In questo spazio presentiamo una lunga intervista/dialogo tra la redazione di AnimeClick.it e Gualtiero "Shito" Cannarsi. Tema del discorso è la ormai prossima uscita nelle sale italiane dell'ultimo film di Hayao Miyazaki, Kaze Tachinu, che è stato spunto per allargare la discussione a temi più generali, tenendo come baricentro l'opera di Miyazaki e dello Studio Ghibli.
Premettiamo che in redazione non abbiamo ancora potuto visionare il film; dunque, si tratta di un incontro ideale tra la prospettiva di chi, come Shito, ha già potuto ammirare e considerare attentamente l'opera (si è già occupato della stesura dei dialoghi per i sottotitoli ufficiali presentati a Venezia) e quella di chi attende con ansia di farlo. Ovvio che sulla nostra attesa abbiano avuto tempo di addensarsi suggestioni e aspettative, solleticate dalle anteprime trapelate e dalle notizie giunte a noi dal Giappone su Si alza il vento, nonché su Kaguya-hime no Monogatari, pellicola di Isao Takahata che completa la notevole doppietta Ghibli del 2013.
Proprio per questo, in un misto di curiosità e di passione per l'opera dei maestri Ghibli, ci siamo confrontati redazionalmente per poi proporre a Cannarsi la pluralità delle nostre voci condensata in singoli quesiti, aperti sempre al dialogo e alla sorpresa. Speriamo sia venuta fuori una cosa gradita al pubblico dei nostri lettori. Innanzitutto, sperando di non dimenticare nessuno, diamo un nome alle voci di cui sentirete l'eco nelle domande aperte poste a Gualtiero Cannarsi. In ordine alfabetico, hanno contribuito: Domenico V, Ironic74, Slanzard, Zelgadis, zettaiLara e キョン, che ha poi riportato le domande all'intervistato.
Vogliamo inoltre ringraziare Shito per la cortesia e la disponibilità dimostrate in questi mesi di collaborazione.
Vi lasciamo adesso, senza altri indugi, alla lettura, raccomondandovi, se ne avrete voglia, di seguirci anche nei prossimi appuntamenti. Nelle prossime settimane avrete modo infatti di leggere le altre parti dell'interdialogo. Prima, però, una piccola sorpresa. Siamo lieti di proporvi, per gentile interessamento di Gualtiero Cannarsi, un sottotitolaggio amatoriale del trailer originale giapponese di Kaze Tachinu, eseguito da mirkosp su testi (sempre amatorialmente) prodotti dallo stesso Gualtiero. Il trailer non è legato in alcun modo a Lucky Red, legittima detentrice per l'Italia dei diritti relativi alla pellicola, né alla pubblicazione italiana del film; è una cosa fatta da FAN per FAN e si riferisce, sin nel cartello che annuncia l'uscita in coda, alla distribuzione nelle sale giapponesi (avvenuta come noto nell'estate del 2013). Il trailer originale è stato diffuso sulla televisione nazionale giapponese ed era stato già reso disponibile su YouTube, da cui è stato tratto per la creazione del presente sottotitolaggio puramente amatoriale.
A.C.
Prima di addentrarci in riflessioni sull'intento narrativo di Miyazaki e sul significato dell'opera all'interno della sua produzione, farei astrazione — per quanto possibile — da questo tipo di considerazioni, per guardare l'opera con gli occhi incantati di uno spettatore che osservi il film 'ad occhio nudo', senza filtri, godendone appieno la poesia. Partirei domandoti: qual è l'atmosfera generale che si respira in questo film?
G.C.
L'atmosfera generale... beh, direi sicuramente un'atmosfera piuttosto realistica dello 'spirito del tempo' di un preciso momento del passato, in un preciso luogo per noi distante: il Giappone degli anni trenta. Per la precisione, Miyazaki Hayao ha parlato esplicitamente del "vento di un'epoca" (jidai no kaze). D'altro canto, stiamo parlando di un film intitolato Si alza il vento! Il concetto viene citato, ripreso e riproposto continuamente nei dialoghi dei personaggi, ma in fondo anche solo leggendo le scritte in sovrapposizione durante il trailer ufficiale del film la cosa risulta piuttosto evidente: si affresca un preciso momento storico, sociologico, per poi porre la domanda "come vivevano i giovani di allora?".
A.C.
Quindi, si tratta realmente di una pellicola che potremmo definire "storica", del tutto priva dell'elemento fantastico, come l'autore e lo studio di produzione l'hanno voluta presentare? Una frattura così netta rispetto allo stile mostrato, per un verso o per l'altro, in tutte le opere precedenti?
G.C.
Naturalmente, trattandosi di Miyazaki Hayao, la componente del 'vagheggiamento fantastico' è sempre un po' presente; anche se qui è celata, o meglio incastonata, in un’ambientazione storica e realistica, non dobbiamo infatti dimenticare che questo soggetto nasce come un breve manga omonimo, inserito nel genere dei Musou Note (traducibile come 'Appunti Trasognati') che l'autore pubblica saltuariamente sulla rivista di modellismo giapponese Model Graphix. Realizzate in grande formato e interamente a colori, con tavole acquerellate dallo stesso Miyazaki Hayao, queste storie a fumetti sono fantasiosamente incentrate su questo o quel celebre tipo di mezzo bellico d'annata, aeroplani soprattutto, come ci si potrebbe aspettare da Miyazaki Hayao, che ne è un grande appassionato, e come si confà a un pubblico di modellisti. Sono chiaramente dei diversivi artistici che Miyazaki crea per suo proprio diletto e interesse, sognando e svagandosi sugli oggetti della sua stessa mania, e anche Kaze Tachinu era da principio uno di questi particolarissimi manga. A ben vedere lo stesso era accaduto per Porco Rosso, tratto da un analogo 'piccolo manga' intitolato Hikoutei Jidai (trad: 'L'epoca degli idrovolanti'), non a caso l'unico altro soggetto di Miyazaki a trattare della storia dell'aeronautica. Tuttavia, se questi brevi manga hanno una loro intrinseca natura estemporanea, fantastica — poiché l'interesse è rivolto soprattutto alla minuzia dei meccanismi bellici rappresentati — nonché un po' umoristica (tutti gli uomini vi sono generalmente trasfigurati in porcellini), al contrario nella trasposizione filmica di Kaze Tachinu l'autore ne ha enfatizzato la componente storiografica e soprattutto realistica. La frattura stilistica che dici c'è senza dubbio, ma più che nella componente storica io la rintraccio nel dichiarato intento di "ritrarre l'uomo a tutto tondo": c'è questo intento realista, dove per 'realista' non intendo il realismo dell'ambiente, degli aerei, della storia, ma quello delle caratterizzazioni umane dei personaggi. Ecco dunque la frattura, il cambiamento stilistico: Miyazaki Hayao ha sempre narrato di personaggi ideali, idealistici. Un punto chiave del suo 'fantastico' è sempre stato proprio questa fanciullesca rappresentazione di una realtà idealizzata popolata da personaggi idealizzati. E Miyazaki stesso è sempre stato ben conscio di questa sua propria caratteristica, che talvolta gli è stata anche rinfacciata come critica (dico in Giappone) e che lui ha sempre giustificato con la necessità di dare speranza soprattutto alle nuove generazioni, dalle quali lui stesso trae a sua volta un senso di speranza per il futuro. Di contro, a fare animazione di stampo 'neorealista' è sempre stato il suo collega anziano Takahata Isao, ben lontano dalle idealità favolistiche di Miyazaki; ma in questo caso, pur mantenendo il suo stile, anche il secondo si è provato a rappresentare la realtà dell'animo umano.
A.C.
Si direbbe in ogni caso una sterzata stilistica molto significativa… senza dubbio sufficiente a rendere la comprensione di questo film per un pubblico straniero ben più ostica dei precedenti. È quindi un film destinato a non essere apprezzato, o realmente amato, in Occidente?
G.C.
Se consideriamo l'intento narrativo e la collocazione scenica del caso, non ha importanza che si tratti di Miyazaki Hayao, o che si trattasse di un Kurosawa Akira, o di un Ozu Yasujirou, ma qualsiasi film diventa di certo un'esperienza 'tutta diversa' a seconda che a fruirla sia un giapponese o uno straniero. Naturalmente un simile gradino culturale esiste sempre e comunque, nella fruizione di qualsiasi opera straniera, ma con una tale collocazione, così ricercata e intesa, messa dichiaratamente nel fuoco dell'occhio registico, il gradino è vertiginoso. Proviamo a invertire i termini: pensiamo a come potrebbe risultare, per esempio, un film sul fascismo, sulla società italiana durante il Ventennio, per un italiano o per un giapponese. Chiaramente anche chi in Italia non ha vissuto quel periodo ne avrà sentito raccontare e parlare durante tutta la sua formazione, per un verso o per l'altro. Per un giapponese invece è qualcosa che accadeva dall'altra parte del mondo, magari citato nei libri di storia, ma necessariamente distante, sicuramente non vissuto in alcun modo da alcun ascendente. E non si tratta solo di eventi storici, perché il particolare clima sociale di un periodo e di un dato luogo, la cultura del tempo, il famoso 'vento di un'epoca' di cui dicevamo influenza le persone che hanno vissuto in quel tempo e in quel luogo. In questi anni di globalizzazione e millantato cosmopolitismo si crede forse che le persone sul pianeta siano essenzialmente tutte uguali, che lo siano in fondo sempre state, ma personalmente non riesco a condividere questa visione. In genere non si può capire la cultura, la società, la vita di un'altra parte del mondo semplicemente documentandosi. La differenza è tutta quella che passa tra la vita e la storia. Quindi, tornando a Kaze Tachinu, per un occidentale che come me ha forti interessi nipponisti, il film è veramente l'occasione per apprezzare uno spaccato della storia moderna e della sociologia del Giappone riconsiderate dall'interno. Anzi, siccome Miyazaki Hayao ha un modo espressivo molto 'sensoriale', molto 'fascinoso', direi quasi 'materico', questa comunicazione credo sia molto intensa e ricchissima, un tuffo in una 'sensazione' che un libro da sé non potrebbe mai dare. Invece, per chi ha scarso interesse verso il Giappone come paese e la sua cultura, suppongo che il film possa risultare piuttosto lento, forse a tratti poco significativo e persino noioso. Del resto, anche lo scolpito umano, specie se 'realistico', è uno scolpito che vive dello spirito del soggetto ritratto, ovvero un protagonista basato su una biografia reale.
A.C.
Parlando di come la storia attraversi una creazione artistica, ci si addentra tra i meandri della memoria, che è poi la sostanza della storia stessa, intesa sia come autobiografia e vicenda personale, sia come vicenda collettiva e successione di eventi epocali. Soffermandoci inizialmente sul primo aspetto, è legittimo chiedersi: qual è il peso della nostalgia nell'economia del lungometraggio? Cito qui Miyazaki: «Quando ho visto il film di Tarkovskij, Nostalghia, ho capito quanto questo sentimento potesse essere universale e condiviso, anche nei bambini. La nostalgia non è un privilegio degli adulti: è una delle rare caratteristiche che ci rendono umani. Umani e bambini. Vivendo, perdiamo, via via, qualcosa. È la vita. La vita diventa, per tutti, nostalgia».
G.C.
Senza ammettere una simile universalizzazione del concetto (e sentimento) di nostalgia, sarebbe qui difficile pensare a un discorso di nostalgia in senso proprio, perché le epoche qui narrate non sono state vissute in prima persona da Miyazaki Hayao. Il film non copre gli anni della Seconda Guerra Mondiale, quanto piuttosto quelli delle sue premesse: indi il regista non era ancora nato. È proprio come per Miyazaki Gorou e Coquelicot-Zaka kara (Dalla Collina dei Papaveri), se vogliamo. Ma se in questo secondo caso si può forse ragguagliare una pur tipica volontà di apologia per una perduta, idealizzata, vagheggiata arcadia di semplicità e purezza di un pur realmente ignoto passato (classico tema di ogni momento di decadenza della storia umana — ciclicamente), in Kaze Tachinu non mi pare di scorgere alcunché di simile. In effetti, l'epoca di Kaze Tachinu era proprio troppo dura e troppo 'impazzita' per poterla rimpiangere con leggerezza: questo nel film è chiarissimamente rappresentato, e Miyazaki Hayao la affresca piuttosto per cercare di capirne il sentimento. Guardando il film, percepisco questo forte interesse d’indagine sensoriale della storia recente, condotta con grande onestà. È d'altronde un interesse molto umanista: l'incedere degli eventi è assai focalizzato sul personaggio del protagonista, sopra ogni cosa. Un po' come andare alla ricerca della verità dell'uomo nella storia, ecco.
A.C.
Sin da quando si è parlato di un film su un personaggio — adulto — che ha strettamente a che fare con gli aerei, da sempre tema caro a Miyazaki, è venuto spontaneo domandarsi se Kaze Tachinu non sarebbe finito per diventare 'troppo carico di spunti' o di desideri e tematiche 'eccessivamente personali'. Kaze Tachinu è questa sorta di ricettacolo? Esiste una specie di impronta personale che Miyazaki avrebbe da sempre desiderato lasciare sulla pellicola di qualche sua opera, e che ha trovato in quest'ultimo film il contenitore ideale? Il discorso aperto con Porco Rosso, i ricordi legati all'azienda paterna di componentistica aeronautica (materiale utilizzato tra l'altro proprio nell'assemblaggio dei caccia Zero progettati da Horikoshi Jirou), ecco... Kaze Tachinu chiude un po' il cerchio?
G.C.
Credo che Miyazaki Hayao, a seguito della sua fascinazione di sempre per gli aerei retrò, abbia negli anni spontaneamente approfondito la figura e la biografia di Horikoshi Jirou, il progettista dei 'leggendari' ZeroSen. In effetti questo è stato anche confermato da Suzuki Toshio. Da lì, il passo all'interesse storiografico e sociologico credo sia breve, se pensiamo a una passione che cresce e invecchia assieme alla persona che la prova. Credo che in genere gli anziani percepiscano la presenza dei tempi passati in modo più profondo del giovani, forse perché un anziano può scorgere 'un tempo perduto' anche nella sua stessa vita. Così Miyazaki Hayao, ormai come passato dalla passione per la letteratura per l'infanzia a classici nazionali quali Natsume Souseki, Hotta Yoshie e poi Hori Tatsuo, si è forse dato del tutto all'interesse per quell'epoca. Allo stesso tempo, Miyazaki ha sempre più empatizzato con la passione (in senso proprio) di Horikoshi verso la creazione di 'qualcosa di bello': un aereo per il progettista, l'animazione per il regista. Credo che questo sentimento di vicinanza corra sul filo di artigianato e arte, devozione per la propria opera, spinta a vivere la propria epoca — tutte cose ben evidenziate nella pellicola, nonché nell'opera e nella vita di Miyazaki Hayao.
A.C.
Dalla nostalgia al futuro. E in questo caso il futuro, per Miyazaki, sarebbe un congedo artistico. Kaze Tachinu è quindi l'opera definitiva, per il maestro, in quanto l'ultima? O semplicemente una al pari delle altre, altrettanto amata e curata?
G.C.
Penso che per Miyazaki Hayao, come forse per ogni artista e artigiano, tutte le opere siano ben diverse fra loro nel momento creativo, ma se rimirate dalla distanza siano poi ugualmente care. Anche questa è una cosa che l'autore ha esplicitamente dichiarato, ma a pensarci non ci sarebbe stato neppure bisogno di chiederglielo. Ciò che per il pubblico sono due ore di film, per l'autore sono due o più anni di vita, di quotidianità, di dedizione, passione e fatica. Alcuni realizzano con lungo tempo ciò che altri consumano in brevissimo tempo. Quindi è normale che ogni film, per un regista come Miyazaki, sia soprattutto legato al momento della vita in cui l'ha realizzato. Non metto in dubbio la sincerità che Miyazaki Hayao ha usato nel dichiarare il suo ritiro dalla creazione dei lungometraggi, ma d'altro canto, come è sempre nella vita e nell'arte e nella vita dell'artista, solo vivendo ogni momento al presente si può sapere che cosa porterà in futuro. Perché cambiando le situazioni contingenti, cambiano anche le percezioni, i sentimenti e le prospettive dell'artista. Senza alcuno scherno, credo che lo stesso Miyazaki Hayao ce l'abbia provato più volte.
A.C.
Il timore è che questo film paradossalmente non possa far librare lo spettatore in alto nel cielo con 'leggerezza' come le opere precedenti, proprio a causa del potenziale carico di eccessiva personalità cui si accennava in precedenza. In fondo, viene dopo il terremoto del Touhoku (2011), in un momento storico in cui la leggerezza non aleggia certo all'orizzonte dei cieli giapponesi. Il vento che spira da quest'opera è malinconico e cupo, o lieve e carico di promesse? Oppure, al contrario, non è stato vestito di nessuna particolare malinconia né segnato dalla decisione di Miyazaki di ritirarsi?
G.C.
Stando alle dichiarazioni, l'intenzione di ritirarsi di Miyazaki Hayao è successiva al completamento di questo film. Personalmente, non faccio fatica a crederlo. Miyazaki Hayao è un artigiano febbrile: quando è all’opera consacra tutto sé stesso al lavoro che sta realizzando, ne è assorbito, diventa un "servo del film" (eiga no shimobe), per usare le sue precise parole — quindi di certo non pensa al 'dopo'. Per contro, ad opera compiuta è sempre esausto, provato fisicamente e interiormente. Credo sia per questo che Miyazaki Hayao ha già più volte annunciato il suo ritiro dopo la conclusione di un suo film — il caso più significativo accadde in seguito a Mononoke Hime, la cui realizzazione era stata davvero estenuante. Di conseguenza, non credo che il tono greve di Kaze Tachinu sia la proiezione di un pensiero come di 'finale' nella mente di Miyazaki Hayao. Piuttosto, come dicevo, penso che ogni film viva del momento interiore ed esteriore dell'autore: i suoi sentimenti e le sue circostanze, gli uni legati alle altre. Quindi, come tu dici, non c'è leggerezza in questo film: il Giappone ha recentemente conosciuto il grande disastro del terremoto del Tohoku e la susseguente disgrazia nucleare, questo è il clima del momento in cui è stata creata l'opera di cui parliamo. Sappiamo per certo che Miyazaki Hayao, con la mente di una persona anziana, ha molto sentito tutto questo dal punto di vista emotivo — le conferenze stampa dei tempi, quando lo Studio Ghibli stava completando e poi rilasciando Coquelicot-Zaka kara, sono inequivocabili. Dunque c'è senz'altro molta mestizia in questa nuova pellicola. Greve è lo spirito del tempo narrato, greve è lo spirito del tempo del narrante al momento del suo narrare. Credo che il tono di questo film sia nato proprio da questa empatia attraverso due diverse epoche, com'era già accaduto anche per Mononoke Hime, non a caso l'unico altro soggetto dalla componente realmente storica mai partorito da Miyazaki Hayao. Anche lì, si trattava (e si tratta) di una pellicola a tratti cupa ed estremamente seria, che intendeva essere tale — dichiaratamente. Mononoke Hime dipingeva lo scontro tra umanità e natura come inevitabile, e senza vincitori. Oggi, in Kaze Tachinu, ci si focalizzata sull'opera dell'uomo nella società degli uomini, ma la sensazione è che il pur imprescindibile sforzo vitalistico umano ("Bisogna vivere." — come recita lo slogan ufficiale del film), anche quando coronato dal raggiungimento del suo fine, porti sempre al conflitto e, in ultima analisi, al fallimento.
A.C.
Forse gli eroi di Miyazaki, storici o immaginari che siano, desiderano solo ricordarci che il futuro è sempre il regno delle possibilità, nonostante l'improbabilità che le cose più belle si realizzino? Da un lato gli eroi quotidiani, dall'altro quelli 'magici', fino alle presenze più leggere e volatili dell'immaginario ghibliano, sfuggenti come i Nerini del Buio o ineffabili come il Gattobus. Alla fine, però, non c’è una sostanziale differenza, sia che la storia abbia un taglio realistico, riportando alla luce le ferite della guerra o le stanze abbandonate di una vecchia casa di campagna, sia che si colori decisamente di fantastico. In entrambi i casi, sembra che ci sia sempre l’intento di trasmettere speranza attraverso l’animazione — lo stesso Miyazaki ha parlato, a proposito del proprio cinema, di illusioni indispensabili «per rassicurare i nuovi venuti, per confortarli sull'accidentato percorso dell'esistenza». Si tratta sempre di iniettare anticorpi contro la disperazione in agguato nel mondo contemporaneo?
G.C.
Personalmente, non ho trovato un simile 'ottimismo nel pessimismo' in questa pellicola. Soprattutto non credo che esista nulla come una coerenza della poetica di Miyazaki Hayao. Per come lo vedo e l'ho conosciuto, Miyazaki Hayao è una persona semplice, un vero artigiano, con le sue personali passioni e le sue circostanze prima di qualsiasi credo analitico. Non a caso si autodefinisce un "normale vecchietto" e un "groviglio di contraddizioni". Per esempio, trattandosi di un autore che si interroga responsabilmente sull'opportunità delle sue opere nei confronti del pubblico, Miyazaki ha spesso cercato di giustificare intellettualmente la necessità dell'evasione nella fantasia, questo potere catartico dell'intrattenimento. Come dicevo, la sua necessità di narrazioni e personaggi fantastici nella loro idealità sembra venire proprio da questo. Ma allo stesso tempo, sappiamo che Miyazaki Hayao è innanzitutto un animatore, ovvero un regista d'animazione che viene dalla gioia del far muovere i disegni, e credo quindi che questa spinta a realizzare delle belle animazioni esista comunque in lui anche secondo un modo di essere infantile, genuino, forse realmente artistico. Credo che in lui esista in primis questa contraddizione, che forse è anche un po' un conflitto interiore.
Prima dicevo che ritengo le opere di Miyazaki Hayao siano sempre molto legate al momento che l'autore vive mentre le crea, piuttosto che a un presunto 'grande disegno espressivo e onnicomprensivo', che poi i critici amano sempre rintracciare a posteriori. Per esempio, quando Miyazaki realizzò Ponyo sulla scogliera, ha creato un film davvero molto solare, positivo, ottimistico. Lo slogan ufficiale era: "Che bello essere nati!" — il che direi che dice proprio tutto. Persino uno tsunami, in quel film, ha un che di vitalistico! Era davvero un film che guardava al futuro e alla speranza dei bimbi del domani, il tutto a seguito dalle circostanze che Miyazaki Hayao stava vivendo in quel dato momento: molti nuovi nati tra i membri del suo staff, molta energia vitale intorno a lui. Queste cose mi sono vivide e chiare perché al tempo ebbi anche l'occasione di trovarmi a parlarne di persona con l'autore (link: http://www.nazioneindiana.com/2012/05/07/riconsiderazioni-su-ponyo), mentre per Kaze Tachinu non ho di certo avuto analoga occasione di contatto diretto, tuttavia mi pare che la nuova pellicola, e le sue circostanze creative, si trovino ai perfetti antipodi del momento di Ponyo. Adesso l'atmosfera mi pare piuttosto quella dell'angustia del presente e della riflessione sull'angustia del passato. Di una mestizia ineluttabile, anche di fronte al più genuino dei sogni di un bambino. Di amara accettazione di un fallimento annunciato e inesorabile anche nella realizzazione individuale.
A.C.
