di una madre single, Aimi (Kawai Yuumi). Cercando di proteggere la donna, Sasaki entra in un gioco di potere più grande di lui, dove le sue buone intenzioni rischiano di travolgerlo.
Inizialmente teso tra commedia nera e dramma sociale, il racconto ingrana, ma con l'accumulo di situazioni ambigue, quando i protagonisti finiscono invischiati nei giochi manipolatori di uno spietato boss della yakuza, precipita verso un finale concitato e parossistico che rischia di scivolare nel grottesco. L’escalation è volutamente estrema ma, nel tentativo di tirare le fila delle complesse dinamiche fra i vari personaggi, il film sacrifica parte della sua credibilità, sfiorando la caricatura proprio nei momenti in cui avrebbe dovuto colpire più a fondo.
A salvare l'opera dalla deriva è soprattutto il cast: Kawai Yuumi conferma il suo talento, offrendo una prova intensa e misurata che restituisce la complessità emotiva di Aimi, personaggio fragile e allo stesso tempo caparbio. Un risultato che, insieme alla solida prova degli altri interpreti, rende A Bad Summer un film imperfetto ma comunque degno di attenzione.
La vicenda si apre con una denuncia sociale che presto si complica: Sasaki viene spinto dalla collega Miyata (Ito Marika) a smascherare un truffatore, ma finisce invece per scoprire abusi molto più gravi dentro il suo stesso ufficio ai danni di una madre single, Aimi (Kawai Yuumi). Cercando di proteggere la donna, Sasaki entra in un gioco di potere più grande di lui, dove le sue buone intenzioni rischiano di travolgerlo.
Inizialmente teso tra commedia nera e dramma sociale, il racconto ingrana, ma con l'accumulo di situazioni ambigue, quando i protagonisti finiscono invischiati nei giochi manipolatori di uno spietato boss della yakuza, precipita verso un finale concitato e parossistico che rischia di scivolare nel grottesco. L’escalation è volutamente estrema ma, nel tentativo di tirare le fila delle complesse dinamiche fra i vari personaggi, il film sacrifica parte della sua credibilità, sfiorando la caricatura proprio nei momenti in cui avrebbe dovuto colpire più a fondo.
A salvare l'opera dalla deriva è soprattutto il cast: Kawai Yuumi conferma il suo talento, offrendo una prova intensa e misurata che restituisce la complessità emotiva di Aimi, personaggio fragile e allo stesso tempo caparbio. Un risultato che, insieme alla solida prova degli altri interpreti, rende A Bad Summer un film imperfetto ma comunque degno di attenzione.
Autore: bob71
The Scary House, Japan 2025, World Premiere
disponibile online
Da Hirobumi Watanabe non ci si poteva aspettare un horror classico e infatti il regista di Otawara non si smentisce, trasportando il suo personalissimo universo all'interno del genere, con risultati a tratti esilaranti, a tratti un po' inquietanti.
Un vero e proprio horror “fatto in casa” in tutti i sensi dunque, girato con mezzi ridotti, ambientato in una casa infestata in cui lo stesso regista si trasferisce per 7 giorni e 7 notti.
Onestamente dopo aver visto e soprattutto digerito il suo precedente “Techno Brothers” aspettavo questo film con curiosità. Non mi ha deluso.
L'approccio poco convenzionale e basato sulla semplicità mi è sembrato funzionare.
Pur restando fedele a sé stesso, Watanabe infatti si tuffa senza paura nel genere, mettendoci dentro tutto: urla e vecchietti inquietanti, esorcismi, possessioni e impazzimenti, ma lo fa a modo suo.
La casa, più che un luogo, diventa una mente che crolla: ogni stanza è una trappola, ogni rumore è un presagio funesto. Insomma un film un po' folle come l'autore che lo ha realizzato, tra inserti da falso documentario e gag comiche che spezzano la tensione, “The Scary House” non è un horror per tutti, ma per chi ne accetta le regole (o forse la loro assenza).