Come hai sottolineato in precedenza, la presenza dei caccia A6M non deve far pensare a un Miyazaki affascinato dal potenziale bellico dei velivoli della Mistubishi, o men che meno vittima di nostalgie militariste. Miyazaki (e lo Studio Ghibli con lui) è pacifista militante fin dai tempi di Mirai Shounen Conan, e senz’altro critico verso qualsiasi recrudescenza nazionalistica nel proprio paese. Proprio di recente, sul pamphlet mensile dello Studio Ghibli, è stata giudicata "del tutto impensabile" l'ipotesi di revisione costituzionale avanzata dal primo ministro Abe Shinzou, rammentando l'impegno assunto dal Giappone all'indomani del catastrofico conflitto del Pacifico: rinuncia alla guerra e al mantenimento di un nucleo di forze armate nazionali. Nonostante ciò, l'accusa di "film guerrafondaio" è stata da più parti lanciata, tanto che Miyazaki ha finito per considerarla una 'riserva oziosa', avanzata proprio in reazione all'iniziativa dello Studio Ghibli in difesa della vocazione pacifista del Giappone post-Hiroshima. Pensi che queste polemiche siano solo strumentali e malevole, o siano frutto di un’inquietudine avvertita dal Giappone contemporaneo, e alimentata dalle tensioni politiche con la Cina, Taiwan e le due Coree?
G.C.
Per essere precisi, nel film in effetti i caccia A6M ZeroSen si vedono di sfuggita (letteralmente) solo in una singola sequenza dell'epilogo — non parlerei quindi di una loro 'presenza' nella pellicola. Ma al di là di questo dato fattuale che mi piace puntualizzare, a causa dei temi che vi si trattano, era inevitabile che questo film sollevasse in patria molta polvere, una certa quantità di critiche, polemiche, persino illazioni gratuite. Anzi, i più maliziosi potrebbero forse pensare persino a un ennesimo coniglio pubblicitario uscito dal capello del sempre abilissimo Suzuki Toshio, un espediente inteso a generare intorno a una pellicola animata di difficile collocazione un grande caso mediatico, così da spingere molti giapponesi ad andare a verificare le cose nelle sale cinematografiche. Del resto, come lo stesso Suzuki spiegava, la produzione di lungometraggi à la Ghibli è tale che ogni film deve per forza diventare un fenomeno nazionale, se vuole rientrare degli altissimi costi di produzione. Di fatto c'è anche che Miyazaki Hayao ha rilasciato forse più interviste intorno a questa nuova pellicola che in tutta la sua lunga carriera, culminando infine con l'annuncio — più serio e ufficializzato che mai — del suo ritiro, cascato proprio a fagiolo per rendere Kaze Tachinu un appuntamento ancora più imperdibile nell'opera di un autore ormai celebrato in patria come un mostro sacro. Quindi potrebbe sembrare proprio tutta una perfetta, gigantesca cassa di risonanza mediatica, ma qui si torna sempre sul piano delle illazioni.
Più significativamente, come già dicevo, non credo che si possa sistematizzare il 'pensiero dell'autore Miyazaki Hayao' in qualcosa di coerente. Questo è un esercizio da critici cinematografici e letterari, forse sempre e comunque indebito, ma direi particolarmente fuori luogo nel caso di un autore come Miyazaki Hayao, un artigiano fantasioso quanto genuino. Per di più, a dispetto delle sue personali idee politiche e sociali, giovanili e senili, Miyazaki non mi è mai parso un autore politicizzato. Mi pare piuttosto che questi siano temi molto cari a un certo tipo di stampa di settore, che non volendo (o forse non riuscendo a…?) leggere davvero le opere per quello che schiettamente sono, ama parlare di cose come il presunto schieramento politico del loro autore, tema poi sempre a gradito dai lettori più tendenziosi e dediti al chiacchiericcio più vacuo. Ma per parlare concretamente e onestamente di un'opera di Miyazaki Hayao, personalmente credo si debba sempre tornare a parlare del film in sé stesso. E nei miei occhi, il film parla onestamente e disperatamente delle tragedie di un'epoca e di un singolo uomo che vive quell'epoca, facendo quello che arriva a fare. Credo che l'interesse del regista stia davvero tutto qui.
A.B.
Anch'io direi che l’avversione di Miyazaki alla guerra è fuori discussione, dimostrata com’è da tutti i suoi film precedenti. Tuttavia qui la pellicola si arrampica un po’ sugli specchi per separare la figura di Horikoshi, la purezza della sua energia creativa, dalla utilizzazione bellica delle sue creazioni.
G.C.
Vero… anche se di per me, in Kaze Tachinu trovo soprattutto il dramma, lo sconforto di un sogno infantile portato avanti con strenua, totalitaria, ardente passione infantile, ma che si rivela un'amara trappola mefistofelica, senza alcuna via di scampo. Horikoshi Jirou, come un bambino o come un artista (c'è differenza?), non può fare a meno di darsi alla realizzazione di un bellissimo mezzo di morte, ben sapendo sin da principio l'uso a cui sarebbe stata destinata la sua opera…
A.B.
E infatti le stesse cose accadono col suo mentore: Gianni Caproni. Per la precisione Giovanni Battista Caproni, conte di Taliedo. Il film lo presenta col suo titolo nobiliare, che farebbe pensare a un aristocratico. In realtà Caproni fu nominato conte solo nel 1940, per volontà di Mussolini e proprio a causa dei meriti bellici della sua industria aeronautica. Caproni aveva creato il primo bombardiere strategico del mondo, dando realizzazione pratica alla dottrina dell’impiego dell’aviazione militare. Fu scomodato D’Annunzio per coniare il motto della Caproni: Senza cozzar dirocco, che esaltava proprio la possibilità di colpire gli obiettivi (diroccare) senza attaccare da terra (cozzare). Ma è altrettanto vero che Caproni coltivava il sogno di creare una grande aviazione civile che accorciasse le distanze fra luoghi e popoli. Miyazaki privilegia proprio questo sogno, simboleggiato dal progetto del gigantesco Transaereo Noviplano: un colossale idrovolante destinato a trasportare fino a cento passeggeri. Ma il prototipo precipitò in acqua al secondo volo, nel 1921, durante le sperimentazioni sul lago Maggiore. Fu la fine del sogno, testimoniata da alcune foto dell’epoca che documentano il disastro.
G.C.
Già… quella vicenda viene riportata da Miyazaki anche nel manga originale di Kaze Tachinu, come pure è stata trasposta nel film. In entrambi i casi risulta un po' una scena tragicomica, nella quale Caproni cerca di impedire all’operatore di filmare il disastro. Vi si respira un po' quel gusto di passione romantica per un'epoca di ventura e pionieristica aeronautica, come per Porco Rosso, non a caso anch'esso trasposto da un analogo breve manga 'trasognato' del regista e ambientato nella stessa Italia di Gianni Caproni. Ma Kaze Tachinu è un film molto più serioso e cupo di Porco Rosso: infatti, benché Caproni appaia come un personaggio mefistofelico, è comunque relegato a dei momenti irreali, di sogno…
A.B.
Sì, Caproni si muove solo in una dimensione onirica, nell’immaginazione del protagonista: eppure — a differenza di Porco Rosso, dove gli eventi e l’ambientazione erano completamente di fantasia — qui la sua figura di ponte fra l’Italia e il Giappone ha una base storicamente realistica. Negli anni Venti esisteva infatti un filo che collegava l’Italia al Giappone, nel mondo della aviazione. Nel 1920 Arturo Ferrarin (il pilota che compare appunto in Porco Rosso) aveva compiuto un celebre raid Roma-Tokyo e nel 1925 Francesco De Pinedo fece una trasvolata spettacolare dall'Australia al Giappone e ritorno.
A.C.
Alla fine non è un caso che Miyazaki abbia dato al proprio studio di animazione giusto il nome di un aereo della Caproni Aeronautica Bergamasca, il Ca.309 Ghibli.
G.C.
Eppure, come per Horikoshi Jirou, così anche di Gianni Caproni, Miyazaki sembra quasi voler celebrare la gloria nella sconfitta, il trionfo dei loro sogni persino sulla cruda realtà determinata anche dal realizzarsi di quelli. Anzi, mi pare proprio che l'autore voglia come 'ripulire' la candida, pura bellezza del sogno originario dalla lordura del suo risultato concreto — quasi l'ergersi titanico dell'uomo sulla sua stessa umana tragedia. Certo mi torna un po' in mente un certo tipo di filmografia di Ozu Yasujirou, che guarda caso Miyazaki ha citato proprio mentre parlava delle atmosfere del suo Kaze Tachinu, ma altrettanto non posso fare a meno di percepire una certa ingenuità quasi infantile nell'assolvere lo spirito di due figure storiche che non si può negare abbiano avuto certe responsabilità per l'appunto storiche. Forse Miyazaki le considera piuttosto come vittime del loro tempo? Vittime del vento della loro epoca? Vittime della loro stessa, quasi compulsiva passione? Magari il regista ha pensato un po' di tutte queste cose, nel rapportarsi a certi temi, e benché si possa certo dire che la realtà è fatta sempre di congiunture di circostanze, altrettanto rilevo una spiccata tendenza al far prevalere, pure in questo film che vuole definirsi 'realistico', la sfera dell'idealità su quella della realtà.
A.B.
Del resto, mai come in questo film Miyazaki ha scelto di celebrare la supremazia dell’invenzione sull’azione. Non a caso ha scelto come protagonista del film non un pilota, come avviene di solito nei manga, ma un progettista, un ingegnere. Del resto uno dei personaggi del film porta il nome di Castorp, il protagonista de La montagna magica di Thomas Mann: anche Castorp era appunto un ingegnere. Un po’ come Mann, anche Miyazaki ha scelto di identificarsi come artista in un personaggio apparentemente consacrato alla scienza e alla tecnica. Dico apparentemente perché in realtà mi pare che un altro tema del film sia la supremazia dell’estetica sulla tecnica. C’è proprio una battuta in questo senso: Caproni dice che il "buon gusto" del progettista, ossia la sua intuizione e sensibilità estetica, precorrono sempre la tecnologia. Mi pare che questa sia anche una trasparente metafora attraverso la quale Miyazaki rivendica la dignità del suo lavoro: un artigianato gloriosamente anacronistico che diffida della grafica al computer e resta attaccato alla tradizione della matita. Disegnare aerei, disegnare film…
G.C.
Il parallelismo in effetti è stato confermato e perfettamente quadrato da Anno Hideaki, che dopo aver completato le registrazioni di doppiaggio per il ruolo del protagonista ha dichiarato di aver compreso che 'creare un film' e 'creare un aereo' sono cose simili nella misura in cui trattano comunque di "dare forma a un sogno" — benché l'oggetto della creazione sia diverso. Certo che a ripensarci, adesso mi viene in mente che in Miyazaki ci deve essere questo tipo di conflitto: da un lato la passione estetica per la modernità dei suoi tempi, rappresentata dai mezzi bellici d'annata, per i meccanismi e per la tecnica, con cui ha popolato schizzi, fumetti, film e a tratti persino un museo, e dall'altro questo timore anatemico dell'impatto della modernità sulla società umana. Forse si tratta di una sensibilità tipicamente 'fratturata' di un anziano giapponese nato in certi fatidici anni…
A.B.
Beh, vorrei ricordare che durante uno dei suoi soggiorni in Italia, Miyazaki ha anche visitato il Museo dell'Aeronautica ospitato sulle rive del Lago di Bracciano, in una località che si chiama Vigna di Valle, nei dintorni di Roma. Lì sono conservati alcuni celebri esemplari di idrocorsa, ovvero gli idrovolante da competizione coi quali l'Italia, fra gli anni '20 e '30, vinse molti primati — si pensi alla famosa Schneider Cup, che veniva non a caso citata proprio in Porco Rosso. La velocità era il mito di quegli anni, il simbolo della modernità, del futuro immaginato in quegli anni. Miyazaki ritrae Caproni con i baffoni e la bombetta, come andava di moda all’epoca, ed io non posso non pensare alla somiglianza con Marinetti e gli altri futuristi, immortalati nella celebre foto che segna la nascita del movimento. Per carità, non voglio certo fare di Miyazaki un futurista, ma certo il suo film ripropone alcuni dei miti del futurismo. In Kaze Tachinu gli aerei, meticolosamente e amorosamente esplorati in ogni dettaglio, non sono meno protagonisti dei personaggi.
A.C.
Mi sembra di capire che Miyazaki si sia documentato molto anche sull’Italia degli anni di Gianni Caproni. Con lo stesso zelo del Takahata del Meisaku (che visitò il Canada nonché la stessa Italia per raccogliere informazioni da utilizzare nelle sue serie animate).
G.C.
In effetti, come accennavo Miyazaki ha sempre voluto fare una certa apologia della vita arcadica e bucolica opposta a quella industrializzata, militarizzata e cattiva — da High Harbour vs. Industria, alla Valle del Vento vs Tolmekia, all'eroe Emishi vs il ferro di Eboshi, dove si voglia. Pur avendo nella terza età un po' mitigato i termini della lotta tra natura e tecnologia, presentandolo come un conflitto sinanco incolpevole nella sua naturale inevitabilità (e penso proprio a Mononoke Hime), resta questa visione di valenza maligna della tecnologia per sé, che è forse un classico punto di critica antimodernista di sapore un po' marxista. Credo del resto che sia anche un tratto generazionale: se per Anno Hideaki, come per Micheal Crichton (che spesso cita), la scienza è un'arma a doppio taglio, che diviene buona o cattiva a seconda dell'uso che l'uomo ne fa, da cui una visione sempre oscillante tra fascinazione e anatema, nelle opere di Miyazaki Hayao la scienza, la tecnologia e l'industria sono sempre apparse il funesto araldo della distruzione. Ma pensando al conflitto interiore che ora mi pare scorgere nell'autore, forse c'è di più. Forse c'è anche un senso di ciclica ineluttabilità di questa 'umana caduta dalla vetta dei suoi sogni'. A ben pensarci, potremmo notare che in fondo Miyazaki Hayao già nel 1986 faceva dire a Muska (che spara pistolettate sulle trecce della ragazzina ideale di turno: Sheeta): «Laputa non si estingue! Risorgerà innumerevoli volte, perché proprio Laputa è il sogno dell'umanità!». Ovvero, c'era già questo senso di intrinseco, incombente desiderio umano di conquista del 'sovrumano' per antonomasia: il volo, il cielo, librarsi dalle proprie terricole radici, in un afflato già destinato alla caduta finale. La parabola di una civiltà che è descritta nella sequenza dei titoli di testa di Laputa è dunque destinata a ripetersi, ciclicamente. Ai tempi il tutto era forse un monito dal retrogusto atavico sui torti dell'umanità, ma forse ora Miyazaki si è reso conto che nel povero Muska — uno dei suoi assai rari 'cattivi totali', un personaggio che l'autore butta nel gabinetto per poi tirare lo sciacquone — alla fine c'è molto di miseramente umano, banalmente umano… e che in fondo anche la psiche dell'artista e dell'artigiano, quale lui stesso appare, è fatta proprio allo stesso modo. Se penso al tragico pessimismo così intrinsecamente connaturato alla vita umana per come appare in Kaze Tachinu, tutto mi sembra quadrare perfettamente. Sembra la tragedia umana dell'ambire al cielo, del conquistarlo per poi doverne inevitabilmente cadere.
A.C.
È il destino di Icaro. Sfruttare le correnti ascensionali, fare del vento uno strumento di elevazione, tentare ogni volta di superare i limiti della condizione umana, perennemente tentati dal cielo…
G.C.
È davvero stupefacente che tu citi proprio quel mito, perché è la stessa identica analogia che ho letto fare anche ad Alessandro giusto un paio di settimane fa, in un brano dedicato a Kaze Tachinu che stava componendo per aggiornare il suo libro (ride). Adesso sembrerà che lui abbia preso l'idea da questa chiacchierata! Beh, suppongo del resto che si tratti di un paragone davvero molto calzante, quindi è naturale che venga alla mente…!
A.C.
Quando si dice la circolazione delle idee…! Di certo il vento con la sua volatilità sicuramente favorisce simili assonanze di pensiero! A proposito: in Kaze Tachinu il vento come metafora del volo soffia da lontano, da antecedenti letterari che vanno da Paul Valéry a Tatsuo Hori, ma anche a Ryōkan Taigu («Sopra il cielo il grande vento») e a Christina Georgina Rossetti («Who has seen the wind?»), quest'ultima citata a bella posta dal protagonista. Quanto è stretto il legame tra l'ultimo film di Miyazaki e la letteratura?
G.C.
Direi innanzitutto che nel film il vento non è poi così legato al volo, piuttosto è il vento di un'epoca che sospinge gli uomini a vivere, un po' come l'anelito dello spirito del tempo. Oltre a questo, un'altra cosa che evito rigorosamente di fare è sovraccaricare di intellettualità l'opera di Miyazaki Hayao. L'avrò già detto e mi scuso per l'ennesimo sermone, ma non credo si dovrebbe sempre pensare a Miyazaki Hayao come a un 'intellettuale', specie nel senso tipicamente occidentale (europeo? italiano?) del termine. Una persona intelligente? Certo. Una persona con un suo pensiero? Sicuramente. Una persona con i suoi interessi culturali? Senz'altro sì. Ma non si tratta di una persona che ha fatto dell'esercizio di tutto questo la sua attività di vita. Perché ben prima di tutto ciò, lo ripeto, Miyazaki Hayao è un artigiano, ovvero uno che crea realmente, manualmente le cose: è un animatore appassionato. Credo quindi che gli interessi letterari di Miyazaki Hayao siano molto più estemporanei (ma non per questo meno intensi) di quanto i critici cinematografici occidentali vorrebbero credere, perché credo che i critici amino tipicamente fare sfoggio della loro stessa cultura facendola 'rimbalzare' sull'opera altrui. Proviamo dunque a seguire dei dati certi: per esempio, parlando di letteratura, sappiamo per certo che Miyazaki Hayao stava leggendo l'opera di Natsume Souseki prima e durante la lavorazione di Ponyo. Seguendo uno spunto preso proprio da un testo di Souseki, ha scoperto i preraffaelliti ed è rimasto colpito dal dipinto La morte di Ophelia di Millais, che ha trasfigurato in Gran Mammare, che 'nuota' supina e a pelo d'acqua proprio come è rappresentata Ophelia in quel quadro preraffaellita. È plausibile quindi pensare che anche la sua conoscenza di Christina Rossetti sia derivata da questo spunto, suppongo. Ancora, abbiamo già detto che Miyazaki Hayao sembra essersi più recentemente appassionato di storia giapponese moderna, approfondendo Hotta Yoshie, Hori Tatsuo e il periodo storico di Horikoshi Jirou anche tramite la letteratura. D'altro canto sappiamo che da giovane era interessato soprattutto alla letteratura per l'infanzia, sia nazionale (soprattutto Nakagawa Rieko) che straniera (soprattutto inglese, direi), e questo si è riflesso in tanti altri suoi film e lavori. Credo in summa che per un regista artigiano gli interessi di ogni momento passino naturalmente in ciò che si crea in quello stesso momento, quindi direi che il legame tra Kaze Tachinu e la letteratura è stretto tanto quanto è stato dichiarato ed è comunemente noto. Nessun mistero, nessun arcano. Per esempio, quanto di Valéry c'è in Kaze Tachinu viene chiaramente da uno spunto preso da Hori Tatsuo e dal suo libro omonimo, ed è verissimo che nel film ci sono espliciti rimandi a La Montagna Magica di Thomas Mann, come diceva Alessandro, ma direi che anche questo sia arrivato da suggestioni, dalle figure di Hori e Horikoshi — Miyazaki ha infatti dichiarato che «gli intellettuali di quel tempo dovevano senza dubbio avere un'educazione fatta di opere simili», al che ha citato pure brani musicali quali Winterreise (Viaggio d'inverno) di Schubert, anch'esso ripreso esplicitamente in Kaze Tachinu. Insomma ci sono queste citazioni, ma mi paiono frutto e fautrici più che altro di suggestioni estetiche; non andrei a sovranalizzare nulla di ulteriore, perché si tratterebbe probabilmente di una forzatura…
[Horikoshi Jirou nel film e lo Horikoshi storico. A destra Hori Tatsuo.]
A.C.
Quindi una ricchezza di rimandi che però rifugge da qualsiasi forma di autocompiacimento intellettualistico. Grazie per i riferimenti che hai voluto segnalare, alcuni espliciti ed altri più nascosti. Dicevamo, l'elemento del vento come spirito di un’epoca… sembra suggerire che natura e spirito possono condividere il segreto che permette di librarsi in volo. A questo punto, alcuni critici si affretterebbero a dire che l'ecologia di Miyazaki riflette a pieno la compenetrazione tra uomo e natura propria della cultura giapponese. Probabilmente, anche qui peccherebbero d’intellettualismo e non coglierebbero il segno, mi sembra di capire.
G.C.
Sì, anche quelli che citi ora mi sembrano i tipici interrogativi del pubblico colto che vuole a tutti i costi ricercare dei 'grandi temi nell'opera del maestro Miyazaki'. Hai mai notato che non troverai mai cinque righe scritte in italiano su Miyazaki Hayao in cui non si parli di "poeta, poesia, poetico", o di "ecologia, ambientalismo" e simili? A me sembra sempre che la critica si approcci a qualsiasi autore seguendo degli schemi percettivi preconfezionati, tipicamente strutturalisti, ovvero si sforzi di leggere l'opera altrui avendo già deciso a priori i modi e i referenti con cui interpretarla. Ma questo non ha senso, credo sia anzi irrispettoso nei confronti dell'opera di una persona che non siamo noi. Mettersi di fronte a un'opera altrui dovrebbe innanzitutto significare aprire la mente e porsi a ricevere la libera espressione di un altro, un altro che non siamo noi stessi, che è fuori da noi stessi.
Una volta Miyazaki Hayao disse che quando gli capita di leggere un libro di 'critica' sui suoi film vorrebbe tirare un pugno all'autore, perché «non capiscono proprio quello che cerco di esprimere». Parlando di natura ed ecologia, anche quando lo si intervistava per Ponyo, ovviamente i giornalisti italiani gli chiesero di questo tema: Miyazaki non riusciva a capire dove lo avesse trattato nel film. Sto raccontando un dialogo intercorso dinanzi ai miei occhi, dal vivo. Quando il giornalista gli disse: «Beh, nel film ha ritratto dei fondali marini inquinati, pieni di immondizia…», il regista rispose: «Sì, perché i nostri fondali delle nostre coste sono così, no? Dovendoli disegnare, li ho disegnati come sono». Ed eccoci qui. Intendo dire che presumere grandi intenzioni anche dietro ogni piccolo dettaglio è tipico della critica. Dietro a uno spunto creativo di ogni autore può esserci anche solo una coincidenza, un fugace pensiero o una suggestione del momento, ma in genere i critici non accettano questo: i critici devono per forza vedere significati e intenzioni ovunque, perché dato che loro non creano nulla, in effetti non fanno altro che 'pensare' sulle creazioni altrui. Al contrario un regista, proprio perché è una persona che crea realmente le sue opere, spesso non ci sta ad arrovellarsi così tanto, non determina intellettualmente ogni singolo dettaglio. Nella creazione reale vi è anche spontaneità, sensibilità, estro, fantasia, impeto del momento. Soprattutto, Miyazaki Hayao è di certo un regista che ha spesso dimostrato e dichiarato di essere così. Quindi non credo che in questo film ci sia una goccia di 'interesse naturalistico', no. Il regista e il film stanno parlando di tutt'altro. Stanno parlando della bellezza di mezzi volanti, della loro fascinazione nel sogno di un bambino e poi della devozione della vita di un uomo nel realizzarli. Non c'è nulla di naturalistico nella bellezza del duralluminio estruso, anche se usato secondo una linea curva simile a quella della spina di uno sgombro.
A.C.
Bisogna aprire la mente per accogliere quello che l’altro desidera raccontarci. È vero, è il modo migliore per rispettare una persona, un’artista e la sua opera. Certo, è più facile utilizzare categorie preconfezionate, come fa molta critica cinematografica, piuttosto che sintonizzarsi su una sensibilità unica e irripetibile. Ma vale la pena di fare questo sforzo di comprensione, allo stesso tempo più immediata e più profonda. Parlando di sensibilità, viene spontaneo il passaggio al tema dell’amore. Mi sembra di capire che Kaze Tachinu sia anche una tragedia d’amore, la storia di una perdita incommensurabile.