Un vero e proprio horror “fatto in casa” in tutti i sensi dunque, girato con mezzi ridotti, ambientato in una casa infestata in cui lo stesso regista si trasferisce per 7 giorni e 7 notti.
Onestamente dopo aver visto e soprattutto digerito il suo precedente “Techno Brothers” aspettavo questo film con curiosità. Non mi ha deluso.
L'approccio poco convenzionale e basato sulla semplicità mi è sembrato funzionare.
Pur restando fedele a sé stesso, Watanabe infatti si tuffa senza paura nel genere, mettendoci dentro tutto: urla e vecchietti inquietanti, esorcismi, possessioni e impazzimenti, ma lo fa a modo suo.
La casa, più che un luogo, diventa una mente che crolla: ogni stanza è una trappola, ogni rumore è un presagio funesto. Insomma un film un po' folle come l'autore che lo ha realizzato, tra inserti da falso documentario e gag comiche che spezzano la tensione, “The Scary House” non è un horror per tutti, ma per chi ne accetta le regole (o forse la loro assenza).
Autore: Rudido
Hirobumi Watanabe, maestro della comicità stralunata e dell'indie a bassissimo budget, decide di cimentarsi con il genere horror in The Scary House. O, per essere precisi, decide di camminare con disinvoltura sul confine tra l’horror e la parodia dell’horror, finendo inevitabilmente per sconfinare nella seconda.
La produzione, come da tradizione watanabiana, è snella e casalinga: pochi attori, una location polverosa e un'atmosfera volutamente trasandata. La regia si muove con passo lento e disinvolto, mescolando lunghi silenzi, gag surreali, interviste in stile documentario, in un continuo gioco di rottura delle aspettative.
La fotografia, spoglia e poco luminosa, sembra voler costruire il brivido ma finisce per accentuare il senso di straniamento grottesco che attraversa tutto il film. L’orrore tanto atteso resta sempre sullo sfondo, come un attore distratto che dimentica di entrare in scena.
Le musiche, firmate dal fratello Yuji Watanabe, sono come il film: minimaliste, citazioniste, spiazzanti e più adatte a una commedia dell’assurdo che a un horror vero e proprio. La colonna sonora interviene a sottolineare con discrezione il ridicolo delle situazioni, senza mai prendere sul serio il terrore annunciato.
The Scary House è, insomma, un horror che promette brividi ma mantiene risate. Un film che sembra farsi beffe del genere stesso, dove l’unico vero spavento è la capacità di Watanabe di trasformare anche l'inquietudine più profonda in un pretesto per prendersi amabilmente in giro. E forse è proprio questo il suo talento più raro.
La produzione, come da tradizione watanabiana, è snella e casalinga: pochi attori, una location polverosa e un'atmosfera volutamente trasandata. La regia si muove con passo lento e disinvolto, mescolando lunghi silenzi, gag surreali, interviste in stile documentario, in un continuo gioco di rottura delle aspettative.
La fotografia, spoglia e poco luminosa, sembra voler costruire il brivido ma finisce per accentuare il senso di straniamento grottesco che attraversa tutto il film. L’orrore tanto atteso resta sempre sullo sfondo, come un attore distratto che dimentica di entrare in scena.
Le musiche, firmate dal fratello Yuji Watanabe, sono come il film: minimaliste, citazioniste, spiazzanti e più adatte a una commedia dell’assurdo che a un horror vero e proprio. La colonna sonora interviene a sottolineare con discrezione il ridicolo delle situazioni, senza mai prendere sul serio il terrore annunciato.
The Scary House è, insomma, un horror che promette brividi ma mantiene risate. Un film che sembra farsi beffe del genere stesso, dove l’unico vero spavento è la capacità di Watanabe di trasformare anche l'inquietudine più profonda in un pretesto per prendersi amabilmente in giro. E forse è proprio questo il suo talento più raro.
Autore: bob71
Good Luck, Japan 2025, International Premiere
disponibile online
Un giovane regista che non sembra fare ciò che invece dovrebbe amare con passione.