[Yano Ayako, fidanzata di Hori Tatsuo morta di tubercolosi polmonare, cui è ispirato il personaggio di Setsuko nel romanzo Kaze Tachinu dello stesso Hori, poi trasposto nella Nahoko dell'omonimo lungometraggio di Miyazaki.]
G.C.
L'aspetto romantico, intendo amoroso, che c'è in questo film proviene dall'influenza esercitata sul soggetto da Hori Tatsuo. Nel senso che quanto si vede nel film del rapporto amoroso tra il protagonista Horikoshi Jirou e la sua innamorata Nahoko non è tratto dalla vita del 'vero' Horikoshi Jirou, la persona reale, ma da quanto narrato nel romanzo Kaze Tachinu di Hori Tatsuo, il cui contenuto era pure autobiografico. Credo che Miyazaki abbia inteso incorporare nella biografia animata di Horikoshi Jirou questo elemento storicamente estraneo perché sentiva il bisogno di raccontare anche la sentimentalità amorosa dell'uomo, proprio nel tentativo di "rappresentare un uomo a tutto tondo". Certo, dal punto di vista dell'opera biografica è una vera e propria follia. Dal punto di vista narrativo, credo invece sia uno dei più grandi successi di questo film e del regista. Si tratta di una storia d'amore in qualche modo tragica, certo, così come è in qualche modo tragica la storia della realizzazione del sogno di Jirou, che creerà dei bellissimi aerei, sì, ma anche degli strumenti di morte compartecipi dell'annientamento del suo paese. E così anche l'amore tragico di Jirou per Nahoko, più che essere il fulcro della storia, è in effetti raccontato come un aspetto della vita e della personalità di Jirou. Come lavora, Jirou? Come vive, Jirou? Come si rapporta ai suoi colleghi e ai suoi amici, alla povertà del suo paese, alla condizione di belligeranza? Come ama, Jirou? Tutte queste cose sono in qualche modo aspetti di una stessa figura umana, che, in ultima analisi, credo Miyazaki Hayao sia riuscito davvero a mostrare a 360°. Una cosa che personalmente ritengo difficilissima, persino per la letteratura, figurarsi per un film d'animazione! Certo dicendo queste cose mi viene da pensare che oltre ad avere infine compreso la necessità del realismo tragico di Ozu Yasujirou, così come ha dichiarato, forse oggi Miyazaki abbia infine compreso anche il senso profondamente umanistico e sociologico di Hotaru no Haka (La tomba delle lucciole) di Takahata Isao, un film che, sempre stando alle sue dichiarazioni, ai tempi pareva risultargli piuttosto indigesto…
L'AUTORE E I PERSONAGGI, TRA IDEALI E REALTA'
A.C.
Molti dei protagonisti maschili miyazakiani sembrano oscillare tra escapismo e amore. Quindi, ti andrebbe di ripercorrere un po’ questa parabola, soffermandoci su alcune figure? Viene subito in mente Porco Rosso, che è l'anime più 'da otaku' di Miyazaki, con un protagonista escapista che fugge nel cielo così come Miyazaki fuggiva nel suo studio d'animazione, e una Fio Piccolo che è al contempo loli (redime i pirati buoni e cattivi, che non la toccano per non sporcare la sua purezza, e addirittura cura la maledizione di Marco baciandolo) e otaku degli aerei, quasi la rori definitiva per Miyazaki. Pagot viene però ancora descritto come un eroe romantico, in modo molto solidale. C'è poi Howl, che si isola del tutto dal mondo esterno nel suo castello magico, che fugge dalla guerra e dai rapporti con le altre persone. Howl è descritto in modo più duro, si trova ad essere criticato aspramente dalla sua maestra, ma alla fine viene anche lui salvato da Sophie (che stavolta però è tutto fuorché una loli). Per finire con Fujimoto, che altri non è che un Howl senza l’incontro con Sophie, un uomo che ha abbandonato proprio la sua condizione umana, andando a vivere nel mare. Fujimoto è descritto in modo molto più negativo dei precedenti, quasi come Miyazaki abbia inconsciamente iniziato a criticare tale condizione.
G.C.
Credo proprio che qui tu stia affondando le mani nel cuore di tutta la faccenda, ma mi pare ci sia anche un po' di confusione. Ovvero, tutti gli esempi che citi sono veri e validi, ma non sono sicuro che i termini della faccenda siano escapismo e amore — se l'escapismo è un moto che nasce da un idealismo infantile, del resto esiste parimenti una visione idealizzata dell'amore, anch'essa infantile, che certo Miyazaki conosce, lambisce e spesso mette in scena. Dunque varrà forse la pena mettere il tutto in ordine, in prospettiva, anche se temo che sarà un discorso lungo…
A.C.
Di fretta non ne abbiamo, lo spazio non ci manca…
G.C.
Ripartiamo allora dal discorso che facevo su 'idealità, ingenuità e infantilità' nella narrativa di Miyazaki Hayao. Io più che altro vedo la contrapposizione tra il realismo, il compromesso della vita reale e dell'adultità da un lato, e le dolci e ingenue idealità 'da fanciullino' dall'altro. La narrativa di Miyazaki Hayao ha sempre avuto questo aspetto idealizzante, vagheggiante, trasognato e quindi realmente infantile, direi. E l'autore stesso è sempre stato ben conscio di ciò. Per esempio, lui sapeva benissimo che il mondo di Tonari no Totoro non era certo il ritratto del Giappone degli anni in cui stava ambientando la sua storia. L'ha dichiarato schiettamente. In effetti, in quel film la presenza di Totoro e di altri fantasmi è un elemento più appariscente ma assai meno fantastico dell'idealizzazione della società rurale giapponese degli anni '50 che vi si rintraccia. Ovviamente per degli italiani come noi è difficile percepire una cosa simile, ma quella che Miyazaki racconta in Totoro non è la realtà giapponese: è un'ideale bucolico che non è mai esistito, né in ambiente né in personaggi. Siamo piuttosto noi appassionati italiani ad aver ricreato nelle nostre menti un’idea quasi mitizzata del Giappone, andando dietro alle idealizzazioni dei cartoni animati della nostra infanzia, tra cui quelli di Miyazaki e Takahata stessi (prima ancora dell'esperienza Studio Ghibli). In effetti i prodotti animati per bambini sono stati il principale referente su cui la nostra generazione (di italiani) ha costruito la propria 'idea del Giappone'…! È una cosa sciocchina, ma per esempio quando vedo in Ponpoko (di Takahata) dei ragazzi che buttano volgarmente (e realisticamente!) delle lattine vuote in una discarica abusiva con tanto di cartello di divieto di gettare rifiuti, mi viene d'istinto da pensare: "Ehi, è impossibile! Ma è il Giappone, quello! Non può essere!" (ride). Anche io sono un italiano che ha conosciuto il Giappone prima di tutto tramite tutta una produzione animata che idealizzava un sacco di situazioni. Credo che in questo modo si sia quasi creata, tra gli appassionati, quasi una 'mitologia del Giappone', che è divenuto nel subconscio di una generazione una specie di terra promessa dalle mille perfezioni ideali… a una distanza intercontinentale. Ma Miyazaki Hayao è un giapponese, chiaramente, ed era ben consapevole del fatto che probabilmente anche in Giappone non sono mai esistite bambine ideali come Satsuki, vicinati ideali come quelli dei Kusakabe, eccetera. Solo che lui non era interessato a ritrarre fedelmente la verità umana, come era invece Takahata. Persino i cattivi di Miyazaki, con poche eccezioni (tre in tutto, per l'esattezza), non sono persone totalmente corrotte, meschine, malvagie. C'è in Miyazaki questa deliberata volontà di raccontare un mondo migliore di quello reale, ovvero «un mondo come vorrei che fosse» (sto citando testualmente). È un'idealità che trascende la realtà, quindi, e la trascende verso una visione migliorativa delle cose e delle persone. Io credo che questa sia tipicamente un'istanza infantile, direi a rigore fiabesca, più che favolistica.
A.C.
Insomma è come dire che la famosa 'poesia dei mondi fantastici' di Miyazaki altro non è che la visione idealizzata del suo 'fanciullino' interiore…
G.C.
Sì, e la cosa vale anche per le psicologie dei personaggi che li popolano. A questo proposito vorrei citare un caso forse meno noto al pubblico, ma che considero in effetti esemplare. All'incirca nel periodo in cui stava realizzando Laputa, Miyazaki progettò un film che raccontava di un gigantesco panzer pilotato da un soldato di foggia suina (al solito), il cattivo della storia, a cui capitava di rapire una ragazza. Il soldato la imprigiona, ma la corteggia in modo molto platonico, regalandole un fiore fatto con un fazzoletto di carta. Originariamente il progetto prevedeva che la ragazza fosse poi salvata dal suo fidanzato e che insieme a lui distruggesse il carro armato del 'cattivo'. Ma la storia andò evolvendosi finché, nel finale, la fanciulla si sarebbe innamorata del soldato-maiale, ricambiandolo. A pensarci, questa trama mi pare in essenza il contrario di quella del film muto che Porco Rosso e Ferrarin guardano al cinema, quello che è un omaggio ai fratelli Fleischer, non ti pare? Quello del «un maiale che anche volando rimane un maiale» (come dice Ferrarin sul finale, contraddicendo una telefonata di Porco a Gina). Comunque, pure nella storia del panzer il cattivo era una specie di idealista disertore, celibe, che però viveva dentro questo carro armato gigantesco con trenta suoi nipoti. E in questo non trovi che tutto ricordi molto la 'società' dei pirati del cielo di Laputa prima, di Porco Rosso dopo? In ogni caso, ai tempi di questo progetto la regia fu assegnata a un collega più giovane di Miyazaki, che però gli diceva: «È impossibile, chiaramente quello che accadrebbe è che il pilota possiederebbe subito la fanciulla». Miyazaki rispose: «No, perché in questo modo la storia non sarebbe interessante». Erano in disaccordo su questa possibilità: ritrarre la realtà per quella che è, oppure accettare la possibilità di un'eccezione totalmente contraria? Miyazaki parlò dell'ipotetico caso di "un maiale su un miliardo" e spiegò che lui voleva raccontare quello, per quanto irrealistico, voleva credere a quello e tralasciare la realtà fattuale, che pure non ignorava.
Insomma, Miyazaki Hayao ha sempre ragionato così, in questo modo idealistico, fanciullesco, e ha sempre saputo di essere così. Del resto, come già accennavo, nel tempo è stato anche criticato proprio per questo suo modo di essere: soprattutto in tempi passati, in Giappone, lo si additava come un autore che non riusciva a rendere le sue storie in alcun modo verosimili, o i suoi personaggi sufficientemente profondi e credibili. Insomma, potremmo dire che lo si tacciasse di semplicismo, di fare sempre delle bambinate (ride). Dal canto suo, lui ha sempre ammesso il tutto come qualcosa che onestamente non poteva evitare di fare, come l'unico modo in cui riusciva a raccontare e animare delle storie, giustificando poi questa sua vera e propria necessità di fantastico-ideale nell'ottica di creare narrazioni che fossero fonte di speranza per le nuove generazioni, nonché un'occasione di evasione, di catarsi dalle difficoltà quotidiane. Volendo, siamo tornati alla sua vocazione più fiabesca che favolistica… ma in effetti, ragionando da adulti, non si può non rintracciarvi anche una componente escapista: quella di rintanarsi in un mondo migliore, un mondo che non è nella realtà, ma che ci piacerebbe vi fosse. Credo che questa sia stata una componente imprescindibile di Miyazaki Hayao, che ha continuato a rappresentare anche i 'cattivi' spesso come dei bambinoni scemotti, bonaccioni, anche realmente innocui. E i suoi rari protagonisti maschili adulti come degli antieroi escapisti.
A.C.
E siamo quindi arrivati all'escapismo dei personaggi di Miyazaki di cui ti chiedevo…
G.C.
Esattamente. In primo luogo, direi che è così il suo Lupin, quello de Il Castello di Cagliostro. Se ci pensi, lui regala a Clarisse proprio un 'fiore di carta', ma in effetti sarebbe un 'signor ladro', no? Un ladro su un miliardo, si direbbe. In quel film infatti Lupin non è per nulla il vero Lupin, quello di Monkey Punch, quanto piuttosto una creatura giocosamente etica che salva la fanciulla pura dalle mani del mostro lurido, ma alla fine la abbandona, perché sa di essere un ladro, di vivere in un mondo corrotto. Lo stesso Monkey Punch lo dichiarò, quando disse: «Questo non è il mio Lupin. Io non avrei potuto disegnarlo, è pieno di gentilezza. Il mio Lupin si potrebbe definire maligno, perché è un personaggio che per raggiungere l’obiettivo non bada ai mezzi, è cupido, ha in sé la bruttura degli esseri umani. Non avrei potuto disegnarlo così gentile». Spicca dunque, nella differenza tra le visioni dei due autori, la sensibilità idealisticamente fanciullesca di Miyazaki. Ma lo stesso canovaccio de Il Castello di Cagliostro lo si ritrova tale e quale in Porco Rosso, dove l'abbandono finale di Fio da parte di Porco è proprio lo stesso di Lupin con Clarisse. E Clarisse aveva già salvato Lupin da bambina, in una scena che è una riproposizione quasi perfetta dell'apparizione della Nausicaä omerica, con un bicchiere d'acqua che trasforma il Lupin originale — ritratto poco prima in un flashback in cui finisce praticamente ucciso a frecciate sulla schiena — in quello tutto diverso del film di Miyazaki. E quindi abbiamo Lupin di Cagliostro, Porco Rosso, Fujimoto… ma alla fine, tutti questi 'autorinnegati' umani sono anche loro degli otaku. Sono dei bambinoni viziati che si permettono il lusso di dire "non ci sto", di 'chiamarsi fuori da tutto e tutti' e di vivere nel loro mondo, ai margini di quello reale, che rinnegano perché troppo sporco per loro, per i loro personali ideali. C'è quel tipo di negazione, di rifiuto della realtà che è in Seita de La tomba delle lucciole di Takahata, dove però si carica di un valore del tutto diverso — quello di una colpa. Invece, sia Fujimoto che Porco Rosso sono in qualche modo eroici nel loro 'non compromettersi', sono persino misofobi, ci hai fatto caso? Porco Rosso si rifiuta di stringere la mano a Curtis, perché si definisce "un amante del pulito". E per Fujimoto, beh, lì è proprio una cosa dichiarata. La misofobia, la compulsiva paura di sporcarsi, ha un valore trasfigurato anche etico, morale: è un rifiuto di crescere, di accettare gli inevitabili compromessi della vita adulta. Mi viene di nuovo in mente il discorso al cinema del camerata Ferrarin, che sembra proprio voler salvare il suo vecchio amico dal suo pervicace attaccamento agli ideali dell'infanzia: «L'epoca degli aviatori di ventura è finita! Ormai non resta che volare sobbarcati da sponsor triviali come lo stato o la nazione!». Alla fine sarà proprio Ferrarin a salvare Porco, inviando un messaggio da controspionaggio a Gina. E perché proprio a Gina? Perché nella sua idealità, Miyazaki ha sempre diviso il genere femminile tra le idol, le fanciulle pure e intonse, e le donne vere, che hanno vissuto e sopportato la vita, hanno sofferto, e sono sopravvissute.
A.C.
Questa separazione tra l'aspetto giovanile e quello maturo della femminilità sarebbe quindi parte della visione infantilmente idealizzata dell'amore di cui dicevi?
G.C.
Sì, questa sentimentalità amorosa infantile, che parte proprio dal distinguere 'le brave fanciulline' dalle 'donne vissute', non è infatti contrapposta all'escapismo, anzi, ne è un risultato e uno strumento allo stesso tempo. Ora immagino che qualcuno griderà allo scandalo, magari sventolando il classico luogo comune dei 'giapponesi tutti pervertiti', ma un realtà vorrei far notare che questa è una dicotomia che esiste molto schiettamente in tutta la storia dell'arte e della narrativa umana. Mi si perdoni la digressione. Potremmo partire dalla citata Odissea, che comincia in medias res, quando Ulisse incontra Nausicaä, quella originale, ovvero dei Feaci, non della Valle del Vento. Nella grande narrazione omerica, Nausicaä è la vera, ultima tentazione di Ulisse. Nausicaä è la Kore, e cioè Persephone, o Psyke, è la vergine ideale. In Giappone potrebbero dire che è la rori perfetta, la 'fanciulla assoluta' (zettai shoujo), ma la sostanza è identica. Quindi dopo aver superato la tentazione della vita eterna, dell'eterna lussuria (da Circe e da Calypso, dove si intrattenuto un bel po', e non senza perdite), Ulisse subisce una tentazione ancora maggiore: più che protrarre in eterno il suo 'giro di giostra', la sua avventurosa giovinezza vissuta in negazione del letto muliebre, ricominciare proprio daccapo un altro giro tutto nuovo, perché ora potrebbe avere Nausicaä per sé. Credo che l'Odissea sia proprio la storia della maschilità recalcitrante alla crescita, la maschilità che divaga e si perde in una moratoria della crescita stessa, seguendo le proprie passioni e i propri ideali. Ma Ulisse se ne rende conto: per quanto si voglia fermare il tempo, il tempo non si ferma. Così torna a Itaca, affronta la sua ordalia e ritrova la sua Penelope. Penelope che in effetti non poteva opporsi come lui allo scorrere del tempo, perché sapeva si sarebbe dovuta risposare, e in qualche modo preparava le sue nuove nozze, ma intanto disfaceva nottetempo il suo filato. Quindi, Penelope com'è? È virtuosa come Nausicaä? È ormai viziosa come Circe? Ebbene, lei è entrambe e nessuna delle due cose. Non può scegliere comodamente di essere 'buona' o 'cattiva', come sarebbe facile pensare. Questo genere di dicotomie nette credo siano appunto molto infantili, molto comode, e anche molto maschili. Ma le donne vivono nel tempo, e cambiano, e vivono. E così c'è stata probabilmente una Nausicaä in ogni Circe, e potenzialmente ogni Nausicaä potrebbe divenire una Circe. Ci sono anche altri esempi letterari molto brillanti, su tutti mi viene in mentre Traumnovelle di Schnitzler, o l'Ulysses di Joyce, oppure in ambito artistico lo Mnemosyne di Aby Warburg, ma direi che per Miyazaki Hayao è sempre stato così: c'è stata una Lana in ogni Monsli, una Clarisse in ogni Fujiko, una Nausicaä in ogni Kshana, persino una Sheeta in ogni Dola, soprattutto una Fio in ogni Gina, e magari una San in ogni Eboshi, persino una Chihiro in ogni Yubaba. E dunque a Marco Pagot, come a Ulisse, è andata bene. Alla fine lui riesce a venire toccato dalla purezza di Fio, imparando la lezione, e a tornare umano nello spirito e nel corpo, per poi tornare dalla sua "fu-Fio" (hai presente il flashback con la gonna che si alza in volo?), ovvero Gina. Ma per esempio al Principino, quello di Saint-Exupéry, andò di certo molto peggio. Perché il Fennec, che come saprai in francese si dice sempre renard (du desert), e che Miyazaki ha trasformato nello scoiattolo-volpe (stesse orecchie, stessa riluttanza all'addomesticamento — l'indice di Nausicaä sanguina — e stessa assoluta fedeltà), ha semplicemente ragione; ma non c'è via di ritorno dalla Rosa, che il Principino ha abbandonato perché "c'erano tante cose da conoscere, posti da vedere" (proprio un Ulissino, nevvero?), quindi non resta che il suicidio, per pietà di un serpente caritatevole. Espiazione. Finale. E anche a Fujimoto è andata proprio male, direi. Credo che Fujimoto sia il risultato di una riconsiderazione molto amara, da parte di Miyazaki: concettualmente è il frutto degli stessi identici presupposti di Porco Rosso, ma il suo sviluppo è diametralmente opposto: se Porco Rosso era l'antieroe romantico proprio 'figo' (kakkoii), Fujimoto è un uno stralunato eremita che finisce come uno sconfitto totale, tutto solo, abbandonato da tutti, in primis dalla sua amata figlioletta.
Insomma Miyazaki, come spiegava anche Suzuki Toshio proprio ai tempi di Ponyo, vede da sempre il mondo come "un mondo di maschi e femmine". Anche questa è una dicotomia molto idealizzata delle cose, direi piuttosto infantile, viene da pensare alla classe delle elementari 'di maschietti e femminucce'. E in Miyazaki spesso è proprio così: gli uomini sono tutti bambinoni che ingannano il loro tempo, sono tutti degli otaku, e invece le femmine, siccome non possono ingannare il tempo, o sono ancora fanciulle o sono ormai donne — e di mezzo c'è la sofferenza della vita vera, che le femmine non sembrano poter evitare. In effetti, avevo inteso che la sindrome di Wendy, equivalente logico di quella di Peter Pan, piuttosto che essere un restare bimba in eterno fosse il diventar mammina anzitempo… per i Bimbi Sperduti, no? Beh, proprio alla conferenza stampa di presentazione di Kaze Tachinu, Anno Hideaki, che come saprai ha doppiato il protagonista del film e di certo è un altro che di otaku se ne intende, ha detto testualmente: «Penso che con questo film Miya-san sia diventato un pochino adulto. Sì, solo un pochino». Il che mi pare assai eloquente, specie se pensiamo che, anni prima, lo stesso Anno Hideaki aveva affermato: «In Giappone ci sono solo bambini. Questo è un paese di bambini». Ebbene, credo che tipicamente gli otaku non si rendano conto che tra una rori e una donna adulta non c'è una differenza sostanziale, c'è una differenza temporale. La mentalità otaku disgiunge quei due mondi come due generi, adorando il primo come un idolo, senza toccarlo, senza sporcarlo (classica forma di erotofobia infantile), e disprezzando e allontanando il secondo, già contaminato, già lordato dalla vita. Questo è un modo tutto maschile e infantile di idealizzare la donna, no? Metterla su un piedistallo fintanto che appare virtuosa, metterla sotto una campana di vetro, per ammirarla, per compiacersene esteticamente, come di un modellino, come di una figure, un pupazzetto, una bambolina. Qualcosa dunque che non vive… e che quindi non può proprio essere una donna reale. La meschinità degli otaku, e anche di molti artisti che hanno questo tipo di mentalità, credo stia proprio nel non vedere che questa disgiunzione non può esistere. Direi dunque che un certo tipo di adorazione della purezza femminile è anche in Miyazaki Hayao, pensiamo ancora una volta a tutti i suoi pirati del cielo, infatuati di Sheeta e di Fio, o persino a Jigen e Goemon e Zenigata che sono tutti toccati ed estasiati dal candore di Clarisse… sono cose che se pensate in un'ottica lasciva potrebbero anche disturbare un poco, no? Per contro, trovo che cose come il flashback sull'infanzia di Gina dimostrino che Miyazaki sapeva benissimo che in Gina vi era stata una Fio, così come certi suoi momenti empatici ci fanno sapere che in Kshana vi era stata una Nausicaä. Ed è proprio per questo preciso motivo che io mi sento di stimare Miyazaki Hayao. Se così non fosse stato, non riuscirei ad accettare le sue storie come 'cultura'.
A.C.
Passando per la letteratura occidentale, hai fatto un lungo giro per arrivare a descrivere un certo modo di essere dei mondi e dei personaggi di Miyazaki. Quindi diciamo: escapismo come moto di rifiuto infantile alla crescita, da cui il rifugio nella purezza dell'idealità che non accetta compromessi e si chiama fuori dallo sporco mondo degli adulti — persino nell’esperienza amorosa, che esiste nella sua versione anch'essa infantile e idealizzata.
G.C.