Una ragazza che va sempre in giro con una bottiglia o una lattina di birra; beve per dimenticare qualcosa? E se sì, che cosa? Forse la propria inadeguatezza?
Questi sono i protagonisti di questa storia che non produce grandi emozioni, ma fila per la sua strada sorretta da bellissimi paesaggi ed atmosfere particolari.
Una ragazza che va sempre in giro con una bottiglia o una lattina di birra; beve per dimenticare qualcosa? E se sì, che cosa? Forse la propria inadeguatezza?
Questi sono i protagonisti di questa storia che non produce grandi emozioni, ma fila per la sua strada sorretta da bellissimi paesaggi ed atmosfere particolari.
Ci sono diverse scene surreali, che sinceramente non penso di avere capito, ma forse questo è proprio quello che il regista voleva.
La storia e il dietro le quinte in alcuni momenti si intrecciano, ma non ne ho afferrato il motivo.
Alla fine ci si chiede: "Ma quindi? Come finisce? Il senso qual è?"
Questo per lo meno è stata la domanda che mi sono posta io.
Lo consiglio solo per le ambientazioni, la trama mi ha deluso.
La storia e il dietro le quinte in alcuni momenti si intrecciano, ma non ne ho afferrato il motivo.
Alla fine ci si chiede: "Ma quindi? Come finisce? Il senso qual è?"
Questo per lo meno è stata la domanda che mi sono posta io.
Lo consiglio solo per le ambientazioni, la trama mi ha deluso.
Autore: Godaime Hokage
Taro, giovane regista spinto dalla sua ragazza a presenziare a un festival di cortometraggi, nella prefettura di Oita, in cui ha vinto una “menzione”, dopo esservisi recato incontra Miki: un’esuberante sconosciuta che scopriremo in seguito essere anche un'attrice.
I due finiranno per viaggiare insieme per tutto il fine settimana, visitando una località nelle vicinanze, tra paesaggi rurali, saune e riflessioni sulla vita e sull'esistenza.
Shin Adachi, il regista, imbastisce un racconto forse semi-autobiografico, che non ha bisogno di grandi svolte, ma che trova forza proprio nella semplicità e nella naturalezza con cui è raccontato. Bella la fotografia, composta da inquadrature molto eterogenee: si alternano camere a mano, fisse, e campi lunghissimi che danno respiro e senso di distanza.
Il tutto contribuisce a restituire una sensazione di sospensione che è un po' quella che vivono i due personaggi principali in questo viaggio improvvisato.
Ma l'opera sa anche, quando vuole, spiazzare con intelligenza: molto bello il momento in cui la narrazione si “rompe” e Yuki, la fidanzata, entra nella casa sull'albero dove Taro e Miki stanno flirtando nel cuore della notte.
Una rottura della quarta parete sì, ma anche un’irruzione della realtà nel fragile equilibrio di questa dimensione in un certo senso “sospesa”.
Sullo stesso piano anche la promessa finale, un appuntamento affidato quasi al caso, ma pieno di possibilità e che riflette precisamente il senso dell'incontro inaspettato che ha dato corpo e sostanza all'opera.
I due finiranno per viaggiare insieme per tutto il fine settimana, visitando una località nelle vicinanze, tra paesaggi rurali, saune e riflessioni sulla vita e sull'esistenza.
Shin Adachi, il regista, imbastisce un racconto forse semi-autobiografico, che non ha bisogno di grandi svolte, ma che trova forza proprio nella semplicità e nella naturalezza con cui è raccontato. Bella la fotografia, composta da inquadrature molto eterogenee: si alternano camere a mano, fisse, e campi lunghissimi che danno respiro e senso di distanza.
Il tutto contribuisce a restituire una sensazione di sospensione che è un po' quella che vivono i due personaggi principali in questo viaggio improvvisato.