Direi che è un ottimo riassunto del succo del tutto, sì. Spero che le argomentazioni e i rimandi usati siano almeno serviti a rendere tutto il discorso profondo e convincente, altrimenti sarebbero bastate le tue cinque righe…! (ride)
A.C.
Beh, visto il lungo excursus si sentiva il bisogno di fare un punto della situazione e… a proposito! Partendo da Lupin, poi tra Marco Pagot e Fujimoto ti sei perso Howl…
G.C.
Hai ragione, scusa. Il fatto è che Howl è un caso un po' peculiare, in primis perché non è un personaggio originale di Miyazaki. Tutto il film, anche in questo caso, è stato chiaramente figlio del momento in cui l'autore l'ha realizzato, in tanti modi. Per esempio l'elemento della guerra vi fu proprio incorporato a seguito dell'impatto emotivo che la situazione internazionale del tempo ebbe su Miyazaki Hayao. Ma soprattutto, in quel periodo Miyazaki aveva iniziato a pensare molto alla vecchiaia, forse a sentirsi anziano nel corpo, mentre chiaramente il suo spirito si sentiva ancora molto giovanile, sempre quello di un bambino, direi. Per questo, è rimasto affascinato dalla storia dell'animo di una ragazzina imprigionato nel corpo di un'anziana, in cui per di più si sente invece del tutto a suo agio, visto che non era mai riuscita a vivere la sua giovinezza. Per contro, Howl è un giovane che è già diventato un uomo, ma è un escapista assoluto e vive come un bambino in fuga dalle responsabilità. È molto bello che i due si curino a vicenda, risincronizzando le loro età interiori con quelle anagrafiche: Sophie diventa la fanciulla che vorrebbe mollare tutto per scappare col suo innamorato, e lui diventa l'uomo che, no, deve andare a combattere perché ora ha una donna da difendere. È una visione estremamente favolistica, ideale e anche tradizionalistica dei ruoli dell'uomo e della donna, non trovi? La cosa buffa è che Miyazaki, ai tempi, dichiarò di sentirsi vicino alla psicologia di Howl, ammettendo quindi di sentirsi nella condizione di un giovane idealista ed escapista, nonostante l'età.
A.C.
Certo che tra Porco Rosso, Howl e Fujimoto, alla fine queste tre figure rappresentano come degli avatar (involontari o meno) dello stesso Miyazaki… anche per Horikoshi Jirou di Kaze Tachinu può forse dirsi lo stesso?
G.C.
Ovviamente io non posso sapere con certezza se Miyazaki abbia deliberatamente inteso sovrapporre le proprie storia, psicologia e personalità a quelle di Horikoshi Jirou, o se abbia 'semplicemente' proiettato il sé su una figura a lui molto cara, con la quale ha evidentemente molto empatizzato, ma col suo ultimo film è davvero riuscito a mostrare la psicologia di un otaku nel modo più efficace e veritiero che io abbia mai visto. Direi che ha in qualche modo bilanciato la giovanile apologia di quella mentalità, per come veniva fatta in Porco Rosso —dove come dicevamo il protagonista escapista è l'antieroe romantico e outsider di una umanità disdegnata perché troppo corrotta — e la sua riconsiderazione anziana e dispregiativa che poi ne aveva fatto col personaggio di Fujimoto, l'allampanato idealista che pure si rintana in una rocca lontana dalla stessa 'umanità sporca', ma che invece di essere 'figo' è al contrario solo una figura grottesca abbandonata da tutti. In effetti quelle due figure sono proprio due opposti ritratti di un'identica psicologia, quella dell'otaku, che rifiuta la società degli uomini perché ne è schifato, e fugge e si rifugia in un mondo di idealismi infantili e del tutto indisponibili al compromesso. Un rifiuto dell'adultità. Credo che Horikoshi Jirou, per come ce lo presenta Miyazaki, sia esattamente la stessa cosa, solo rimirata con un occhio infine onestamente distaccato e bilanciato nel giudizio sulle cose, infine ritratta con onesto realismo, nelle sue eccellenze e nelle sue miserie.
A.C.
Quindi — per citarti — Miyazaki è anche un uomo che «è fuggito nel suo studio d'animazione, nel suo regno di fantasia. E ha continuato a parlare delle sue passioni, a disegnare i suoi mondi ideali popolati dalle sue ragazzette ideali per tutta la vita. Mentre una moglie cresceva a casa un figlio che poi avrebbe detto di non conoscere suo padre come padre». Come si inserisce in questo senso Kaze Tachinu? Qual è il rapporto di Horikoshi Jirou con l’amore?
G.C.
Anche questa è una cosa molto interessante, un punto chiave. Come dicevamo la componente di 'storia d'amore' in Kaze Tachinu è innestata nella biografia di Horikoshi Jirou prendendola di peso dall'omonimo romanzo di Hori Tatsuo. Ma Horikoshi Jirou, dicevamo, è la perfetta rappresentazione di una psicologia dell'otaku, ritratta con grandissimo realismo e onestà intellettuale. Come ama, dunque, questo otaku che si chiama Horikoshi Jirou? Molti commentatori hanno notato il suo 'orrendo egoismo' nei confronti di Nahoko, e guardando il film è facile capire perché. Ma la verità è che Horikoshi Jirou, in questo film, ama realmente nell'unico modo in cui potrebbe: come un bambino cresciuto più nel corpo che nella mentalità. Ama in modo molto puro, anche molto molto ingenuo. Nelle situazioni reali Jirou è sempre impacciato, e tutti i personaggi gli rinfacciano di essere "una persona dal cuore di ghiaccio", o comunque in qualche modo 'fuori dal mondo'. In effetti Jirou vive 'nel suo mondo', proprio come un otaku, e in quel mondo ha ritagliato uno spazio per Nahoko, che però non è tutto il suo mondo.
Si tratta di una cosa molto realistica e quindi forse difficile da accettare. Le persone vanno al cinema per vedere grandi storie d'amore assoluto che poi, nella normale meschinità umana, loro stessi non sarebbero mai in grado di vivere — ma il cinema è finzione, e la finzione è inganno, no? Beh, Horikoshi Jirou è più realistico, quindi può anche dare fastidio. Il rapporto con Nahoko lo vede in realtà assolutamente succube, sottoposto da un punto di vista psicologico. Decide tutto lei, lei fa ciò che vuole lei stessa, quando e come lei stessa decide. Nahoko è un personaggio intellettualmente molto emancipato, davvero molto forte, fin da quando Miyazaki ce la presenta ancora bambina. Al contrario, come ogni otaku, Jirou è straordinariamente debole. Ci sono delle scene che mi commuovono alle lacrime, non perché siano tristi o patetiche, ma perché sono troppo vere. Come quando Jirou torna a casa al mattino dopo l'ennesima notte passata al lavoro; dopo aver infine completato il suo prototipo, crolla di stanchezza affianco alla mogliettina e le dice spossato: «È tutto merito tuo… perché ci sei stata». "Ci sei stata", semplicemente questo: sei esistita per me, sei stata presente nella mia vita e nella mia mente. È la figura femminile materna che dà sicurezza al bambino, che permette al bambino di avere la forza per riuscire a fare quello che vuole fare. La psicologia di Jirou, lo si vede chiaramente all'inizio del film, è del resto figlia di questo stesso tipo di madre. È fantastico quanta verità umana ci sia in questo film! E nel mezzo, il collega e amico di Jirou, che si chiama Honjou ed è un uomo maturo, per nulla otaku, un po' il Ferrarin della situazione, annunciando il suo matrimonio a un sorpreso Jirou aveva detto all'incirca: «Bisogna avere un focolare domestico da trascurare, per poter dare tutto il proprio meglio sul lavoro. Anche questo è un paradosso». Mi sembra una battuta assai eloquente, nella sua pungente, pur autoironica provocazione.
A.C.
Il doppiaggio, la 'viva voce', è da sempre un elemento fondamentale, più che un valore aggiunto, di un'opera di animazione. Per Kaze Tachinu è stato selezionato nel ruolo di Horikoshi un doppiatore non professionista, col piccolo dettaglio che — come anticipavi tu stesso — si tratta di Hideaki Anno. Animatore, regista di animazione e dal vero, spirito innovativo al punto da essere considerato il capostipite della Nuova Animazione Seriale, le sue esperienze di doppiaggio si limitano però a una piccola apparizione nell'anime Abenobashi (ha recitato parti cinematografiche in film tra cui Natsu no Mori, con la moglie mangaka Moyoco). Ad ogni modo Miyazaki — così come Takahata — sembra prediligere voci lontane dallo stile di recitazione tipico del doppiaggio di animazione giapponese, attingendo dalle fila degli attori teatrali e cinematografici. Il rapporto tra Anno e il Ghibli è comunque di vecchia data, e risale all'esperienza di quest'ultimo come animatore in Nausicaä della Valle del Vento, per cui Anno curò la scena del kyoshinhei, il Soldato Titano, prodromo del design degli Eva.
G.C.
Se ben ricordo, Anno Hideaki aveva doppiato anche il gatto paffuto (MiyuMiyu) in FLCL, oltre ad aver recitato nei panni del protagonista in Kaettekita Ultraman, un live-action realizzato dall'antica DAICON FILM, progenitrice della GAINAX. Comunque, la ben nota predilezione di Miyazaki per le voci di 'non doppiatori di animazione' mi sembra in qualche modo un'altra contaminazione neorealista venuta da Takahata Isao. In questo ambito, lui (Takahata) è sempre stato un vero sperimentatore. Si potrebbe parlare di 'espressionismo', ma già in Hotaru no Haka i due bambini protagonisti erano interpretati da attori la cui età anagrafica era assai prossima a quelle dei loro personaggi (e la piccola Setsuko ha quattro anni!), una cosa incredibile per l'animazione giapponese dei tempi. Poi, fin da Omohide Poroporo Takahata ha preso a registrare i dialoghi prima della realizzazione delle animazioni e studiava le movenze dei visi degli attori del cast per poi riprodurle nel disegno come rughe d'espressione. In quel caso, le voci vennero fornite da giovani attori di trendy drama. Ancora in seguito, per Ponpoko, Takahata si rivolse ad attori di teatro rakugo. E anche Miyazaki ne è stato contaminato, andando alla ricerca di voci e interpreti che potessero far suonare le battute dei suoi film come 'verosimili' piuttosto che 'belle'. Ci sarebbero infiniti esempi, dal padre di Satsuki e Mei in Totoro, doppiato da Shigesato Itoi (famoso e poliedrico copywriter, che lavorò anche per lo Studio Ghibli), fino al caso di Mononoke Hime, che ebbe un cast davvero stellare, ricco di attori di spicco, e che segnò un punto di svolta imprescindibile. Di seguito, la piccola Chihiro 'doppiata da una bambina vera' fece davvero molto scalpore in Giappone, dove numerosi fan dell'animazione sulle prime non ne apprezzarono la resa recitativa realistica. Ma ormai il sentiero era segnato, sarebbe stato seguito da tutto lo Studio Ghibli, e non si sarebbe mai più tornati indietro.
Ovviamente avere KimuTaku degli SMAP (il celebre Kimura Takuya) come voce di Howl, o Okada Jun'ichi dei V6 come voce di Arren prima e Kazama Shun poi fa sempre gioco alla macchina pubblicitaria, non c'è bisogno che ce lo spieghi Suzuki Toshio, ma il punto di espressionismo recitativo resta. Nel caso di Anno Hideaki, Miyazaki voleva una voce particolare, una voce da intellettuale del passato, ma anche la voce di una persona poco assertiva, anzi proprio remissiva, riservata. La voce di un otaku perfetto, no? A suggerire il nome di Anno Hideaki è stato Suzuki Toshio, manco a dirlo. Il tutto è stato persino documentato e reso pubblico in alcuni dei numerosissimi servizi speciali che la televisione giapponese ha dedicato all'uscita di Kaze Tachinu. Quando Anno ha poi fatto il provino, Miyazaki l'ha subito confermato come voce del protagonista. In particolare gli ha detto che "i doppiatori dicono sempre di aver capito il senso di una battuta, ma poi non hanno capito niente, e la pronunciano in un modo che già avevano in testa". Da direttore di doppiaggio, posso ben capire cosa intende Miyazaki: il modo in cui ogni battuta viene pronunciata dovrebbe essere il frutto diretto del senso della battuta stessa, della situazione, del sentimento che il personaggio prova nel pronunciarla. Ma il doppiaggio vive spesso di manierismo, di 'ciò che piace al pubblico', di 'cosa suona bene', di 'la bella voce fascinosa'. Come Miyazaki, credo che queste siano tutte istanze prive di valore reale. E a conferma di ciò, a dispetto dei miei dubbi iniziali, ho davvero adorato l'interpretazione di Anno Hideaki come una delle cose più belle di tutto il film. Del resto, se un attore, una persona che ha scelto di fare l'attore, è un uomo che in qualche modo vuole esporsi, la psicologia dell'otaku è il contrario: un uomo che si sente a disagio nella società, che vorrebbe nascondersi nella sua introversione. Credo che Miyazaki e Anno, vecchi amici e vecchi colleghi, senpai e kohai, si siano davvero intesi a meraviglia nel dipingere le aspirazioni e le emozioni di un personaggio che in fondo gli assomiglia così tanto. Abbiamo già citato che Anno ha poi dichiarato di aver compreso che «creare un aeroplano e creare un film d'animazione sono un po' come la stessa cosa, nei termini del dare forma a un sogno». E come dicevo, poi ha anche dichiarato che con questo film «Miya-san è diventato un pochino adulto. Solo un pochino». E credo che si siano anche divertiti molto, sicuramente così appare nei molti dietro le quinte che i media giapponesi hanno già diffuso sulla faccenda.
A.C.
Il 23 novembre 2013 è uscito nelle sale nipponiche Kaguya-Hime no Monogatari (La storia della principessa Kaguya), il primo film di Isao Takahata dopo Houhokekyo Tonari no Yamada-kun di quattordici anni fa. L'opera era inizialmente prevista per l'estate scorsa, unitamente al nuovo film di Hayao Miyazaki, in una riproposizione della doppietta Tonari no Totoro – Hotaru no Haka del 1988. La storia riprende la favola classica Taketori Monogatari, che racconta della Principessa Splendente (Kaguya-Hime), la bambina grande quanto un pollice trovata da un tagliatore di bambù nell'incavo di una canna risplendente. Le scene che si sono potute vedere del lungometraggio sembrano far pensare a un'opera di valore artistico indiscusso, per palati fini, anche se forse non a un blockbuster. Che idea ti sei fatto? Takahata, all'interno della Ghibli, rappresenta davvero l'autore della nostalgia verso un passato perduto? Questa volta si è rifugiato nell'immaginario di una fiaba del decimo secolo ampiamente conosciuta da tutti i giapponesi, rifacendosi inoltre allo stile classico giapponese della celebre serie di rotoli di pergamena illustrata intitolata Chōjū-Jinbutsu-Giga. Un duplice richiamo alla tradizione…
G.C.
Partiamo dal contenuto del film in questione, che non ho ancora visto, ma su cui ho cercato di documentarmi quanto più possibile. Si tratta di una rilettura del classico dei classici della narrativa popolare giapponese, in cui un autore intellettuale come Takahata Isao ha cambiato il punto di vista da esterno a interno alla protagonista femminile: la storia non è più quella del tagliatore di bambù che trova e alleva la principessa, ma della principessa che viene trovata e allevata dal tagliatore di bambù. Il regista ha dichiarato che «se Heidi fosse stato ambientato in Giappone, con una protagonista giapponese, probabilmente sarebbe stato così». Dunque credo che, come ai tempi di Hotaru no Haka, Takahata Isao abbia usato l'impianto di una storia precedente, in questo caso sinanco archetipica, per trasfigurarne una riflessione sulla psiche e la sociologia delle persone, in questo caso di una fanciulla. Lo slogan ufficiale del film recita: "Il perpetrato delitto e la pena di una principessa" — in chiara citazione della terminologia del grande classico di Dostoevskij, Il delitto e la pena (erroneamente reso in italiano come Delitto e castigo, ma in realtà inteso dall'autore come una ripresa del titolo del celebre libro di Beccaria, Dei delitti e delle pene), un vero caposaldo della formazione letteraria contemporanea in Giappone, forse per il tenore sottilmente karmiko della storia. Ad ogni modo, quello che si è potuto vedere nei sei minuti del Prologo del film di Takahata, ovvero un'anteprima contenuta in un DVD/BR promozionale distribuito in Giappone in un milione di copie, sembra in effetti coprire tutto lo sviluppo psicologico di una bambina nata 'libera', cresciuta in libertà, per poi giungere sino all'adolescenza e al rifiuto delle convenzioni sociali imposta alla sua femminilità. Non manca la classica scena della corsa in cui la protagonista si spoglia delle vesti costrittive di una civiltà apparente e imposta (così Heidi, così Shoukichi). Ho il sospetto che Takahata abbia anche cambiato il finale della celebre favola, rendendo il 'ritorno alla Luna' della principessa una metafora di un effettivo suicidio di espiazione, un po' a là Petit Prince. Ma queste ultime sono solo le mie suggestioni, illazioni di scarso valore. Di certo invece c'è il bellissimo brano canoro del film, intitolato Le memorie della vita (Inochi no Kioku), dove la delicata ma penetrante voce di Nikaidou Kazumi recita: «Ogni cosa d'adesso è ogni cosa del passato». Mi resta sempre un forte senso di riconsiderazione dell'esperienza di vita di una persona.
Sull'estetica, lo stile grafico del film. Takahata, oltre a essere un raffinato intellettuale e un grande appassionato di musica, è anche un cultore e uno studioso dell'arte classica giapponese. Ha pubblicato studi (in un libro eloquentemente intitolato: L'animazione del dodicesimo secolo) in cui esprime la sua convinta opinione secondo la quale tutta l'estetica di manga e anime discenderebbe in effetti dalle pitture giapponesi antiche, 'narrative' su rotolo (dette emaki), come quella che tu citavi, prima ancora che dalle stampe ukiyo-e. Ora, con questa sua ultima fatica cinematografica, Takahata è riuscito a vivificare più che mai il suo credo, realizzando un intero film animato con lo stile grafico di quelle pitture. È riuscito a far animare dei disegni dai tratti ruvidi e discontinui come quelli di un pennello, o di uno schizzo eseguito con una matita molto morbida. L'impatto è, quantomeno per me, incredibile. Da un punto di vista schiettamente tecnico, viene solo da chiedersi come sia stato possibile farlo: per come funziona l'animazione disegnata, in teoria sarebbe pressoché infattibile! Da un punto di vista artistico, è semplicemente strabiliante: disegni di un'intensità espressiva che appare ai miei occhi come mai raggiunta prima. Ogni singolo sguardo della protagonista mi sembra spazzare via per schiettezza, profondità e comunicatività qualsiasi disegno abbia mai visto animato su uno schermo. Sono impietrito. Takahata ha dichiarato espressamente che piuttosto che concentrarsi sulla "descrizione dei dettagli", si è focalizzato sulla "comunicazione delle sensazioni". È come guardare lo schizzo preparatorio di un'opera d'arte: meno compiuto e patinato dell'opera finale, ma tanto più poderoso. Il nerbo del polso dell'artista pare direttamente impresso sulla carta. Qui è la stessa cosa, tant'è che anche l'effetto degli sfondi, degli ambienti, tutti delicatamente acquerellati, è proprio quello di sentirsi immerso nel mondo della narrazione, piuttosto che di ammirare un disegno minuzioso.
Personalmente non vedo l'ora di vivere l'esperienza di vedere questo film al cinema. Valutando quel che so del suo contenuto e della sua forma, non credo che Takahata si sia adagiato in alcun modo su nulla come la maniera della tradizione, anzi tutto il contrario: ha spinto la sperimentazione artistica nel campo dell'animazione travolgendone ogni canone. Questo comporta anche il rischio di irretire il pubblico abituato da sempre a un certo tipo di animazione giapponese, anche e soprattutto in Giappone. E mi pare peraltro che Kaguya-Hime no Monogatari sia anche il film animato giapponese più costoso di sempre. Prodotto con la spinta di un finanziatore mecenate che più che al profitto era interessato «a vedere un ultimo film di Takahata Isao prima di morire» (e purtroppo non ce l'ha fatta, venendo a mancare durante il lungo corso della realizzazione della pellicola), costato al suo regista ben otto anni di lavoro, con una prima sceneggiatura prevedeva una durata di tre ore e mezza, poi ridotta a 'soli' 137 minuti: questo film sembra del tutto impossibilitato a coprire le sue spese di produzione, da sempre. Si tratta di un film davvero monumentale, fatto con il più puro spirito espressionista e intellettualmente comunicativo, come è nello stile di Takahata Isao, che proprio per questo è sempre stato uno sperimentatore. Ho la sensazione che Kaguya-Hime no Monogatari si rivelerà nel tempo la più grande svolta nella storia dell'animazione giapponese (e mondiale) dai tempi di Hols no Daibouken.
A.C.
Anche per Takahata gli anni si fanno sentire. Viene spontaneo chiedersi del futuro della carriera di Tahakata, allora. Certo, non ha mai raggiunto (nel bene e nel male) l'esposizione mediatica mondiale valsa a Miyazaki da Mononoke Hime, quindi non so bene nemmeno se valga fare un paragone. Però i due sono colleghi praticamente da sempre, ha una certa età l'uno e ce l'ha l'altro. È lecito aspettarsi che anche Takahata lentamente sparisca dalla scena, senza che ce ne accorgiamo, in punta di piedi, con la discrezione che gli è sempre stata propria? In fondo, contrariamente a Miyazaki, Takahata non dovrebbe 'spiegare' niente a nessuno, o quasi.
G.C.
Takahata Isao non è un regista adatto a questi tempi. Miyazaki Hayao lo è stato e lo è a tuttora, con la sua fantasia debordante che è davvero perfetta per una società postmoderna tutta intenta a darsi all'escapismo trovando nei miti d'infanzia un rifugio dalla crescita personale e sociale. Soprattutto, poiché Miyazaki Hayao è una persona intelligente e artisticamente responsabile, nonché dotata di uno squisito senso estetico, i suoi film sono dei perfetti giocattoli che includono un intrinseco alibi per degli adulti che si vogliano ingannare di non stare guardando dei giocattoli, ma delle 'poetiche opere d'arte'. Al contrario, Takahata Isao è un vero intellettuale, a mio modo di vedere uno dei due grandi intellettuali della storia dell'animazione giapponese (l'altro essendo Tomino Yoshiyuki). Proprio per questo Takahata Isao è stato celebrato negli Anni Settanta e Ottanta, quando la società aveva ancora un piede nella più seria modernità e non era ancora del tutto bollita dal consumismo abulico della postmodernità. Ma inevitabilmente, con l'avanzare di quest'ultima mentalità, la personalità artistica di Takahata si è progressivamente ritrovata in controtendenza, o almeno questo è il mio personale sentore. Inoltre, e questo è invece certo, come molti intellettuali Takahata Isao è un perfezionista estremo, un revisore infinito della sua opera, un pensatore che forse non sente nessuna reale impellenza creativa. È famoso per aver spesso (sempre?) protratto e ritardato drasticamente la realizzazione delle sue opere cinematografiche, sin dai tempi di Hols no Daibouken, capolavoro assoluto e imperituro, ma fiasco commerciale tremendo, con una produzione che si era ingigantita contro ogni preventivo di tempo e di denaro. Quindi, benché al contrario di Miyazaki si sia espressamente votato a non dichiarare il suo ritiro, non credo davvero che Takahata Isao avrà modo di dedicarsi a un nuovo film, specie considerando che il suo ultimo capolavoro gli è costato appunto otto anni di lavoro. D'altro canto, però, Takahata è un regista di animazione che non disegna di suo pugno, non è un animatore, quindi forse per lui la realizzazione di un lungometraggio è comunque meno fisicamente gravosa che per Miyazaki Hayao, quindi chissà… la popolazione giapponese mostra da sempre vecchietti estremamente longevi e molto arzilli!