Ma l'opera sa anche, quando vuole, spiazzare con intelligenza: molto bello il momento in cui la narrazione si “rompe” e Yuki, la fidanzata, entra nella casa sull'albero dove Taro e Miki stanno flirtando nel cuore della notte.
Una rottura della quarta parete sì, ma anche un’irruzione della realtà nel fragile equilibrio di questa dimensione in un certo senso “sospesa”.
Sullo stesso piano anche la promessa finale, un appuntamento affidato quasi al caso, ma pieno di possibilità e che riflette precisamente il senso dell'incontro inaspettato che ha dato corpo e sostanza all'opera.
Autore: Rudido
Upstream - China 2024, European Festival Premiere - disponibile solo in sala (proiezione del 25 aprile 2025)
Upstream offre uno sguardo crudo e sincero sulla vita dei rider, raccontandone le condizioni lavorative senza filtri né sovrastrutture.
Il film mostra - senza mai indulgere nel pietismo o nella drammatizzazione forzata - come dietro a ogni consegna si nascondano ritmi di lavoro disumani, pressioni costanti e un sistema che mette sempre il cliente al primo posto, relegando il lavoratore a un ruolo quasi invisibile.
È interessante come l’opera riesca a mantenere uno sguardo sfumato: non tutti i rider sono vittime, non tutti odiano ciò che fanno.
C’è chi sceglie quel lavoro e chi invece vi si trova incastrato per mancanza di alternative. Ma, indipendentemente dal punto di partenza, il risultato è lo stesso: accettare tempistiche impossibili, maleducazione da parte dei clienti, vessazioni quotidiane a cui si deve sempre rispondere con un sorriso, per non incappare in una recensione negativa e vedersi penalizzati.
Il film riesce a rendere tangibile l'assurdità di un sistema in cui, per molti rider, sia più importante completare una consegna piuttosto che fermarsi a prendersi cura di sé stessi, anche subito dopo un incidente.
Un vero e proprio "reality check" che racconta con chiarezza quanto possa essere alienante un lavoro apparentemente semplice, ma che in realtà si consuma sulle spalle e sulla dignità delle persone.
Upstream riesce a toccare il cuore e la coscienza dello spettatore, mostrando senza sensazionalismi una realtà che, troppo spesso, preferiamo ignorare.
Il film mostra - senza mai indulgere nel pietismo o nella drammatizzazione forzata - come dietro a ogni consegna si nascondano ritmi di lavoro disumani, pressioni costanti e un sistema che mette sempre il cliente al primo posto, relegando il lavoratore a un ruolo quasi invisibile.
È interessante come l’opera riesca a mantenere uno sguardo sfumato: non tutti i rider sono vittime, non tutti odiano ciò che fanno.
C’è chi sceglie quel lavoro e chi invece vi si trova incastrato per mancanza di alternative. Ma, indipendentemente dal punto di partenza, il risultato è lo stesso: accettare tempistiche impossibili, maleducazione da parte dei clienti, vessazioni quotidiane a cui si deve sempre rispondere con un sorriso, per non incappare in una recensione negativa e vedersi penalizzati.
Il film riesce a rendere tangibile l'assurdità di un sistema in cui, per molti rider, sia più importante completare una consegna piuttosto che fermarsi a prendersi cura di sé stessi, anche subito dopo un incidente.
Un vero e proprio "reality check" che racconta con chiarezza quanto possa essere alienante un lavoro apparentemente semplice, ma che in realtà si consuma sulle spalle e sulla dignità delle persone.
Upstream riesce a toccare il cuore e la coscienza dello spettatore, mostrando senza sensazionalismi una realtà che, troppo spesso, preferiamo ignorare.
Autore: mxcol
Gatao: Like Father Like Son - Taiwan 2024, Italian Premiere
disponibile online
"GATAO: Like Fathers, Like Sons" è il quarto capitolo della saga gangster taiwanese Gatao, e si conferma un buon film di genere, capace di intrattenere e coinvolgere anche chi si avvicina per la prima volta al franchise.
La storia segue tre malcapitati piccoli criminali di quartiere, amici d’infanzia, che si ritrovano coinvolti in una guerra tra bande.
Tra scontri a colpi di mazza da baseball, rapine, fughe rocambolesche e vendette, il film costruisce un racconto abbastanza accessibile, in cui l’azione non schiaccia mai del tutto la storia.
La regia rimane fedele ai codici del genere e il cast convince nel restituire un’umanità violenta ma credibile. Nonostante il forte legame con gli altri capitoli della saga, il film funziona anche come stand-alone, grazie a una storia effervescente e a dei personaggi efficaci.
La storia segue tre malcapitati piccoli criminali di quartiere, amici d’infanzia, che si ritrovano coinvolti in una guerra tra bande.
Tra scontri a colpi di mazza da baseball, rapine, fughe rocambolesche e vendette, il film costruisce un racconto abbastanza accessibile, in cui l’azione non schiaccia mai del tutto la storia.
La regia rimane fedele ai codici del genere e il cast convince nel restituire un’umanità violenta ma credibile. Nonostante il forte legame con gli altri capitoli della saga, il film funziona anche come stand-alone, grazie a una storia effervescente e a dei personaggi efficaci.
Autore: Rudido
Love in the Big City - South Korea 2024
disponibile solo in sala (proiezione del 26 aprile 2025)

“Come può risultare un punto debole essere se stessi?”
Questa frase, che Jae-hee dice a Heung-soo, risuona forte come il vero e unico messaggio del film.
Love in the Big City, adattamento cinematografico del primo capitolo del libro Amore, Marlboro e mirtilli di Sang-young Park, racconta dei pregiudizi che devono affrontare chi viene ritenuto “diverso”.
E non ci si riferisce solo al protagonista che fa di tutto per nascondere la sua omosessualità per paura di essere etichettato, giudicato e non accettato, ma anche alla co-protagonista che affronta le critiche a testa alta: a lei piace divertirsi, bere e innamorarsi dei bei ragazzi e non c’è niente di sbagliato in tutto ciò.
Insieme a Heung-soo, anche lei si dovrà scontrare più volte con un’opinione pubblica retrograda rappresentata durante il corso del film da varie figure, ma che trova la sua espressione massima nella dottoressa della clinica ginecologica alla quale Jae-hee si rivolge: il modellino dell’utero, che prende prima di scappare via correndo, diventa quasi il simbolo dell’orgoglio femminile; sembra quasi gridare che il corpo è di ogni donna e ogni donna ne fa quello che vuole.
Ed è così che il film Love in the Big City diventa portabandiera non solo della comunità LGBTQ, ma anche dei diritti delle donne.
Bello l’omaggio all’autore Sang-young Park: il protagonista legge un articolo in cui si parla proprio di lui e della letteratura queer in Corea.
Questa frase, che Jae-hee dice a Heung-soo, risuona forte come il vero e unico messaggio del film.
Love in the Big City, adattamento cinematografico del primo capitolo del libro Amore, Marlboro e mirtilli di Sang-young Park, racconta dei pregiudizi che devono affrontare chi viene ritenuto “diverso”.
E non ci si riferisce solo al protagonista che fa di tutto per nascondere la sua omosessualità per paura di essere etichettato, giudicato e non accettato, ma anche alla co-protagonista che affronta le critiche a testa alta: a lei piace divertirsi, bere e innamorarsi dei bei ragazzi e non c’è niente di sbagliato in tutto ciò.
Insieme a Heung-soo, anche lei si dovrà scontrare più volte con un’opinione pubblica retrograda rappresentata durante il corso del film da varie figure, ma che trova la sua espressione massima nella dottoressa della clinica ginecologica alla quale Jae-hee si rivolge: il modellino dell’utero, che prende prima di scappare via correndo, diventa quasi il simbolo dell’orgoglio femminile; sembra quasi gridare che il corpo è di ogni donna e ogni donna ne fa quello che vuole.