A.C.
Un'ultima domanda sul futuro dello studio Ghibli. Dopo la tragica scomparsa di Yoshifumi Kondou, e a parte i margini di miglioramento di Gorou Miyazaki, la cui poetica non è forse ancora ben definita, lo studio sembra essere in buone mani, se pensiamo all'incoraggiante affacciarsi sulla scena di nuove leve come Yonebayashi (Karigurashi no Arrietty). Sei tranquillo anche tu, in prospettiva?
G.C.
Da un punto di vista artistico, potremmo dire che Yonebayashi Hiromasa, animatore di talento e spicco formatosi in seno allo studio Ghibli e poi promosso alla regia, potrebbe essere un erede di Miyazaki Hayao, di quella concezione artigiana di regia d'animazione. Sicuramente Arrietty, nato da un antico progetto di Miyazaki stesso, si è dimostrato come un film delicato e gentile, molto sensoriale ed estremamente 'animato', proprio come nella tradizione miyazakiana. Il prossimo film di Yonebayashi, in uscita in Giappone proprio quest'anno e intitolato Omohide no Marnie (tratto dal libro di narrativa inglese When Marnie Was There), potrebbe darci presto conferma dell’effettivo talento del giovane regista. Ai suoi antipodi abbiamo Miyazaki Gorou, che differentemente dal padre ha una personalità molto più intellettuale che grafica, che non è un animatore e che valuta la realizzazione di un film in primo luogo come un'istanza comunicativa. In effetti proprio Miyazaki Gorou è probabilmente il più grande estimatore di Takahata Isao che io possa immaginare, cosa piuttosto evidente nello stile dei due lungometraggi da lui firmati, l'acerbo ma comunicativamente poderoso Ged Senki (I racconti di Terramare) e l'assai più raffinato Coquelicot-Zaka kara (Dalla Collina dei Papaveri), che, pur basato non solo su un antico progetto del padre, ma anche sviluppato da una sua sceneggiatura realizzata appositamente per il film, pure si discosta drasticamente dalle atmosfere trasognate tipiche delle produzioni di Miyazaki Hayao. Personalmente sono un grande estimatore di Miyazaki Gorou, che vedo come l'unico possibile successore di Takahata Isao: un regista che fa animazione non 'per fare animazione' in quanto tale, ma per usare l'animazione in una comunicazione culturale reale.
Gli eredi dei due grandi maestri, quindi, tutto sommato potrebbero già essere emersi. Tuttavia, al di là delle preferenze personali, credo che la questione sia ben altra. Il fatto è che il modo produttivo (o modello di business) dei film dello Studio Ghibli, realizzati artigianalmente con quella qualità da mani giapponesi, risulta oggi anacronistico. Il mondo dell'animazione giapponese è cambiato perché al giorno d'oggi non è più possibile produrre disegni animati di alta qualità realizzati al 100% manualmente in Giappone e rientrare dei costi di produzione. L'uso del computer e la delocalizzazione del lavoro sono subentrati anche in questo settore, spesso come mali necessari. La cruda realtà è che l'animazione 'fatta a mano' è un lavoro duro ed estenuante, tipico da paesi ancora in fase si sviluppo economico, di 'boom di produttività'. Per intenderci: fino agli Anni Ottanta le produzioni americane delocalizzavano il lavoro bruto dell'animazione in Giappone, quando il Giappone viveva ancora dell'inerzia del superlavoro del miracolo economico postbellico, ma quel periodo storico per il Giappone è finito. L'animazione giapponese ha quindi dovuto rinnovare il proprio modello di business, oltre ad essere andata incontro a una crisi di tipo creativo: i nuovi giovani giapponesi non riescono a vedere il mondo professionale dell'animazione come un mondo in cui trovare il lavoro che gli permetta di sostentarsi in una società ormai ricca e affermata come quella giapponese. Chi lo fa, lo fa perché è lui stesso un appassionato di animazione a priori, ma come risultato il mondo dell'animazione risulta sempre più autoreferenziale e sterile. Non ci sono nuovi autori realmente maturi, adulti, portatori di un pensiero giovane ma serio e assertivo, come poteva essere ai tempi del giovane Takahata, o del giovane Tomino, o del giovane Miyazaki Hayao. Questa tendenza ha in effetti già iniziato a manifestarsi quando la prima generazione di ragazzi dell'anime boom giapponese (fine '70, inizi '80) ha iniziato a passare dal lato dei consumatori a quello degli autori, e sto pensando a autori come a Anno Hideaki e studi come la GAINAX, in primis.
Quando i giovani Takahata Isao e Miyazaki Hayao iniziavano a muovere le loro prime mosse nel mondo dell'animazione, ai tempi di una Toei Douga scossa dalle lotte sindacali degli 'operai' animatori, erano spinti da una grande motivazione personale. Nel 1968 uscì il primo capolavoro figlio di quelle straordinarie energie: si trattava del lungometraggio Taiyo no Ouji – Hols no Daibouken (trad: "La grande avventura di Hols, il principe del Sole"). Il giovane regista Takahata voleva fare un film d'animazione che non fosse rivolto, per stile e contenuti, ai soli bambini. Il giovane animatore Miyazaki voleva fare un film d'animazione di alta qualità, che non sembrasse un sottoprodotto a confronto con l'animazione occidentale. Erano due giovani molto influenzati dalla cinematografia europea, più che dalla tradizione disneyana, e volevano usare il mezzo espressivo chiamato animazione per realizzare, con la loro opera artigianale, un prodotto dal contenuto culturale e artistico. Ci riuscirono: il loro capolavoro, con una produzione durata tre anni invece che gli otto mesi preventivati, benché condannata al fiasco commerciale cambiò per sempre il mondo dell'animazione giapponese. Hols no Daibouken era stato realizzato con grande maestria, con grande sforzo, con grande impeto artistico, racchiudendo al tempo tutta l'esperienza dall'ancora giovane animazione giapponese e spingendola a un tempo oltre i suoi limiti. Ma i tempi da allora sono molto cambiati. Se ci pensiamo, l'animazione disegnata è davvero un lavoro come a cavallo tra artigianato e industrialità. La mole di lavoro manuale svolto dai singoli artigiani coinvolti è impressionante. Fare dei lungometraggi animati alla 'vecchia maniera', come ha sempre continuato a voler fare lo Studio Ghibli, comporta oggi dei costi tanto esorbitanti che i film così prodotti hanno poi l'effettiva necessità di risultare non solo grandi successi di pubblico, ma dei veri e propri fenomeni. Infatti, se lo Studio Ghibli ha potuto sino ad oggi continuare a produrre i suoi film è stato solo per l'anomalia intrinseca alla produzioni firmate Miyazaki Hayao, un autore ormai tanto consacrato in Giappone da costituire una categoria a sé stante nel suo stesso ambiente e capace di generare incassi pressoché 'fuori scala' per il tutto settore. Ma esaurita questa cornucopia, dubito che lo Studio Ghibli potrà continuare ad esistere come noi lo conosciamo. Del resto lo Studio Ghibli era nato espressamente con l'intento di produrre e realizzare i film di Miyazaki Hayao, quindi non trovo realmente sbagliato o triste che il marchio possa o debba estinguersi con la firma del suo fondatore. Personalmente, amo le cose compiute, che hanno un loro inizio e una loro fine ben definiti. Ho sempre apprezzato Miyazaki Hayao anche per il suo essere un autore che non crea 'universi narrativi' in cui ambientare interi cicli di storie, quanto piuttosto opere uniche, singolari, definite. Senza mai seguiti (e non si citi il cortometraggio Mei e il Gattinobus, per favore, che era e resta pressoché un divertissement), senza mai spin-off, senza propaggini di contorno. Così deve essere. E se pensiamo il tutto in logica frattale: così un film, così il suo studio di produzione. Miyazaki Hayao è un animatore e poi un regista che con la sua infaticabile opera e la sua straordinaria inventiva è riuscito a dimostrare al mondo intero che l'animazione giapponese può proporre prodotti di elevata qualità artistica e contenuto culturale di spicco. Credo che questo sia sempre stato un po' il suo sogno, fin dai tempi di Hols: affermare l'animazione giapponese come un prodotto di alto livello. Oggi possiamo forse dire in tutta onestà che c'è in effetti riuscito: al di là del riconoscimento internazionale, al di là della consacrazione in patria, credo soprattutto che l'eredità di una simile impresa titanica perdurerà nelle generazioni a venire, perché tutta l'animazione giapponese e il suo pubblico sono stati fortemente influenzati dall'autorevolezza stilistica dell'opera dello Studio Ghibli e di Miyazaki Hayao. In questo senso, si potrebbe ora dire che il titolo di anime no kami (il dio degli anime) gli spetti davvero di diritto.
A seguito delle vostre richieste, riproponiamo integralmente, sotto forma di comodo PDF da conservare per riletture e approfondimenti, l'interdialogo sviluppato tra la redazione di AnimeClick.it e Gualtiero 'Shito' Cannarsi.
"Ghibli: dal vento, all'aeroplano, allo Studio..." - PDF
Ringraziamo ancora una volta Gualtiero Cannarsi (e Alessandro Bencivenni) per l'opportunità di confronto e riflessione, sicuramente preziosa in vista dell'arrivo di Kaze Tachinu sui nostri lidi, e più in generale per un ripensamento della ormai lunga storia dello Studio Ghibli.
Premettiamo che in redazione non abbiamo ancora potuto visionare il film; dunque, si tratta di un incontro ideale tra la prospettiva di chi, come Shito, ha già potuto ammirare e considerare attentamente l'opera (si è già occupato della stesura dei dialoghi per i sottotitoli ufficiali presentati a Venezia) e quella di chi attende con ansia di farlo. Ovvio che sulla nostra attesa abbiano avuto tempo di addensarsi suggestioni e aspettative, solleticate dalle anteprime trapelate e dalle notizie giunte a noi dal Giappone su Si alza il vento, nonché su Kaguya-hime no Monogatari, pellicola di Isao Takahata che completa la notevole doppietta Ghibli del 2013.
Proprio per questo, in un misto di curiosità e di passione per l'opera dei maestri Ghibli, ci siamo confrontati redazionalmente per poi proporre a Cannarsi la pluralità delle nostre voci condensata in singoli quesiti, aperti sempre al dialogo e alla sorpresa. Speriamo sia venuta fuori una cosa gradita al pubblico dei nostri lettori. Innanzitutto, sperando di non dimenticare nessuno, diamo un nome alle voci di cui sentirete l'eco nelle domande aperte poste a Gualtiero Cannarsi. In ordine alfabetico, hanno contribuito: Domenico V, Ironic74, Slanzard, Zelgadis, zettaiLara e キョン, che ha poi riportato le domande all'intervistato.
Vogliamo inoltre ringraziare Shito per la cortesia e la disponibilità dimostrate in questi mesi di collaborazione.
Vi lasciamo adesso, senza altri indugi, alla lettura, raccomondandovi, se ne avrete voglia, di seguirci anche nei prossimi appuntamenti. Nelle prossime settimane avrete modo infatti di leggere le altre parti dell'interdialogo. Prima, però, una piccola sorpresa. Siamo lieti di proporvi, per gentile interessamento di Gualtiero Cannarsi, un sottotitolaggio amatoriale del trailer originale giapponese di Kaze Tachinu, eseguito da mirkosp su testi (sempre amatorialmente) prodotti dallo stesso Gualtiero. Il trailer non è legato in alcun modo a Lucky Red, legittima detentrice per l'Italia dei diritti relativi alla pellicola, né alla pubblicazione italiana del film; è una cosa fatta da FAN per FAN e si riferisce, sin nel cartello che annuncia l'uscita in coda, alla distribuzione nelle sale giapponesi (avvenuta come noto nell'estate del 2013). Il trailer originale è stato diffuso sulla televisione nazionale giapponese ed era stato già reso disponibile su YouTube, da cui è stato tratto per la creazione del presente sottotitolaggio puramente amatoriale.
Ghibli: dal vento, all'aeroplano, allo Studio...
Da Kaze Tachinu, dialoghi sparsi intorno a passioni e creazioni di Miyazaki Hayao
~Parte Prima~
~Parte Prima~
SI ALZA IL VENTO…
A.C.
Prima di addentrarci in riflessioni sull'intento narrativo di Miyazaki e sul significato dell'opera all'interno della sua produzione, farei astrazione — per quanto possibile — da questo tipo di considerazioni, per guardare l'opera con gli occhi incantati di uno spettatore che osservi il film 'ad occhio nudo', senza filtri, godendone appieno la poesia. Partirei domandoti: qual è l'atmosfera generale che si respira in questo film?
G.C.
L'atmosfera generale... beh, direi sicuramente un'atmosfera piuttosto realistica dello 'spirito del tempo' di un preciso momento del passato, in un preciso luogo per noi distante: il Giappone degli anni trenta. Per la precisione, Miyazaki Hayao ha parlato esplicitamente del "vento di un'epoca" (jidai no kaze). D'altro canto, stiamo parlando di un film intitolato Si alza il vento! Il concetto viene citato, ripreso e riproposto continuamente nei dialoghi dei personaggi, ma in fondo anche solo leggendo le scritte in sovrapposizione durante il trailer ufficiale del film la cosa risulta piuttosto evidente: si affresca un preciso momento storico, sociologico, per poi porre la domanda "come vivevano i giovani di allora?".
A.C.
Quindi, si tratta realmente di una pellicola che potremmo definire "storica", del tutto priva dell'elemento fantastico, come l'autore e lo studio di produzione l'hanno voluta presentare? Una frattura così netta rispetto allo stile mostrato, per un verso o per l'altro, in tutte le opere precedenti?
G.C.
Naturalmente, trattandosi di Miyazaki Hayao, la componente del 'vagheggiamento fantastico' è sempre un po' presente; anche se qui è celata, o meglio incastonata, in un’ambientazione storica e realistica, non dobbiamo infatti dimenticare che questo soggetto nasce come un breve manga omonimo, inserito nel genere dei Musou Note (traducibile come 'Appunti Trasognati') che l'autore pubblica saltuariamente sulla rivista di modellismo giapponese Model Graphix. Realizzate in grande formato e interamente a colori, con tavole acquerellate dallo stesso Miyazaki Hayao, queste storie a fumetti sono fantasiosamente incentrate su questo o quel celebre tipo di mezzo bellico d'annata, aeroplani soprattutto, come ci si potrebbe aspettare da Miyazaki Hayao, che ne è un grande appassionato, e come si confà a un pubblico di modellisti. Sono chiaramente dei diversivi artistici che Miyazaki crea per suo proprio diletto e interesse, sognando e svagandosi sugli oggetti della sua stessa mania, e anche Kaze Tachinu era da principio uno di questi particolarissimi manga. A ben vedere lo stesso era accaduto per Porco Rosso, tratto da un analogo 'piccolo manga' intitolato Hikoutei Jidai (trad: 'L'epoca degli idrovolanti'), non a caso l'unico altro soggetto di Miyazaki a trattare della storia dell'aeronautica. Tuttavia, se questi brevi manga hanno una loro intrinseca natura estemporanea, fantastica — poiché l'interesse è rivolto soprattutto alla minuzia dei meccanismi bellici rappresentati — nonché un po' umoristica (tutti gli uomini vi sono generalmente trasfigurati in porcellini), al contrario nella trasposizione filmica di Kaze Tachinu l'autore ne ha enfatizzato la componente storiografica e soprattutto realistica. La frattura stilistica che dici c'è senza dubbio, ma più che nella componente storica io la rintraccio nel dichiarato intento di "ritrarre l'uomo a tutto tondo": c'è questo intento realista, dove per 'realista' non intendo il realismo dell'ambiente, degli aerei, della storia, ma quello delle caratterizzazioni umane dei personaggi. Ecco dunque la frattura, il cambiamento stilistico: Miyazaki Hayao ha sempre narrato di personaggi ideali, idealistici. Un punto chiave del suo 'fantastico' è sempre stato proprio questa fanciullesca rappresentazione di una realtà idealizzata popolata da personaggi idealizzati. E Miyazaki stesso è sempre stato ben conscio di questa sua propria caratteristica, che talvolta gli è stata anche rinfacciata come critica (dico in Giappone) e che lui ha sempre giustificato con la necessità di dare speranza soprattutto alle nuove generazioni, dalle quali lui stesso trae a sua volta un senso di speranza per il futuro. Di contro, a fare animazione di stampo 'neorealista' è sempre stato il suo collega anziano Takahata Isao, ben lontano dalle idealità favolistiche di Miyazaki; ma in questo caso, pur mantenendo il suo stile, anche il secondo si è provato a rappresentare la realtà dell'animo umano.
A.C.
Si direbbe in ogni caso una sterzata stilistica molto significativa… senza dubbio sufficiente a rendere la comprensione di questo film per un pubblico straniero ben più ostica dei precedenti. È quindi un film destinato a non essere apprezzato, o realmente amato, in Occidente?
G.C.
Se consideriamo l'intento narrativo e la collocazione scenica del caso, non ha importanza che si tratti di Miyazaki Hayao, o che si trattasse di un Kurosawa Akira, o di un Ozu Yasujirou, ma qualsiasi film diventa di certo un'esperienza 'tutta diversa' a seconda che a fruirla sia un giapponese o uno straniero. Naturalmente un simile gradino culturale esiste sempre e comunque, nella fruizione di qualsiasi opera straniera, ma con una tale collocazione, così ricercata e intesa, messa dichiaratamente nel fuoco dell'occhio registico, il gradino è vertiginoso. Proviamo a invertire i termini: pensiamo a come potrebbe risultare, per esempio, un film sul fascismo, sulla società italiana durante il Ventennio, per un italiano o per un giapponese. Chiaramente anche chi in Italia non ha vissuto quel periodo ne avrà sentito raccontare e parlare durante tutta la sua formazione, per un verso o per l'altro. Per un giapponese invece è qualcosa che accadeva dall'altra parte del mondo, magari citato nei libri di storia, ma necessariamente distante, sicuramente non vissuto in alcun modo da alcun ascendente. E non si tratta solo di eventi storici, perché il particolare clima sociale di un periodo e di un dato luogo, la cultura del tempo, il famoso 'vento di un'epoca' di cui dicevamo influenza le persone che hanno vissuto in quel tempo e in quel luogo. In questi anni di globalizzazione e millantato cosmopolitismo si crede forse che le persone sul pianeta siano essenzialmente tutte uguali, che lo siano in fondo sempre state, ma personalmente non riesco a condividere questa visione. In genere non si può capire la cultura, la società, la vita di un'altra parte del mondo semplicemente documentandosi. La differenza è tutta quella che passa tra la vita e la storia. Quindi, tornando a Kaze Tachinu, per un occidentale che come me ha forti interessi nipponisti, il film è veramente l'occasione per apprezzare uno spaccato della storia moderna e della sociologia del Giappone riconsiderate dall'interno. Anzi, siccome Miyazaki Hayao ha un modo espressivo molto 'sensoriale', molto 'fascinoso', direi quasi 'materico', questa comunicazione credo sia molto intensa e ricchissima, un tuffo in una 'sensazione' che un libro da sé non potrebbe mai dare. Invece, per chi ha scarso interesse verso il Giappone come paese e la sua cultura, suppongo che il film possa risultare piuttosto lento, forse a tratti poco significativo e persino noioso. Del resto, anche lo scolpito umano, specie se 'realistico', è uno scolpito che vive dello spirito del soggetto ritratto, ovvero un protagonista basato su una biografia reale.
A.C.
Parlando di come la storia attraversi una creazione artistica, ci si addentra tra i meandri della memoria, che è poi la sostanza della storia stessa, intesa sia come autobiografia e vicenda personale, sia come vicenda collettiva e successione di eventi epocali. Soffermandoci inizialmente sul primo aspetto, è legittimo chiedersi: qual è il peso della nostalgia nell'economia del lungometraggio? Cito qui Miyazaki: «Quando ho visto il film di Tarkovskij, Nostalghia, ho capito quanto questo sentimento potesse essere universale e condiviso, anche nei bambini. La nostalgia non è un privilegio degli adulti: è una delle rare caratteristiche che ci rendono umani. Umani e bambini. Vivendo, perdiamo, via via, qualcosa. È la vita. La vita diventa, per tutti, nostalgia».
G.C.
Senza ammettere una simile universalizzazione del concetto (e sentimento) di nostalgia, sarebbe qui difficile pensare a un discorso di nostalgia in senso proprio, perché le epoche qui narrate non sono state vissute in prima persona da Miyazaki Hayao. Il film non copre gli anni della Seconda Guerra Mondiale, quanto piuttosto quelli delle sue premesse: indi il regista non era ancora nato. È proprio come per Miyazaki Gorou e Coquelicot-Zaka kara (Dalla Collina dei Papaveri), se vogliamo. Ma se in questo secondo caso si può forse ragguagliare una pur tipica volontà di apologia per una perduta, idealizzata, vagheggiata arcadia di semplicità e purezza di un pur realmente ignoto passato (classico tema di ogni momento di decadenza della storia umana — ciclicamente), in Kaze Tachinu non mi pare di scorgere alcunché di simile. In effetti, l'epoca di Kaze Tachinu era proprio troppo dura e troppo 'impazzita' per poterla rimpiangere con leggerezza: questo nel film è chiarissimamente rappresentato, e Miyazaki Hayao la affresca piuttosto per cercare di capirne il sentimento. Guardando il film, percepisco questo forte interesse d’indagine sensoriale della storia recente, condotta con grande onestà. È d'altronde un interesse molto umanista: l'incedere degli eventi è assai focalizzato sul personaggio del protagonista, sopra ogni cosa. Un po' come andare alla ricerca della verità dell'uomo nella storia, ecco.
A.C.
Sin da quando si è parlato di un film su un personaggio — adulto — che ha strettamente a che fare con gli aerei, da sempre tema caro a Miyazaki, è venuto spontaneo domandarsi se Kaze Tachinu non sarebbe finito per diventare 'troppo carico di spunti' o di desideri e tematiche 'eccessivamente personali'. Kaze Tachinu è questa sorta di ricettacolo? Esiste una specie di impronta personale che Miyazaki avrebbe da sempre desiderato lasciare sulla pellicola di qualche sua opera, e che ha trovato in quest'ultimo film il contenitore ideale? Il discorso aperto con Porco Rosso, i ricordi legati all'azienda paterna di componentistica aeronautica (materiale utilizzato tra l'altro proprio nell'assemblaggio dei caccia Zero progettati da Horikoshi Jirou), ecco... Kaze Tachinu chiude un po' il cerchio?
G.C.
Credo che Miyazaki Hayao, a seguito della sua fascinazione di sempre per gli aerei retrò, abbia negli anni spontaneamente approfondito la figura e la biografia di Horikoshi Jirou, il progettista dei 'leggendari' ZeroSen. In effetti questo è stato anche confermato da Suzuki Toshio. Da lì, il passo all'interesse storiografico e sociologico credo sia breve, se pensiamo a una passione che cresce e invecchia assieme alla persona che la prova. Credo che in genere gli anziani percepiscano la presenza dei tempi passati in modo più profondo del giovani, forse perché un anziano può scorgere 'un tempo perduto' anche nella sua stessa vita. Così Miyazaki Hayao, ormai come passato dalla passione per la letteratura per l'infanzia a classici nazionali quali Natsume Souseki, Hotta Yoshie e poi Hori Tatsuo, si è forse dato del tutto all'interesse per quell'epoca. Allo stesso tempo, Miyazaki ha sempre più empatizzato con la passione (in senso proprio) di Horikoshi verso la creazione di 'qualcosa di bello': un aereo per il progettista, l'animazione per il regista. Credo che questo sentimento di vicinanza corra sul filo di artigianato e arte, devozione per la propria opera, spinta a vivere la propria epoca — tutte cose ben evidenziate nella pellicola, nonché nell'opera e nella vita di Miyazaki Hayao.
L'AUTORE E LA SUA OPERA
A.C.
Dalla nostalgia al futuro. E in questo caso il futuro, per Miyazaki, sarebbe un congedo artistico. Kaze Tachinu è quindi l'opera definitiva, per il maestro, in quanto l'ultima? O semplicemente una al pari delle altre, altrettanto amata e curata?
G.C.
Penso che per Miyazaki Hayao, come forse per ogni artista e artigiano, tutte le opere siano ben diverse fra loro nel momento creativo, ma se rimirate dalla distanza siano poi ugualmente care. Anche questa è una cosa che l'autore ha esplicitamente dichiarato, ma a pensarci non ci sarebbe stato neppure bisogno di chiederglielo. Ciò che per il pubblico sono due ore di film, per l'autore sono due o più anni di vita, di quotidianità, di dedizione, passione e fatica. Alcuni realizzano con lungo tempo ciò che altri consumano in brevissimo tempo. Quindi è normale che ogni film, per un regista come Miyazaki, sia soprattutto legato al momento della vita in cui l'ha realizzato. Non metto in dubbio la sincerità che Miyazaki Hayao ha usato nel dichiarare il suo ritiro dalla creazione dei lungometraggi, ma d'altro canto, come è sempre nella vita e nell'arte e nella vita dell'artista, solo vivendo ogni momento al presente si può sapere che cosa porterà in futuro. Perché cambiando le situazioni contingenti, cambiano anche le percezioni, i sentimenti e le prospettive dell'artista. Senza alcuno scherno, credo che lo stesso Miyazaki Hayao ce l'abbia provato più volte.
A.C.
Il timore è che questo film paradossalmente non possa far librare lo spettatore in alto nel cielo con 'leggerezza' come le opere precedenti, proprio a causa del potenziale carico di eccessiva personalità cui si accennava in precedenza. In fondo, viene dopo il terremoto del Touhoku (2011), in un momento storico in cui la leggerezza non aleggia certo all'orizzonte dei cieli giapponesi. Il vento che spira da quest'opera è malinconico e cupo, o lieve e carico di promesse? Oppure, al contrario, non è stato vestito di nessuna particolare malinconia né segnato dalla decisione di Miyazaki di ritirarsi?
G.C.
Stando alle dichiarazioni, l'intenzione di ritirarsi di Miyazaki Hayao è successiva al completamento di questo film. Personalmente, non faccio fatica a crederlo. Miyazaki Hayao è un artigiano febbrile: quando è all’opera consacra tutto sé stesso al lavoro che sta realizzando, ne è assorbito, diventa un "servo del film" (eiga no shimobe), per usare le sue precise parole — quindi di certo non pensa al 'dopo'. Per contro, ad opera compiuta è sempre esausto, provato fisicamente e interiormente. Credo sia per questo che Miyazaki Hayao ha già più volte annunciato il suo ritiro dopo la conclusione di un suo film — il caso più significativo accadde in seguito a Mononoke Hime, la cui realizzazione era stata davvero estenuante. Di conseguenza, non credo che il tono greve di Kaze Tachinu sia la proiezione di un pensiero come di 'finale' nella mente di Miyazaki Hayao. Piuttosto, come dicevo, penso che ogni film viva del momento interiore ed esteriore dell'autore: i suoi sentimenti e le sue circostanze, gli uni legati alle altre. Quindi, come tu dici, non c'è leggerezza in questo film: il Giappone ha recentemente conosciuto il grande disastro del terremoto del Tohoku e la susseguente disgrazia nucleare, questo è il clima del momento in cui è stata creata l'opera di cui parliamo. Sappiamo per certo che Miyazaki Hayao, con la mente di una persona anziana, ha molto sentito tutto questo dal punto di vista emotivo — le conferenze stampa dei tempi, quando lo Studio Ghibli stava completando e poi rilasciando Coquelicot-Zaka kara, sono inequivocabili. Dunque c'è senz'altro molta mestizia in questa nuova pellicola. Greve è lo spirito del tempo narrato, greve è lo spirito del tempo del narrante al momento del suo narrare. Credo che il tono di questo film sia nato proprio da questa empatia attraverso due diverse epoche, com'era già accaduto anche per Mononoke Hime, non a caso l'unico altro soggetto dalla componente realmente storica mai partorito da Miyazaki Hayao. Anche lì, si trattava (e si tratta) di una pellicola a tratti cupa ed estremamente seria, che intendeva essere tale — dichiaratamente. Mononoke Hime dipingeva lo scontro tra umanità e natura come inevitabile, e senza vincitori. Oggi, in Kaze Tachinu, ci si focalizzata sull'opera dell'uomo nella società degli uomini, ma la sensazione è che il pur imprescindibile sforzo vitalistico umano ("Bisogna vivere." — come recita lo slogan ufficiale del film), anche quando coronato dal raggiungimento del suo fine, porti sempre al conflitto e, in ultima analisi, al fallimento.
A.C.
Forse gli eroi di Miyazaki, storici o immaginari che siano, desiderano solo ricordarci che il futuro è sempre il regno delle possibilità, nonostante l'improbabilità che le cose più belle si realizzino? Da un lato gli eroi quotidiani, dall'altro quelli 'magici', fino alle presenze più leggere e volatili dell'immaginario ghibliano, sfuggenti come i Nerini del Buio o ineffabili come il Gattobus. Alla fine, però, non c’è una sostanziale differenza, sia che la storia abbia un taglio realistico, riportando alla luce le ferite della guerra o le stanze abbandonate di una vecchia casa di campagna, sia che si colori decisamente di fantastico. In entrambi i casi, sembra che ci sia sempre l’intento di trasmettere speranza attraverso l’animazione — lo stesso Miyazaki ha parlato, a proposito del proprio cinema, di illusioni indispensabili «per rassicurare i nuovi venuti, per confortarli sull'accidentato percorso dell'esistenza». Si tratta sempre di iniettare anticorpi contro la disperazione in agguato nel mondo contemporaneo?
G.C.
Personalmente, non ho trovato un simile 'ottimismo nel pessimismo' in questa pellicola. Soprattutto non credo che esista nulla come una coerenza della poetica di Miyazaki Hayao. Per come lo vedo e l'ho conosciuto, Miyazaki Hayao è una persona semplice, un vero artigiano, con le sue personali passioni e le sue circostanze prima di qualsiasi credo analitico. Non a caso si autodefinisce un "normale vecchietto" e un "groviglio di contraddizioni". Per esempio, trattandosi di un autore che si interroga responsabilmente sull'opportunità delle sue opere nei confronti del pubblico, Miyazaki ha spesso cercato di giustificare intellettualmente la necessità dell'evasione nella fantasia, questo potere catartico dell'intrattenimento. Come dicevo, la sua necessità di narrazioni e personaggi fantastici nella loro idealità sembra venire proprio da questo. Ma allo stesso tempo, sappiamo che Miyazaki Hayao è innanzitutto un animatore, ovvero un regista d'animazione che viene dalla gioia del far muovere i disegni, e credo quindi che questa spinta a realizzare delle belle animazioni esista comunque in lui anche secondo un modo di essere infantile, genuino, forse realmente artistico. Credo che in lui esista in primis questa contraddizione, che forse è anche un po' un conflitto interiore.
Prima dicevo che ritengo le opere di Miyazaki Hayao siano sempre molto legate al momento che l'autore vive mentre le crea, piuttosto che a un presunto 'grande disegno espressivo e onnicomprensivo', che poi i critici amano sempre rintracciare a posteriori. Per esempio, quando Miyazaki realizzò Ponyo sulla scogliera, ha creato un film davvero molto solare, positivo, ottimistico. Lo slogan ufficiale era: "Che bello essere nati!" — il che direi che dice proprio tutto. Persino uno tsunami, in quel film, ha un che di vitalistico! Era davvero un film che guardava al futuro e alla speranza dei bimbi del domani, il tutto a seguito dalle circostanze che Miyazaki Hayao stava vivendo in quel dato momento: molti nuovi nati tra i membri del suo staff, molta energia vitale intorno a lui. Queste cose mi sono vivide e chiare perché al tempo ebbi anche l'occasione di trovarmi a parlarne di persona con l'autore (link: http://www.nazioneindiana.com/2012/05/07/riconsiderazioni-su-ponyo), mentre per Kaze Tachinu non ho di certo avuto analoga occasione di contatto diretto, tuttavia mi pare che la nuova pellicola, e le sue circostanze creative, si trovino ai perfetti antipodi del momento di Ponyo. Adesso l'atmosfera mi pare piuttosto quella dell'angustia del presente e della riflessione sull'angustia del passato. Di una mestizia ineluttabile, anche di fronte al più genuino dei sogni di un bambino. Di amara accettazione di un fallimento annunciato e inesorabile anche nella realizzazione individuale.
~Parte Seconda~
IL PACIFISTA E LA GUERRA
A.C.
Come hai sottolineato in precedenza, la presenza dei caccia A6M non deve far pensare a un Miyazaki affascinato dal potenziale bellico dei velivoli della Mistubishi, o men che meno vittima di nostalgie militariste. Miyazaki (e lo Studio Ghibli con lui) è pacifista militante fin dai tempi di Mirai Shounen Conan, e senz’altro critico verso qualsiasi recrudescenza nazionalistica nel proprio paese. Proprio di recente, sul pamphlet mensile dello Studio Ghibli, è stata giudicata "del tutto impensabile" l'ipotesi di revisione costituzionale avanzata dal primo ministro Abe Shinzou, rammentando l'impegno assunto dal Giappone all'indomani del catastrofico conflitto del Pacifico: rinuncia alla guerra e al mantenimento di un nucleo di forze armate nazionali. Nonostante ciò, l'accusa di "film guerrafondaio" è stata da più parti lanciata, tanto che Miyazaki ha finito per considerarla una 'riserva oziosa', avanzata proprio in reazione all'iniziativa dello Studio Ghibli in difesa della vocazione pacifista del Giappone post-Hiroshima. Pensi che queste polemiche siano solo strumentali e malevole, o siano frutto di un’inquietudine avvertita dal Giappone contemporaneo, e alimentata dalle tensioni politiche con la Cina, Taiwan e le due Coree?
G.C.
Per essere precisi, nel film in effetti i caccia A6M ZeroSen si vedono di sfuggita (letteralmente) solo in una singola sequenza dell'epilogo — non parlerei quindi di una loro 'presenza' nella pellicola. Ma al di là di questo dato fattuale che mi piace puntualizzare, a causa dei temi che vi si trattano, era inevitabile che questo film sollevasse in patria molta polvere, una certa quantità di critiche, polemiche, persino illazioni gratuite. Anzi, i più maliziosi potrebbero forse pensare persino a un ennesimo coniglio pubblicitario uscito dal capello del sempre abilissimo Suzuki Toshio, un espediente inteso a generare intorno a una pellicola animata di difficile collocazione un grande caso mediatico, così da spingere molti giapponesi ad andare a verificare le cose nelle sale cinematografiche. Del resto, come lo stesso Suzuki spiegava, la produzione di lungometraggi à la Ghibli è tale che ogni film deve per forza diventare un fenomeno nazionale, se vuole rientrare degli altissimi costi di produzione. Di fatto c'è anche che Miyazaki Hayao ha rilasciato forse più interviste intorno a questa nuova pellicola che in tutta la sua lunga carriera, culminando infine con l'annuncio — più serio e ufficializzato che mai — del suo ritiro, cascato proprio a fagiolo per rendere Kaze Tachinu un appuntamento ancora più imperdibile nell'opera di un autore ormai celebrato in patria come un mostro sacro. Quindi potrebbe sembrare proprio tutta una perfetta, gigantesca cassa di risonanza mediatica, ma qui si torna sempre sul piano delle illazioni.
Più significativamente, come già dicevo, non credo che si possa sistematizzare il 'pensiero dell'autore Miyazaki Hayao' in qualcosa di coerente. Questo è un esercizio da critici cinematografici e letterari, forse sempre e comunque indebito, ma direi particolarmente fuori luogo nel caso di un autore come Miyazaki Hayao, un artigiano fantasioso quanto genuino. Per di più, a dispetto delle sue personali idee politiche e sociali, giovanili e senili, Miyazaki non mi è mai parso un autore politicizzato. Mi pare piuttosto che questi siano temi molto cari a un certo tipo di stampa di settore, che non volendo (o forse non riuscendo a…?) leggere davvero le opere per quello che schiettamente sono, ama parlare di cose come il presunto schieramento politico del loro autore, tema poi sempre a gradito dai lettori più tendenziosi e dediti al chiacchiericcio più vacuo. Ma per parlare concretamente e onestamente di un'opera di Miyazaki Hayao, personalmente credo si debba sempre tornare a parlare del film in sé stesso. E nei miei occhi, il film parla onestamente e disperatamente delle tragedie di un'epoca e di un singolo uomo che vive quell'epoca, facendo quello che arriva a fare. Credo che l'interesse del regista stia davvero tutto qui.
A.B.
Anch'io direi che l’avversione di Miyazaki alla guerra è fuori discussione, dimostrata com’è da tutti i suoi film precedenti. Tuttavia qui la pellicola si arrampica un po’ sugli specchi per separare la figura di Horikoshi, la purezza della sua energia creativa, dalla utilizzazione bellica delle sue creazioni.
G.C.
Vero… anche se di per me, in Kaze Tachinu trovo soprattutto il dramma, lo sconforto di un sogno infantile portato avanti con strenua, totalitaria, ardente passione infantile, ma che si rivela un'amara trappola mefistofelica, senza alcuna via di scampo. Horikoshi Jirou, come un bambino o come un artista (c'è differenza?), non può fare a meno di darsi alla realizzazione di un bellissimo mezzo di morte, ben sapendo sin da principio l'uso a cui sarebbe stata destinata la sua opera…
A.B.
E infatti le stesse cose accadono col suo mentore: Gianni Caproni. Per la precisione Giovanni Battista Caproni, conte di Taliedo. Il film lo presenta col suo titolo nobiliare, che farebbe pensare a un aristocratico. In realtà Caproni fu nominato conte solo nel 1940, per volontà di Mussolini e proprio a causa dei meriti bellici della sua industria aeronautica. Caproni aveva creato il primo bombardiere strategico del mondo, dando realizzazione pratica alla dottrina dell’impiego dell’aviazione militare. Fu scomodato D’Annunzio per coniare il motto della Caproni: Senza cozzar dirocco, che esaltava proprio la possibilità di colpire gli obiettivi (diroccare) senza attaccare da terra (cozzare). Ma è altrettanto vero che Caproni coltivava il sogno di creare una grande aviazione civile che accorciasse le distanze fra luoghi e popoli. Miyazaki privilegia proprio questo sogno, simboleggiato dal progetto del gigantesco Transaereo Noviplano: un colossale idrovolante destinato a trasportare fino a cento passeggeri. Ma il prototipo precipitò in acqua al secondo volo, nel 1921, durante le sperimentazioni sul lago Maggiore. Fu la fine del sogno, testimoniata da alcune foto dell’epoca che documentano il disastro.
G.C.
Già… quella vicenda viene riportata da Miyazaki anche nel manga originale di Kaze Tachinu, come pure è stata trasposta nel film. In entrambi i casi risulta un po' una scena tragicomica, nella quale Caproni cerca di impedire all’operatore di filmare il disastro. Vi si respira un po' quel gusto di passione romantica per un'epoca di ventura e pionieristica aeronautica, come per Porco Rosso, non a caso anch'esso trasposto da un analogo breve manga 'trasognato' del regista e ambientato nella stessa Italia di Gianni Caproni. Ma Kaze Tachinu è un film molto più serioso e cupo di Porco Rosso: infatti, benché Caproni appaia come un personaggio mefistofelico, è comunque relegato a dei momenti irreali, di sogno…
A.B.
Sì, Caproni si muove solo in una dimensione onirica, nell’immaginazione del protagonista: eppure — a differenza di Porco Rosso, dove gli eventi e l’ambientazione erano completamente di fantasia — qui la sua figura di ponte fra l’Italia e il Giappone ha una base storicamente realistica. Negli anni Venti esisteva infatti un filo che collegava l’Italia al Giappone, nel mondo della aviazione. Nel 1920 Arturo Ferrarin (il pilota che compare appunto in Porco Rosso) aveva compiuto un celebre raid Roma-Tokyo e nel 1925 Francesco De Pinedo fece una trasvolata spettacolare dall'Australia al Giappone e ritorno.
A.C.
Alla fine non è un caso che Miyazaki abbia dato al proprio studio di animazione giusto il nome di un aereo della Caproni Aeronautica Bergamasca, il Ca.309 Ghibli.
G.C.
Eppure, come per Horikoshi Jirou, così anche di Gianni Caproni, Miyazaki sembra quasi voler celebrare la gloria nella sconfitta, il trionfo dei loro sogni persino sulla cruda realtà determinata anche dal realizzarsi di quelli. Anzi, mi pare proprio che l'autore voglia come 'ripulire' la candida, pura bellezza del sogno originario dalla lordura del suo risultato concreto — quasi l'ergersi titanico dell'uomo sulla sua stessa umana tragedia. Certo mi torna un po' in mente un certo tipo di filmografia di Ozu Yasujirou, che guarda caso Miyazaki ha citato proprio mentre parlava delle atmosfere del suo Kaze Tachinu, ma altrettanto non posso fare a meno di percepire una certa ingenuità quasi infantile nell'assolvere lo spirito di due figure storiche che non si può negare abbiano avuto certe responsabilità per l'appunto storiche. Forse Miyazaki le considera piuttosto come vittime del loro tempo? Vittime del vento della loro epoca? Vittime della loro stessa, quasi compulsiva passione? Magari il regista ha pensato un po' di tutte queste cose, nel rapportarsi a certi temi, e benché si possa certo dire che la realtà è fatta sempre di congiunture di circostanze, altrettanto rilevo una spiccata tendenza al far prevalere, pure in questo film che vuole definirsi 'realistico', la sfera dell'idealità su quella della realtà.
A.B.
Del resto, mai come in questo film Miyazaki ha scelto di celebrare la supremazia dell’invenzione sull’azione. Non a caso ha scelto come protagonista del film non un pilota, come avviene di solito nei manga, ma un progettista, un ingegnere. Del resto uno dei personaggi del film porta il nome di Castorp, il protagonista de La montagna magica di Thomas Mann: anche Castorp era appunto un ingegnere. Un po’ come Mann, anche Miyazaki ha scelto di identificarsi come artista in un personaggio apparentemente consacrato alla scienza e alla tecnica. Dico apparentemente perché in realtà mi pare che un altro tema del film sia la supremazia dell’estetica sulla tecnica. C’è proprio una battuta in questo senso: Caproni dice che il "buon gusto" del progettista, ossia la sua intuizione e sensibilità estetica, precorrono sempre la tecnologia. Mi pare che questa sia anche una trasparente metafora attraverso la quale Miyazaki rivendica la dignità del suo lavoro: un artigianato gloriosamente anacronistico che diffida della grafica al computer e resta attaccato alla tradizione della matita. Disegnare aerei, disegnare film…
G.C.
Il parallelismo in effetti è stato confermato e perfettamente quadrato da Anno Hideaki, che dopo aver completato le registrazioni di doppiaggio per il ruolo del protagonista ha dichiarato di aver compreso che 'creare un film' e 'creare un aereo' sono cose simili nella misura in cui trattano comunque di "dare forma a un sogno" — benché l'oggetto della creazione sia diverso. Certo che a ripensarci, adesso mi viene in mente che in Miyazaki ci deve essere questo tipo di conflitto: da un lato la passione estetica per la modernità dei suoi tempi, rappresentata dai mezzi bellici d'annata, per i meccanismi e per la tecnica, con cui ha popolato schizzi, fumetti, film e a tratti persino un museo, e dall'altro questo timore anatemico dell'impatto della modernità sulla società umana. Forse si tratta di una sensibilità tipicamente 'fratturata' di un anziano giapponese nato in certi fatidici anni…
A.B.
Beh, vorrei ricordare che durante uno dei suoi soggiorni in Italia, Miyazaki ha anche visitato il Museo dell'Aeronautica ospitato sulle rive del Lago di Bracciano, in una località che si chiama Vigna di Valle, nei dintorni di Roma. Lì sono conservati alcuni celebri esemplari di idrocorsa, ovvero gli idrovolante da competizione coi quali l'Italia, fra gli anni '20 e '30, vinse molti primati — si pensi alla famosa Schneider Cup, che veniva non a caso citata proprio in Porco Rosso. La velocità era il mito di quegli anni, il simbolo della modernità, del futuro immaginato in quegli anni. Miyazaki ritrae Caproni con i baffoni e la bombetta, come andava di moda all’epoca, ed io non posso non pensare alla somiglianza con Marinetti e gli altri futuristi, immortalati nella celebre foto che segna la nascita del movimento. Per carità, non voglio certo fare di Miyazaki un futurista, ma certo il suo film ripropone alcuni dei miti del futurismo. In Kaze Tachinu gli aerei, meticolosamente e amorosamente esplorati in ogni dettaglio, non sono meno protagonisti dei personaggi.
A.C.
Mi sembra di capire che Miyazaki si sia documentato molto anche sull’Italia degli anni di Gianni Caproni. Con lo stesso zelo del Takahata del Meisaku (che visitò il Canada nonché la stessa Italia per raccogliere informazioni da utilizzare nelle sue serie animate).
G.C.
In effetti, come accennavo Miyazaki ha sempre voluto fare una certa apologia della vita arcadica e bucolica opposta a quella industrializzata, militarizzata e cattiva — da High Harbour vs. Industria, alla Valle del Vento vs Tolmekia, all'eroe Emishi vs il ferro di Eboshi, dove si voglia. Pur avendo nella terza età un po' mitigato i termini della lotta tra natura e tecnologia, presentandolo come un conflitto sinanco incolpevole nella sua naturale inevitabilità (e penso proprio a Mononoke Hime), resta questa visione di valenza maligna della tecnologia per sé, che è forse un classico punto di critica antimodernista di sapore un po' marxista. Credo del resto che sia anche un tratto generazionale: se per Anno Hideaki, come per Micheal Crichton (che spesso cita), la scienza è un'arma a doppio taglio, che diviene buona o cattiva a seconda dell'uso che l'uomo ne fa, da cui una visione sempre oscillante tra fascinazione e anatema, nelle opere di Miyazaki Hayao la scienza, la tecnologia e l'industria sono sempre apparse il funesto araldo della distruzione. Ma pensando al conflitto interiore che ora mi pare scorgere nell'autore, forse c'è di più. Forse c'è anche un senso di ciclica ineluttabilità di questa 'umana caduta dalla vetta dei suoi sogni'. A ben pensarci, potremmo notare che in fondo Miyazaki Hayao già nel 1986 faceva dire a Muska (che spara pistolettate sulle trecce della ragazzina ideale di turno: Sheeta): «Laputa non si estingue! Risorgerà innumerevoli volte, perché proprio Laputa è il sogno dell'umanità!». Ovvero, c'era già questo senso di intrinseco, incombente desiderio umano di conquista del 'sovrumano' per antonomasia: il volo, il cielo, librarsi dalle proprie terricole radici, in un afflato già destinato alla caduta finale. La parabola di una civiltà che è descritta nella sequenza dei titoli di testa di Laputa è dunque destinata a ripetersi, ciclicamente. Ai tempi il tutto era forse un monito dal retrogusto atavico sui torti dell'umanità, ma forse ora Miyazaki si è reso conto che nel povero Muska — uno dei suoi assai rari 'cattivi totali', un personaggio che l'autore butta nel gabinetto per poi tirare lo sciacquone — alla fine c'è molto di miseramente umano, banalmente umano… e che in fondo anche la psiche dell'artista e dell'artigiano, quale lui stesso appare, è fatta proprio allo stesso modo. Se penso al tragico pessimismo così intrinsecamente connaturato alla vita umana per come appare in Kaze Tachinu, tutto mi sembra quadrare perfettamente. Sembra la tragedia umana dell'ambire al cielo, del conquistarlo per poi doverne inevitabilmente cadere.