Ed è così che il film Love in the Big City diventa portabandiera non solo della comunità LGBTQ, ma anche dei diritti delle donne.
Bello l’omaggio all’autore Sang-young Park: il protagonista legge un articolo in cui si parla proprio di lui e della letteratura queer in Corea.
Autore: alis89
Tratto dal romanzo di successo di Sang-young Park; Amore, Marlboro e mirtilli (edito da noi da Rizzoli), Love in the Big City esce nel 2024 quasi in contemporanea con la sua omonima serie.
Il film, a differenza della serie, si basa solo sulla prima parte del libro, cioè quella che tratta l'amicizia tra il protagonista Heung-soo e la sua amica di università Jae-hee.
Entrambi risultano essere anime solitarie ma non arrendevoli in una Seul che appare così calda ma anche estremamente ostile con quelli che cercano di essere quanto più possibile loro stessi.
Emarginati, criticati e giudicati dai loro colleghi d'università e da una società bacchettona e ipocrita, lei perché è ritenuta di vedute troppo aperte e lui perché omosessuale, i nostri due protagonisti riescono a fare fronte comune innescando quella che sarà poi una forte e simbiotica amicizia.
Prima come amici e poi come coinquilini, Heung-soo e Jae-hee si incoraggiano a vicenda, cercando di essere l'una per l'altro come una sorta di famiglia accogliente.
La forza primaria di questo film risiede nella forte chimica dei due attori protagonisti. Sang-hyun Noh e Go-eun Kim riescono davvero in pochissimi frame a coinvolgere lo spettatore, non solo per la loro evidente bellezza, ma anche grazie a una buona sceneggiatura che risulta -per usare un temine inflazionato- credibile.
Gli amori, i dispiaceri, le battaglie, i tradimenti e i momenti di svago appaiono veri, tangibili, cose che tutti abbiamo fatto.
Se la sceneggiature appare da subito buona, andando ad aggiungere poche parti lì dove il libro non dava indicazioni, anche la regia non è da meno. La regista Eon-hee Lee ha dichiarato, infatti, di aver letto il romanzo e di essersi innamorata subito dei suoi personaggi -cosa che si vede- perché è riuscita a trasportare pienamente su schermo quelli che sono i protagonisti del libro tra luci e ombre.
Invero, la pellicola risulta essere un tantino lunga, con le sue quasi due ore di film, ma più che sentirne la "pesantezza" si nota un eccessivo soffermarsi su scene e dettagli forse trascurabili. Il film riesce comunque egregiamente a metere un punto finale alla storia, che nella serie e libro prosegue, e riesce a farlo non tradendo il suo spirito di comprensione e rispetto.
Love in the Big City è un film sorprendente perché parla con semplicità di amicizia, rispetto e amore -non solamente quello sentimentale- che grazie a tutto ciò può aiutarci a cambiare il mondo e il modo di vedere le cose. Senza più discriminazioni, senza più paura, senza più stereotipi nei ruoli di genere, ma essendo solamente quello che si è, perché come dicono nel film: “Come può risultare una debolezza essere se stessi?”.
Il film, a differenza della serie, si basa solo sulla prima parte del libro, cioè quella che tratta l'amicizia tra il protagonista Heung-soo e la sua amica di università Jae-hee.
Entrambi risultano essere anime solitarie ma non arrendevoli in una Seul che appare così calda ma anche estremamente ostile con quelli che cercano di essere quanto più possibile loro stessi.
Emarginati, criticati e giudicati dai loro colleghi d'università e da una società bacchettona e ipocrita, lei perché è ritenuta di vedute troppo aperte e lui perché omosessuale, i nostri due protagonisti riescono a fare fronte comune innescando quella che sarà poi una forte e simbiotica amicizia.
Prima come amici e poi come coinquilini, Heung-soo e Jae-hee si incoraggiano a vicenda, cercando di essere l'una per l'altro come una sorta di famiglia accogliente.