A.C.
È il destino di Icaro. Sfruttare le correnti ascensionali, fare del vento uno strumento di elevazione, tentare ogni volta di superare i limiti della condizione umana, perennemente tentati dal cielo…
G.C.
È davvero stupefacente che tu citi proprio quel mito, perché è la stessa identica analogia che ho letto fare anche ad Alessandro giusto un paio di settimane fa, in un brano dedicato a Kaze Tachinu che stava componendo per aggiornare il suo libro (ride). Adesso sembrerà che lui abbia preso l'idea da questa chiacchierata! Beh, suppongo del resto che si tratti di un paragone davvero molto calzante, quindi è naturale che venga alla mente…!
L'ARTIGIANO E IL RAPPORTO CON L'ARTE
A.C.
Quando si dice la circolazione delle idee…! Di certo il vento con la sua volatilità sicuramente favorisce simili assonanze di pensiero! A proposito: in Kaze Tachinu il vento come metafora del volo soffia da lontano, da antecedenti letterari che vanno da Paul Valéry a Tatsuo Hori, ma anche a Ryōkan Taigu («Sopra il cielo il grande vento») e a Christina Georgina Rossetti («Who has seen the wind?»), quest'ultima citata a bella posta dal protagonista. Quanto è stretto il legame tra l'ultimo film di Miyazaki e la letteratura?
G.C.
Direi innanzitutto che nel film il vento non è poi così legato al volo, piuttosto è il vento di un'epoca che sospinge gli uomini a vivere, un po' come l'anelito dello spirito del tempo. Oltre a questo, un'altra cosa che evito rigorosamente di fare è sovraccaricare di intellettualità l'opera di Miyazaki Hayao. L'avrò già detto e mi scuso per l'ennesimo sermone, ma non credo si dovrebbe sempre pensare a Miyazaki Hayao come a un 'intellettuale', specie nel senso tipicamente occidentale (europeo? italiano?) del termine. Una persona intelligente? Certo. Una persona con un suo pensiero? Sicuramente. Una persona con i suoi interessi culturali? Senz'altro sì. Ma non si tratta di una persona che ha fatto dell'esercizio di tutto questo la sua attività di vita. Perché ben prima di tutto ciò, lo ripeto, Miyazaki Hayao è un artigiano, ovvero uno che crea realmente, manualmente le cose: è un animatore appassionato. Credo quindi che gli interessi letterari di Miyazaki Hayao siano molto più estemporanei (ma non per questo meno intensi) di quanto i critici cinematografici occidentali vorrebbero credere, perché credo che i critici amino tipicamente fare sfoggio della loro stessa cultura facendola 'rimbalzare' sull'opera altrui. Proviamo dunque a seguire dei dati certi: per esempio, parlando di letteratura, sappiamo per certo che Miyazaki Hayao stava leggendo l'opera di Natsume Souseki prima e durante la lavorazione di Ponyo. Seguendo uno spunto preso proprio da un testo di Souseki, ha scoperto i preraffaelliti ed è rimasto colpito dal dipinto La morte di Ophelia di Millais, che ha trasfigurato in Gran Mammare, che 'nuota' supina e a pelo d'acqua proprio come è rappresentata Ophelia in quel quadro preraffaellita. È plausibile quindi pensare che anche la sua conoscenza di Christina Rossetti sia derivata da questo spunto, suppongo. Ancora, abbiamo già detto che Miyazaki Hayao sembra essersi più recentemente appassionato di storia giapponese moderna, approfondendo Hotta Yoshie, Hori Tatsuo e il periodo storico di Horikoshi Jirou anche tramite la letteratura. D'altro canto sappiamo che da giovane era interessato soprattutto alla letteratura per l'infanzia, sia nazionale (soprattutto Nakagawa Rieko) che straniera (soprattutto inglese, direi), e questo si è riflesso in tanti altri suoi film e lavori. Credo in summa che per un regista artigiano gli interessi di ogni momento passino naturalmente in ciò che si crea in quello stesso momento, quindi direi che il legame tra Kaze Tachinu e la letteratura è stretto tanto quanto è stato dichiarato ed è comunemente noto. Nessun mistero, nessun arcano. Per esempio, quanto di Valéry c'è in Kaze Tachinu viene chiaramente da uno spunto preso da Hori Tatsuo e dal suo libro omonimo, ed è verissimo che nel film ci sono espliciti rimandi a La Montagna Magica di Thomas Mann, come diceva Alessandro, ma direi che anche questo sia arrivato da suggestioni, dalle figure di Hori e Horikoshi — Miyazaki ha infatti dichiarato che «gli intellettuali di quel tempo dovevano senza dubbio avere un'educazione fatta di opere simili», al che ha citato pure brani musicali quali Winterreise (Viaggio d'inverno) di Schubert, anch'esso ripreso esplicitamente in Kaze Tachinu. Insomma ci sono queste citazioni, ma mi paiono frutto e fautrici più che altro di suggestioni estetiche; non andrei a sovranalizzare nulla di ulteriore, perché si tratterebbe probabilmente di una forzatura…
[Horikoshi Jirou nel film e lo Horikoshi storico. A destra Hori Tatsuo.]
A.C.
Quindi una ricchezza di rimandi che però rifugge da qualsiasi forma di autocompiacimento intellettualistico. Grazie per i riferimenti che hai voluto segnalare, alcuni espliciti ed altri più nascosti. Dicevamo, l'elemento del vento come spirito di un’epoca… sembra suggerire che natura e spirito possono condividere il segreto che permette di librarsi in volo. A questo punto, alcuni critici si affretterebbero a dire che l'ecologia di Miyazaki riflette a pieno la compenetrazione tra uomo e natura propria della cultura giapponese. Probabilmente, anche qui peccherebbero d’intellettualismo e non coglierebbero il segno, mi sembra di capire.
G.C.
Sì, anche quelli che citi ora mi sembrano i tipici interrogativi del pubblico colto che vuole a tutti i costi ricercare dei 'grandi temi nell'opera del maestro Miyazaki'. Hai mai notato che non troverai mai cinque righe scritte in italiano su Miyazaki Hayao in cui non si parli di "poeta, poesia, poetico", o di "ecologia, ambientalismo" e simili? A me sembra sempre che la critica si approcci a qualsiasi autore seguendo degli schemi percettivi preconfezionati, tipicamente strutturalisti, ovvero si sforzi di leggere l'opera altrui avendo già deciso a priori i modi e i referenti con cui interpretarla. Ma questo non ha senso, credo sia anzi irrispettoso nei confronti dell'opera di una persona che non siamo noi. Mettersi di fronte a un'opera altrui dovrebbe innanzitutto significare aprire la mente e porsi a ricevere la libera espressione di un altro, un altro che non siamo noi stessi, che è fuori da noi stessi.
Una volta Miyazaki Hayao disse che quando gli capita di leggere un libro di 'critica' sui suoi film vorrebbe tirare un pugno all'autore, perché «non capiscono proprio quello che cerco di esprimere». Parlando di natura ed ecologia, anche quando lo si intervistava per Ponyo, ovviamente i giornalisti italiani gli chiesero di questo tema: Miyazaki non riusciva a capire dove lo avesse trattato nel film. Sto raccontando un dialogo intercorso dinanzi ai miei occhi, dal vivo. Quando il giornalista gli disse: «Beh, nel film ha ritratto dei fondali marini inquinati, pieni di immondizia…», il regista rispose: «Sì, perché i nostri fondali delle nostre coste sono così, no? Dovendoli disegnare, li ho disegnati come sono». Ed eccoci qui. Intendo dire che presumere grandi intenzioni anche dietro ogni piccolo dettaglio è tipico della critica. Dietro a uno spunto creativo di ogni autore può esserci anche solo una coincidenza, un fugace pensiero o una suggestione del momento, ma in genere i critici non accettano questo: i critici devono per forza vedere significati e intenzioni ovunque, perché dato che loro non creano nulla, in effetti non fanno altro che 'pensare' sulle creazioni altrui. Al contrario un regista, proprio perché è una persona che crea realmente le sue opere, spesso non ci sta ad arrovellarsi così tanto, non determina intellettualmente ogni singolo dettaglio. Nella creazione reale vi è anche spontaneità, sensibilità, estro, fantasia, impeto del momento. Soprattutto, Miyazaki Hayao è di certo un regista che ha spesso dimostrato e dichiarato di essere così. Quindi non credo che in questo film ci sia una goccia di 'interesse naturalistico', no. Il regista e il film stanno parlando di tutt'altro. Stanno parlando della bellezza di mezzi volanti, della loro fascinazione nel sogno di un bambino e poi della devozione della vita di un uomo nel realizzarli. Non c'è nulla di naturalistico nella bellezza del duralluminio estruso, anche se usato secondo una linea curva simile a quella della spina di uno sgombro.
A.C.
Bisogna aprire la mente per accogliere quello che l’altro desidera raccontarci. È vero, è il modo migliore per rispettare una persona, un’artista e la sua opera. Certo, è più facile utilizzare categorie preconfezionate, come fa molta critica cinematografica, piuttosto che sintonizzarsi su una sensibilità unica e irripetibile. Ma vale la pena di fare questo sforzo di comprensione, allo stesso tempo più immediata e più profonda. Parlando di sensibilità, viene spontaneo il passaggio al tema dell’amore. Mi sembra di capire che Kaze Tachinu sia anche una tragedia d’amore, la storia di una perdita incommensurabile.
[Yano Ayako, fidanzata di Hori Tatsuo morta di tubercolosi polmonare, cui è ispirato il personaggio di Setsuko nel romanzo Kaze Tachinu dello stesso Hori, poi trasposto nella Nahoko dell'omonimo lungometraggio di Miyazaki.]
G.C.
L'aspetto romantico, intendo amoroso, che c'è in questo film proviene dall'influenza esercitata sul soggetto da Hori Tatsuo. Nel senso che quanto si vede nel film del rapporto amoroso tra il protagonista Horikoshi Jirou e la sua innamorata Nahoko non è tratto dalla vita del 'vero' Horikoshi Jirou, la persona reale, ma da quanto narrato nel romanzo Kaze Tachinu di Hori Tatsuo, il cui contenuto era pure autobiografico. Credo che Miyazaki abbia inteso incorporare nella biografia animata di Horikoshi Jirou questo elemento storicamente estraneo perché sentiva il bisogno di raccontare anche la sentimentalità amorosa dell'uomo, proprio nel tentativo di "rappresentare un uomo a tutto tondo". Certo, dal punto di vista dell'opera biografica è una vera e propria follia. Dal punto di vista narrativo, credo invece sia uno dei più grandi successi di questo film e del regista. Si tratta di una storia d'amore in qualche modo tragica, certo, così come è in qualche modo tragica la storia della realizzazione del sogno di Jirou, che creerà dei bellissimi aerei, sì, ma anche degli strumenti di morte compartecipi dell'annientamento del suo paese. E così anche l'amore tragico di Jirou per Nahoko, più che essere il fulcro della storia, è in effetti raccontato come un aspetto della vita e della personalità di Jirou. Come lavora, Jirou? Come vive, Jirou? Come si rapporta ai suoi colleghi e ai suoi amici, alla povertà del suo paese, alla condizione di belligeranza? Come ama, Jirou? Tutte queste cose sono in qualche modo aspetti di una stessa figura umana, che, in ultima analisi, credo Miyazaki Hayao sia riuscito davvero a mostrare a 360°. Una cosa che personalmente ritengo difficilissima, persino per la letteratura, figurarsi per un film d'animazione! Certo dicendo queste cose mi viene da pensare che oltre ad avere infine compreso la necessità del realismo tragico di Ozu Yasujirou, così come ha dichiarato, forse oggi Miyazaki abbia infine compreso anche il senso profondamente umanistico e sociologico di Hotaru no Haka (La tomba delle lucciole) di Takahata Isao, un film che, sempre stando alle sue dichiarazioni, ai tempi pareva risultargli piuttosto indigesto…
~Parte Terza~
L'AUTORE E I PERSONAGGI, TRA IDEALI E REALTA'
A.C.
Molti dei protagonisti maschili miyazakiani sembrano oscillare tra escapismo e amore. Quindi, ti andrebbe di ripercorrere un po’ questa parabola, soffermandoci su alcune figure? Viene subito in mente Porco Rosso, che è l'anime più 'da otaku' di Miyazaki, con un protagonista escapista che fugge nel cielo così come Miyazaki fuggiva nel suo studio d'animazione, e una Fio Piccolo che è al contempo loli (redime i pirati buoni e cattivi, che non la toccano per non sporcare la sua purezza, e addirittura cura la maledizione di Marco baciandolo) e otaku degli aerei, quasi la rori definitiva per Miyazaki. Pagot viene però ancora descritto come un eroe romantico, in modo molto solidale. C'è poi Howl, che si isola del tutto dal mondo esterno nel suo castello magico, che fugge dalla guerra e dai rapporti con le altre persone. Howl è descritto in modo più duro, si trova ad essere criticato aspramente dalla sua maestra, ma alla fine viene anche lui salvato da Sophie (che stavolta però è tutto fuorché una loli). Per finire con Fujimoto, che altri non è che un Howl senza l’incontro con Sophie, un uomo che ha abbandonato proprio la sua condizione umana, andando a vivere nel mare. Fujimoto è descritto in modo molto più negativo dei precedenti, quasi come Miyazaki abbia inconsciamente iniziato a criticare tale condizione.
G.C.
Credo proprio che qui tu stia affondando le mani nel cuore di tutta la faccenda, ma mi pare ci sia anche un po' di confusione. Ovvero, tutti gli esempi che citi sono veri e validi, ma non sono sicuro che i termini della faccenda siano escapismo e amore — se l'escapismo è un moto che nasce da un idealismo infantile, del resto esiste parimenti una visione idealizzata dell'amore, anch'essa infantile, che certo Miyazaki conosce, lambisce e spesso mette in scena. Dunque varrà forse la pena mettere il tutto in ordine, in prospettiva, anche se temo che sarà un discorso lungo…
A.C.
Di fretta non ne abbiamo, lo spazio non ci manca…
G.C.
Ripartiamo allora dal discorso che facevo su 'idealità, ingenuità e infantilità' nella narrativa di Miyazaki Hayao. Io più che altro vedo la contrapposizione tra il realismo, il compromesso della vita reale e dell'adultità da un lato, e le dolci e ingenue idealità 'da fanciullino' dall'altro. La narrativa di Miyazaki Hayao ha sempre avuto questo aspetto idealizzante, vagheggiante, trasognato e quindi realmente infantile, direi. E l'autore stesso è sempre stato ben conscio di ciò. Per esempio, lui sapeva benissimo che il mondo di Tonari no Totoro non era certo il ritratto del Giappone degli anni in cui stava ambientando la sua storia. L'ha dichiarato schiettamente. In effetti, in quel film la presenza di Totoro e di altri fantasmi è un elemento più appariscente ma assai meno fantastico dell'idealizzazione della società rurale giapponese degli anni '50 che vi si rintraccia. Ovviamente per degli italiani come noi è difficile percepire una cosa simile, ma quella che Miyazaki racconta in Totoro non è la realtà giapponese: è un'ideale bucolico che non è mai esistito, né in ambiente né in personaggi. Siamo piuttosto noi appassionati italiani ad aver ricreato nelle nostre menti un’idea quasi mitizzata del Giappone, andando dietro alle idealizzazioni dei cartoni animati della nostra infanzia, tra cui quelli di Miyazaki e Takahata stessi (prima ancora dell'esperienza Studio Ghibli). In effetti i prodotti animati per bambini sono stati il principale referente su cui la nostra generazione (di italiani) ha costruito la propria 'idea del Giappone'…! È una cosa sciocchina, ma per esempio quando vedo in Ponpoko (di Takahata) dei ragazzi che buttano volgarmente (e realisticamente!) delle lattine vuote in una discarica abusiva con tanto di cartello di divieto di gettare rifiuti, mi viene d'istinto da pensare: "Ehi, è impossibile! Ma è il Giappone, quello! Non può essere!" (ride). Anche io sono un italiano che ha conosciuto il Giappone prima di tutto tramite tutta una produzione animata che idealizzava un sacco di situazioni. Credo che in questo modo si sia quasi creata, tra gli appassionati, quasi una 'mitologia del Giappone', che è divenuto nel subconscio di una generazione una specie di terra promessa dalle mille perfezioni ideali… a una distanza intercontinentale. Ma Miyazaki Hayao è un giapponese, chiaramente, ed era ben consapevole del fatto che probabilmente anche in Giappone non sono mai esistite bambine ideali come Satsuki, vicinati ideali come quelli dei Kusakabe, eccetera. Solo che lui non era interessato a ritrarre fedelmente la verità umana, come era invece Takahata. Persino i cattivi di Miyazaki, con poche eccezioni (tre in tutto, per l'esattezza), non sono persone totalmente corrotte, meschine, malvagie. C'è in Miyazaki questa deliberata volontà di raccontare un mondo migliore di quello reale, ovvero «un mondo come vorrei che fosse» (sto citando testualmente). È un'idealità che trascende la realtà, quindi, e la trascende verso una visione migliorativa delle cose e delle persone. Io credo che questa sia tipicamente un'istanza infantile, direi a rigore fiabesca, più che favolistica.
A.C.
Insomma è come dire che la famosa 'poesia dei mondi fantastici' di Miyazaki altro non è che la visione idealizzata del suo 'fanciullino' interiore…
G.C.
Sì, e la cosa vale anche per le psicologie dei personaggi che li popolano. A questo proposito vorrei citare un caso forse meno noto al pubblico, ma che considero in effetti esemplare. All'incirca nel periodo in cui stava realizzando Laputa, Miyazaki progettò un film che raccontava di un gigantesco panzer pilotato da un soldato di foggia suina (al solito), il cattivo della storia, a cui capitava di rapire una ragazza. Il soldato la imprigiona, ma la corteggia in modo molto platonico, regalandole un fiore fatto con un fazzoletto di carta. Originariamente il progetto prevedeva che la ragazza fosse poi salvata dal suo fidanzato e che insieme a lui distruggesse il carro armato del 'cattivo'. Ma la storia andò evolvendosi finché, nel finale, la fanciulla si sarebbe innamorata del soldato-maiale, ricambiandolo. A pensarci, questa trama mi pare in essenza il contrario di quella del film muto che Porco Rosso e Ferrarin guardano al cinema, quello che è un omaggio ai fratelli Fleischer, non ti pare? Quello del «un maiale che anche volando rimane un maiale» (come dice Ferrarin sul finale, contraddicendo una telefonata di Porco a Gina). Comunque, pure nella storia del panzer il cattivo era una specie di idealista disertore, celibe, che però viveva dentro questo carro armato gigantesco con trenta suoi nipoti. E in questo non trovi che tutto ricordi molto la 'società' dei pirati del cielo di Laputa prima, di Porco Rosso dopo? In ogni caso, ai tempi di questo progetto la regia fu assegnata a un collega più giovane di Miyazaki, che però gli diceva: «È impossibile, chiaramente quello che accadrebbe è che il pilota possiederebbe subito la fanciulla». Miyazaki rispose: «No, perché in questo modo la storia non sarebbe interessante». Erano in disaccordo su questa possibilità: ritrarre la realtà per quella che è, oppure accettare la possibilità di un'eccezione totalmente contraria? Miyazaki parlò dell'ipotetico caso di "un maiale su un miliardo" e spiegò che lui voleva raccontare quello, per quanto irrealistico, voleva credere a quello e tralasciare la realtà fattuale, che pure non ignorava.
Insomma, Miyazaki Hayao ha sempre ragionato così, in questo modo idealistico, fanciullesco, e ha sempre saputo di essere così. Del resto, come già accennavo, nel tempo è stato anche criticato proprio per questo suo modo di essere: soprattutto in tempi passati, in Giappone, lo si additava come un autore che non riusciva a rendere le sue storie in alcun modo verosimili, o i suoi personaggi sufficientemente profondi e credibili. Insomma, potremmo dire che lo si tacciasse di semplicismo, di fare sempre delle bambinate (ride). Dal canto suo, lui ha sempre ammesso il tutto come qualcosa che onestamente non poteva evitare di fare, come l'unico modo in cui riusciva a raccontare e animare delle storie, giustificando poi questa sua vera e propria necessità di fantastico-ideale nell'ottica di creare narrazioni che fossero fonte di speranza per le nuove generazioni, nonché un'occasione di evasione, di catarsi dalle difficoltà quotidiane. Volendo, siamo tornati alla sua vocazione più fiabesca che favolistica… ma in effetti, ragionando da adulti, non si può non rintracciarvi anche una componente escapista: quella di rintanarsi in un mondo migliore, un mondo che non è nella realtà, ma che ci piacerebbe vi fosse. Credo che questa sia stata una componente imprescindibile di Miyazaki Hayao, che ha continuato a rappresentare anche i 'cattivi' spesso come dei bambinoni scemotti, bonaccioni, anche realmente innocui. E i suoi rari protagonisti maschili adulti come degli antieroi escapisti.
A.C.
E siamo quindi arrivati all'escapismo dei personaggi di Miyazaki di cui ti chiedevo…
G.C.
Esattamente. In primo luogo, direi che è così il suo Lupin, quello de Il Castello di Cagliostro. Se ci pensi, lui regala a Clarisse proprio un 'fiore di carta', ma in effetti sarebbe un 'signor ladro', no? Un ladro su un miliardo, si direbbe. In quel film infatti Lupin non è per nulla il vero Lupin, quello di Monkey Punch, quanto piuttosto una creatura giocosamente etica che salva la fanciulla pura dalle mani del mostro lurido, ma alla fine la abbandona, perché sa di essere un ladro, di vivere in un mondo corrotto. Lo stesso Monkey Punch lo dichiarò, quando disse: «Questo non è il mio Lupin. Io non avrei potuto disegnarlo, è pieno di gentilezza. Il mio Lupin si potrebbe definire maligno, perché è un personaggio che per raggiungere l’obiettivo non bada ai mezzi, è cupido, ha in sé la bruttura degli esseri umani. Non avrei potuto disegnarlo così gentile». Spicca dunque, nella differenza tra le visioni dei due autori, la sensibilità idealisticamente fanciullesca di Miyazaki. Ma lo stesso canovaccio de Il Castello di Cagliostro lo si ritrova tale e quale in Porco Rosso, dove l'abbandono finale di Fio da parte di Porco è proprio lo stesso di Lupin con Clarisse. E Clarisse aveva già salvato Lupin da bambina, in una scena che è una riproposizione quasi perfetta dell'apparizione della Nausicaä omerica, con un bicchiere d'acqua che trasforma il Lupin originale — ritratto poco prima in un flashback in cui finisce praticamente ucciso a frecciate sulla schiena — in quello tutto diverso del film di Miyazaki. E quindi abbiamo Lupin di Cagliostro, Porco Rosso, Fujimoto… ma alla fine, tutti questi 'autorinnegati' umani sono anche loro degli otaku. Sono dei bambinoni viziati che si permettono il lusso di dire "non ci sto", di 'chiamarsi fuori da tutto e tutti' e di vivere nel loro mondo, ai margini di quello reale, che rinnegano perché troppo sporco per loro, per i loro personali ideali. C'è quel tipo di negazione, di rifiuto della realtà che è in Seita de La tomba delle lucciole di Takahata, dove però si carica di un valore del tutto diverso — quello di una colpa. Invece, sia Fujimoto che Porco Rosso sono in qualche modo eroici nel loro 'non compromettersi', sono persino misofobi, ci hai fatto caso? Porco Rosso si rifiuta di stringere la mano a Curtis, perché si definisce "un amante del pulito". E per Fujimoto, beh, lì è proprio una cosa dichiarata. La misofobia, la compulsiva paura di sporcarsi, ha un valore trasfigurato anche etico, morale: è un rifiuto di crescere, di accettare gli inevitabili compromessi della vita adulta. Mi viene di nuovo in mente il discorso al cinema del camerata Ferrarin, che sembra proprio voler salvare il suo vecchio amico dal suo pervicace attaccamento agli ideali dell'infanzia: «L'epoca degli aviatori di ventura è finita! Ormai non resta che volare sobbarcati da sponsor triviali come lo stato o la nazione!». Alla fine sarà proprio Ferrarin a salvare Porco, inviando un messaggio da controspionaggio a Gina. E perché proprio a Gina? Perché nella sua idealità, Miyazaki ha sempre diviso il genere femminile tra le idol, le fanciulle pure e intonse, e le donne vere, che hanno vissuto e sopportato la vita, hanno sofferto, e sono sopravvissute.