La forza primaria di questo film risiede nella forte chimica dei due attori protagonisti. Sang-hyun Noh e Go-eun Kim riescono davvero in pochissimi frame a coinvolgere lo spettatore, non solo per la loro evidente bellezza, ma anche grazie a una buona sceneggiatura che risulta -per usare un temine inflazionato- credibile.
Gli amori, i dispiaceri, le battaglie, i tradimenti e i momenti di svago appaiono veri, tangibili, cose che tutti abbiamo fatto.
Se la sceneggiature appare da subito buona, andando ad aggiungere poche parti lì dove il libro non dava indicazioni, anche la regia non è da meno. La regista Eon-hee Lee ha dichiarato, infatti, di aver letto il romanzo e di essersi innamorata subito dei suoi personaggi -cosa che si vede- perché è riuscita a trasportare pienamente su schermo quelli che sono i protagonisti del libro tra luci e ombre.
Invero, la pellicola risulta essere un tantino lunga, con le sue quasi due ore di film, ma più che sentirne la "pesantezza" si nota un eccessivo soffermarsi su scene e dettagli forse trascurabili. Il film riesce comunque egregiamente a metere un punto finale alla storia, che nella serie e libro prosegue, e riesce a farlo non tradendo il suo spirito di comprensione e rispetto.
Love in the Big City è un film sorprendente perché parla con semplicità di amicizia, rispetto e amore -non solamente quello sentimentale- che grazie a tutto ciò può aiutarci a cambiare il mondo e il modo di vedere le cose. Senza più discriminazioni, senza più paura, senza più stereotipi nei ruoli di genere, ma essendo solamente quello che si è, perché come dicono nel film: “Come può risultare una debolezza essere se stessi?”.
Autore: CloveRed
Betting with Ghost - Vietnam 2024, European Premiere
disponibile online

"Betting with Ghost", film vietnamita diretto da Trung Lun parte come una commedia fantasy, ma dopo un po' vira verso territori più intimi e drammatici, esplorando il rapporto padre-figlio e trasformandosi, col passare dei minuti, in un vero e proprio dramma familiare, sempre però mantenendo elementi soprannaturali e accenni di commedia.
La storia di Lanh, figlio di un becchino, travolto dai debiti a causa del gioco d’azzardo che incontra una donna fantasma con cui cerca di arricchirsi è solo il punto di partenza di una narrazione che affronta anche tematiche pesanti con sensibilità.
Non a caso alla Jakarta Film Week, durante una sessione di domande e risposte, il regista Trung Lun ha rivelato che l’ispirazione per la pellicola è nata dalla lotta contro il cancro di un membro della sua famiglia. Temendo però che un approccio troppo diretto potesse risultare monotono, ha scelto di trattare il tema con ironia e un tocco soprannaturale.
La fotografia è molto curata e suggestiva, in particolare nella prima parte, dove il ritmo è più incalzante.
La seconda metà del film perde un po’ del suo slancio ma riesce comunque a regalare momenti toccanti e visivamente potenti.
Non è un capolavoro, ma “Betting with Ghost” riesce nel suo intento, emozionare.
La storia di Lanh, figlio di un becchino, travolto dai debiti a causa del gioco d’azzardo che incontra una donna fantasma con cui cerca di arricchirsi è solo il punto di partenza di una narrazione che affronta anche tematiche pesanti con sensibilità.
Non a caso alla Jakarta Film Week, durante una sessione di domande e risposte, il regista Trung Lun ha rivelato che l’ispirazione per la pellicola è nata dalla lotta contro il cancro di un membro della sua famiglia. Temendo però che un approccio troppo diretto potesse risultare monotono, ha scelto di trattare il tema con ironia e un tocco soprannaturale.
La fotografia è molto curata e suggestiva, in particolare nella prima parte, dove il ritmo è più incalzante.
La seconda metà del film perde un po’ del suo slancio ma riesce comunque a regalare momenti toccanti e visivamente potenti.
Non è un capolavoro, ma “Betting with Ghost” riesce nel suo intento, emozionare.
Autore: Rudido