A.C.
Questa separazione tra l'aspetto giovanile e quello maturo della femminilità sarebbe quindi parte della visione infantilmente idealizzata dell'amore di cui dicevi?
G.C.
Sì, questa sentimentalità amorosa infantile, che parte proprio dal distinguere 'le brave fanciulline' dalle 'donne vissute', non è infatti contrapposta all'escapismo, anzi, ne è un risultato e uno strumento allo stesso tempo. Ora immagino che qualcuno griderà allo scandalo, magari sventolando il classico luogo comune dei 'giapponesi tutti pervertiti', ma un realtà vorrei far notare che questa è una dicotomia che esiste molto schiettamente in tutta la storia dell'arte e della narrativa umana. Mi si perdoni la digressione. Potremmo partire dalla citata Odissea, che comincia in medias res, quando Ulisse incontra Nausicaä, quella originale, ovvero dei Feaci, non della Valle del Vento. Nella grande narrazione omerica, Nausicaä è la vera, ultima tentazione di Ulisse. Nausicaä è la Kore, e cioè Persephone, o Psyke, è la vergine ideale. In Giappone potrebbero dire che è la rori perfetta, la 'fanciulla assoluta' (zettai shoujo), ma la sostanza è identica. Quindi dopo aver superato la tentazione della vita eterna, dell'eterna lussuria (da Circe e da Calypso, dove si intrattenuto un bel po', e non senza perdite), Ulisse subisce una tentazione ancora maggiore: più che protrarre in eterno il suo 'giro di giostra', la sua avventurosa giovinezza vissuta in negazione del letto muliebre, ricominciare proprio daccapo un altro giro tutto nuovo, perché ora potrebbe avere Nausicaä per sé. Credo che l'Odissea sia proprio la storia della maschilità recalcitrante alla crescita, la maschilità che divaga e si perde in una moratoria della crescita stessa, seguendo le proprie passioni e i propri ideali. Ma Ulisse se ne rende conto: per quanto si voglia fermare il tempo, il tempo non si ferma. Così torna a Itaca, affronta la sua ordalia e ritrova la sua Penelope. Penelope che in effetti non poteva opporsi come lui allo scorrere del tempo, perché sapeva si sarebbe dovuta risposare, e in qualche modo preparava le sue nuove nozze, ma intanto disfaceva nottetempo il suo filato. Quindi, Penelope com'è? È virtuosa come Nausicaä? È ormai viziosa come Circe? Ebbene, lei è entrambe e nessuna delle due cose. Non può scegliere comodamente di essere 'buona' o 'cattiva', come sarebbe facile pensare. Questo genere di dicotomie nette credo siano appunto molto infantili, molto comode, e anche molto maschili. Ma le donne vivono nel tempo, e cambiano, e vivono. E così c'è stata probabilmente una Nausicaä in ogni Circe, e potenzialmente ogni Nausicaä potrebbe divenire una Circe. Ci sono anche altri esempi letterari molto brillanti, su tutti mi viene in mentre Traumnovelle di Schnitzler, o l'Ulysses di Joyce, oppure in ambito artistico lo Mnemosyne di Aby Warburg, ma direi che per Miyazaki Hayao è sempre stato così: c'è stata una Lana in ogni Monsli, una Clarisse in ogni Fujiko, una Nausicaä in ogni Kshana, persino una Sheeta in ogni Dola, soprattutto una Fio in ogni Gina, e magari una San in ogni Eboshi, persino una Chihiro in ogni Yubaba. E dunque a Marco Pagot, come a Ulisse, è andata bene. Alla fine lui riesce a venire toccato dalla purezza di Fio, imparando la lezione, e a tornare umano nello spirito e nel corpo, per poi tornare dalla sua "fu-Fio" (hai presente il flashback con la gonna che si alza in volo?), ovvero Gina. Ma per esempio al Principino, quello di Saint-Exupéry, andò di certo molto peggio. Perché il Fennec, che come saprai in francese si dice sempre renard (du desert), e che Miyazaki ha trasformato nello scoiattolo-volpe (stesse orecchie, stessa riluttanza all'addomesticamento — l'indice di Nausicaä sanguina — e stessa assoluta fedeltà), ha semplicemente ragione; ma non c'è via di ritorno dalla Rosa, che il Principino ha abbandonato perché "c'erano tante cose da conoscere, posti da vedere" (proprio un Ulissino, nevvero?), quindi non resta che il suicidio, per pietà di un serpente caritatevole. Espiazione. Finale. E anche a Fujimoto è andata proprio male, direi. Credo che Fujimoto sia il risultato di una riconsiderazione molto amara, da parte di Miyazaki: concettualmente è il frutto degli stessi identici presupposti di Porco Rosso, ma il suo sviluppo è diametralmente opposto: se Porco Rosso era l'antieroe romantico proprio 'figo' (kakkoii), Fujimoto è un uno stralunato eremita che finisce come uno sconfitto totale, tutto solo, abbandonato da tutti, in primis dalla sua amata figlioletta.
Insomma Miyazaki, come spiegava anche Suzuki Toshio proprio ai tempi di Ponyo, vede da sempre il mondo come "un mondo di maschi e femmine". Anche questa è una dicotomia molto idealizzata delle cose, direi piuttosto infantile, viene da pensare alla classe delle elementari 'di maschietti e femminucce'. E in Miyazaki spesso è proprio così: gli uomini sono tutti bambinoni che ingannano il loro tempo, sono tutti degli otaku, e invece le femmine, siccome non possono ingannare il tempo, o sono ancora fanciulle o sono ormai donne — e di mezzo c'è la sofferenza della vita vera, che le femmine non sembrano poter evitare. In effetti, avevo inteso che la sindrome di Wendy, equivalente logico di quella di Peter Pan, piuttosto che essere un restare bimba in eterno fosse il diventar mammina anzitempo… per i Bimbi Sperduti, no? Beh, proprio alla conferenza stampa di presentazione di Kaze Tachinu, Anno Hideaki, che come saprai ha doppiato il protagonista del film e di certo è un altro che di otaku se ne intende, ha detto testualmente: «Penso che con questo film Miya-san sia diventato un pochino adulto. Sì, solo un pochino». Il che mi pare assai eloquente, specie se pensiamo che, anni prima, lo stesso Anno Hideaki aveva affermato: «In Giappone ci sono solo bambini. Questo è un paese di bambini». Ebbene, credo che tipicamente gli otaku non si rendano conto che tra una rori e una donna adulta non c'è una differenza sostanziale, c'è una differenza temporale. La mentalità otaku disgiunge quei due mondi come due generi, adorando il primo come un idolo, senza toccarlo, senza sporcarlo (classica forma di erotofobia infantile), e disprezzando e allontanando il secondo, già contaminato, già lordato dalla vita. Questo è un modo tutto maschile e infantile di idealizzare la donna, no? Metterla su un piedistallo fintanto che appare virtuosa, metterla sotto una campana di vetro, per ammirarla, per compiacersene esteticamente, come di un modellino, come di una figure, un pupazzetto, una bambolina. Qualcosa dunque che non vive… e che quindi non può proprio essere una donna reale. La meschinità degli otaku, e anche di molti artisti che hanno questo tipo di mentalità, credo stia proprio nel non vedere che questa disgiunzione non può esistere. Direi dunque che un certo tipo di adorazione della purezza femminile è anche in Miyazaki Hayao, pensiamo ancora una volta a tutti i suoi pirati del cielo, infatuati di Sheeta e di Fio, o persino a Jigen e Goemon e Zenigata che sono tutti toccati ed estasiati dal candore di Clarisse… sono cose che se pensate in un'ottica lasciva potrebbero anche disturbare un poco, no? Per contro, trovo che cose come il flashback sull'infanzia di Gina dimostrino che Miyazaki sapeva benissimo che in Gina vi era stata una Fio, così come certi suoi momenti empatici ci fanno sapere che in Kshana vi era stata una Nausicaä. Ed è proprio per questo preciso motivo che io mi sento di stimare Miyazaki Hayao. Se così non fosse stato, non riuscirei ad accettare le sue storie come 'cultura'.
A.C.
Passando per la letteratura occidentale, hai fatto un lungo giro per arrivare a descrivere un certo modo di essere dei mondi e dei personaggi di Miyazaki. Quindi diciamo: escapismo come moto di rifiuto infantile alla crescita, da cui il rifugio nella purezza dell'idealità che non accetta compromessi e si chiama fuori dallo sporco mondo degli adulti — persino nell’esperienza amorosa, che esiste nella sua versione anch'essa infantile e idealizzata.
G.C.
Direi che è un ottimo riassunto del succo del tutto, sì. Spero che le argomentazioni e i rimandi usati siano almeno serviti a rendere tutto il discorso profondo e convincente, altrimenti sarebbero bastate le tue cinque righe…! (ride)
A.C.
Beh, visto il lungo excursus si sentiva il bisogno di fare un punto della situazione e… a proposito! Partendo da Lupin, poi tra Marco Pagot e Fujimoto ti sei perso Howl…
G.C.
Hai ragione, scusa. Il fatto è che Howl è un caso un po' peculiare, in primis perché non è un personaggio originale di Miyazaki. Tutto il film, anche in questo caso, è stato chiaramente figlio del momento in cui l'autore l'ha realizzato, in tanti modi. Per esempio l'elemento della guerra vi fu proprio incorporato a seguito dell'impatto emotivo che la situazione internazionale del tempo ebbe su Miyazaki Hayao. Ma soprattutto, in quel periodo Miyazaki aveva iniziato a pensare molto alla vecchiaia, forse a sentirsi anziano nel corpo, mentre chiaramente il suo spirito si sentiva ancora molto giovanile, sempre quello di un bambino, direi. Per questo, è rimasto affascinato dalla storia dell'animo di una ragazzina imprigionato nel corpo di un'anziana, in cui per di più si sente invece del tutto a suo agio, visto che non era mai riuscita a vivere la sua giovinezza. Per contro, Howl è un giovane che è già diventato un uomo, ma è un escapista assoluto e vive come un bambino in fuga dalle responsabilità. È molto bello che i due si curino a vicenda, risincronizzando le loro età interiori con quelle anagrafiche: Sophie diventa la fanciulla che vorrebbe mollare tutto per scappare col suo innamorato, e lui diventa l'uomo che, no, deve andare a combattere perché ora ha una donna da difendere. È una visione estremamente favolistica, ideale e anche tradizionalistica dei ruoli dell'uomo e della donna, non trovi? La cosa buffa è che Miyazaki, ai tempi, dichiarò di sentirsi vicino alla psicologia di Howl, ammettendo quindi di sentirsi nella condizione di un giovane idealista ed escapista, nonostante l'età.
A.C.
Certo che tra Porco Rosso, Howl e Fujimoto, alla fine queste tre figure rappresentano come degli avatar (involontari o meno) dello stesso Miyazaki… anche per Horikoshi Jirou di Kaze Tachinu può forse dirsi lo stesso?
G.C.
Ovviamente io non posso sapere con certezza se Miyazaki abbia deliberatamente inteso sovrapporre le proprie storia, psicologia e personalità a quelle di Horikoshi Jirou, o se abbia 'semplicemente' proiettato il sé su una figura a lui molto cara, con la quale ha evidentemente molto empatizzato, ma col suo ultimo film è davvero riuscito a mostrare la psicologia di un otaku nel modo più efficace e veritiero che io abbia mai visto. Direi che ha in qualche modo bilanciato la giovanile apologia di quella mentalità, per come veniva fatta in Porco Rosso —dove come dicevamo il protagonista escapista è l'antieroe romantico e outsider di una umanità disdegnata perché troppo corrotta — e la sua riconsiderazione anziana e dispregiativa che poi ne aveva fatto col personaggio di Fujimoto, l'allampanato idealista che pure si rintana in una rocca lontana dalla stessa 'umanità sporca', ma che invece di essere 'figo' è al contrario solo una figura grottesca abbandonata da tutti. In effetti quelle due figure sono proprio due opposti ritratti di un'identica psicologia, quella dell'otaku, che rifiuta la società degli uomini perché ne è schifato, e fugge e si rifugia in un mondo di idealismi infantili e del tutto indisponibili al compromesso. Un rifiuto dell'adultità. Credo che Horikoshi Jirou, per come ce lo presenta Miyazaki, sia esattamente la stessa cosa, solo rimirata con un occhio infine onestamente distaccato e bilanciato nel giudizio sulle cose, infine ritratta con onesto realismo, nelle sue eccellenze e nelle sue miserie.
A.C.
Quindi — per citarti — Miyazaki è anche un uomo che «è fuggito nel suo studio d'animazione, nel suo regno di fantasia. E ha continuato a parlare delle sue passioni, a disegnare i suoi mondi ideali popolati dalle sue ragazzette ideali per tutta la vita. Mentre una moglie cresceva a casa un figlio che poi avrebbe detto di non conoscere suo padre come padre». Come si inserisce in questo senso Kaze Tachinu? Qual è il rapporto di Horikoshi Jirou con l’amore?
G.C.
Anche questa è una cosa molto interessante, un punto chiave. Come dicevamo la componente di 'storia d'amore' in Kaze Tachinu è innestata nella biografia di Horikoshi Jirou prendendola di peso dall'omonimo romanzo di Hori Tatsuo. Ma Horikoshi Jirou, dicevamo, è la perfetta rappresentazione di una psicologia dell'otaku, ritratta con grandissimo realismo e onestà intellettuale. Come ama, dunque, questo otaku che si chiama Horikoshi Jirou? Molti commentatori hanno notato il suo 'orrendo egoismo' nei confronti di Nahoko, e guardando il film è facile capire perché. Ma la verità è che Horikoshi Jirou, in questo film, ama realmente nell'unico modo in cui potrebbe: come un bambino cresciuto più nel corpo che nella mentalità. Ama in modo molto puro, anche molto molto ingenuo. Nelle situazioni reali Jirou è sempre impacciato, e tutti i personaggi gli rinfacciano di essere "una persona dal cuore di ghiaccio", o comunque in qualche modo 'fuori dal mondo'. In effetti Jirou vive 'nel suo mondo', proprio come un otaku, e in quel mondo ha ritagliato uno spazio per Nahoko, che però non è tutto il suo mondo.
Si tratta di una cosa molto realistica e quindi forse difficile da accettare. Le persone vanno al cinema per vedere grandi storie d'amore assoluto che poi, nella normale meschinità umana, loro stessi non sarebbero mai in grado di vivere — ma il cinema è finzione, e la finzione è inganno, no? Beh, Horikoshi Jirou è più realistico, quindi può anche dare fastidio. Il rapporto con Nahoko lo vede in realtà assolutamente succube, sottoposto da un punto di vista psicologico. Decide tutto lei, lei fa ciò che vuole lei stessa, quando e come lei stessa decide. Nahoko è un personaggio intellettualmente molto emancipato, davvero molto forte, fin da quando Miyazaki ce la presenta ancora bambina. Al contrario, come ogni otaku, Jirou è straordinariamente debole. Ci sono delle scene che mi commuovono alle lacrime, non perché siano tristi o patetiche, ma perché sono troppo vere. Come quando Jirou torna a casa al mattino dopo l'ennesima notte passata al lavoro; dopo aver infine completato il suo prototipo, crolla di stanchezza affianco alla mogliettina e le dice spossato: «È tutto merito tuo… perché ci sei stata». "Ci sei stata", semplicemente questo: sei esistita per me, sei stata presente nella mia vita e nella mia mente. È la figura femminile materna che dà sicurezza al bambino, che permette al bambino di avere la forza per riuscire a fare quello che vuole fare. La psicologia di Jirou, lo si vede chiaramente all'inizio del film, è del resto figlia di questo stesso tipo di madre. È fantastico quanta verità umana ci sia in questo film! E nel mezzo, il collega e amico di Jirou, che si chiama Honjou ed è un uomo maturo, per nulla otaku, un po' il Ferrarin della situazione, annunciando il suo matrimonio a un sorpreso Jirou aveva detto all'incirca: «Bisogna avere un focolare domestico da trascurare, per poter dare tutto il proprio meglio sul lavoro. Anche questo è un paradosso». Mi sembra una battuta assai eloquente, nella sua pungente, pur autoironica provocazione.
~Parte Finale~
LO STILE, LE FIRME E IL FUTURO DELLO STUDIO
A.C.
Il doppiaggio, la 'viva voce', è da sempre un elemento fondamentale, più che un valore aggiunto, di un'opera di animazione. Per Kaze Tachinu è stato selezionato nel ruolo di Horikoshi un doppiatore non professionista, col piccolo dettaglio che — come anticipavi tu stesso — si tratta di Hideaki Anno. Animatore, regista di animazione e dal vero, spirito innovativo al punto da essere considerato il capostipite della Nuova Animazione Seriale, le sue esperienze di doppiaggio si limitano però a una piccola apparizione nell'anime Abenobashi (ha recitato parti cinematografiche in film tra cui Natsu no Mori, con la moglie mangaka Moyoco). Ad ogni modo Miyazaki — così come Takahata — sembra prediligere voci lontane dallo stile di recitazione tipico del doppiaggio di animazione giapponese, attingendo dalle fila degli attori teatrali e cinematografici. Il rapporto tra Anno e il Ghibli è comunque di vecchia data, e risale all'esperienza di quest'ultimo come animatore in Nausicaä della Valle del Vento, per cui Anno curò la scena del kyoshinhei, il Soldato Titano, prodromo del design degli Eva.
G.C.
Se ben ricordo, Anno Hideaki aveva doppiato anche il gatto paffuto (MiyuMiyu) in FLCL, oltre ad aver recitato nei panni del protagonista in Kaettekita Ultraman, un live-action realizzato dall'antica DAICON FILM, progenitrice della GAINAX. Comunque, la ben nota predilezione di Miyazaki per le voci di 'non doppiatori di animazione' mi sembra in qualche modo un'altra contaminazione neorealista venuta da Takahata Isao. In questo ambito, lui (Takahata) è sempre stato un vero sperimentatore. Si potrebbe parlare di 'espressionismo', ma già in Hotaru no Haka i due bambini protagonisti erano interpretati da attori la cui età anagrafica era assai prossima a quelle dei loro personaggi (e la piccola Setsuko ha quattro anni!), una cosa incredibile per l'animazione giapponese dei tempi. Poi, fin da Omohide Poroporo Takahata ha preso a registrare i dialoghi prima della realizzazione delle animazioni e studiava le movenze dei visi degli attori del cast per poi riprodurle nel disegno come rughe d'espressione. In quel caso, le voci vennero fornite da giovani attori di trendy drama. Ancora in seguito, per Ponpoko, Takahata si rivolse ad attori di teatro rakugo. E anche Miyazaki ne è stato contaminato, andando alla ricerca di voci e interpreti che potessero far suonare le battute dei suoi film come 'verosimili' piuttosto che 'belle'. Ci sarebbero infiniti esempi, dal padre di Satsuki e Mei in Totoro, doppiato da Shigesato Itoi (famoso e poliedrico copywriter, che lavorò anche per lo Studio Ghibli), fino al caso di Mononoke Hime, che ebbe un cast davvero stellare, ricco di attori di spicco, e che segnò un punto di svolta imprescindibile. Di seguito, la piccola Chihiro 'doppiata da una bambina vera' fece davvero molto scalpore in Giappone, dove numerosi fan dell'animazione sulle prime non ne apprezzarono la resa recitativa realistica. Ma ormai il sentiero era segnato, sarebbe stato seguito da tutto lo Studio Ghibli, e non si sarebbe mai più tornati indietro.
Ovviamente avere KimuTaku degli SMAP (il celebre Kimura Takuya) come voce di Howl, o Okada Jun'ichi dei V6 come voce di Arren prima e Kazama Shun poi fa sempre gioco alla macchina pubblicitaria, non c'è bisogno che ce lo spieghi Suzuki Toshio, ma il punto di espressionismo recitativo resta. Nel caso di Anno Hideaki, Miyazaki voleva una voce particolare, una voce da intellettuale del passato, ma anche la voce di una persona poco assertiva, anzi proprio remissiva, riservata. La voce di un otaku perfetto, no? A suggerire il nome di Anno Hideaki è stato Suzuki Toshio, manco a dirlo. Il tutto è stato persino documentato e reso pubblico in alcuni dei numerosissimi servizi speciali che la televisione giapponese ha dedicato all'uscita di Kaze Tachinu. Quando Anno ha poi fatto il provino, Miyazaki l'ha subito confermato come voce del protagonista. In particolare gli ha detto che "i doppiatori dicono sempre di aver capito il senso di una battuta, ma poi non hanno capito niente, e la pronunciano in un modo che già avevano in testa". Da direttore di doppiaggio, posso ben capire cosa intende Miyazaki: il modo in cui ogni battuta viene pronunciata dovrebbe essere il frutto diretto del senso della battuta stessa, della situazione, del sentimento che il personaggio prova nel pronunciarla. Ma il doppiaggio vive spesso di manierismo, di 'ciò che piace al pubblico', di 'cosa suona bene', di 'la bella voce fascinosa'. Come Miyazaki, credo che queste siano tutte istanze prive di valore reale. E a conferma di ciò, a dispetto dei miei dubbi iniziali, ho davvero adorato l'interpretazione di Anno Hideaki come una delle cose più belle di tutto il film. Del resto, se un attore, una persona che ha scelto di fare l'attore, è un uomo che in qualche modo vuole esporsi, la psicologia dell'otaku è il contrario: un uomo che si sente a disagio nella società, che vorrebbe nascondersi nella sua introversione. Credo che Miyazaki e Anno, vecchi amici e vecchi colleghi, senpai e kohai, si siano davvero intesi a meraviglia nel dipingere le aspirazioni e le emozioni di un personaggio che in fondo gli assomiglia così tanto. Abbiamo già citato che Anno ha poi dichiarato di aver compreso che «creare un aeroplano e creare un film d'animazione sono un po' come la stessa cosa, nei termini del dare forma a un sogno». E come dicevo, poi ha anche dichiarato che con questo film «Miya-san è diventato un pochino adulto. Solo un pochino». E credo che si siano anche divertiti molto, sicuramente così appare nei molti dietro le quinte che i media giapponesi hanno già diffuso sulla faccenda.
A.C.
Il 23 novembre 2013 è uscito nelle sale nipponiche Kaguya-Hime no Monogatari (La storia della principessa Kaguya), il primo film di Isao Takahata dopo Houhokekyo Tonari no Yamada-kun di quattordici anni fa. L'opera era inizialmente prevista per l'estate scorsa, unitamente al nuovo film di Hayao Miyazaki, in una riproposizione della doppietta Tonari no Totoro – Hotaru no Haka del 1988. La storia riprende la favola classica Taketori Monogatari, che racconta della Principessa Splendente (Kaguya-Hime), la bambina grande quanto un pollice trovata da un tagliatore di bambù nell'incavo di una canna risplendente. Le scene che si sono potute vedere del lungometraggio sembrano far pensare a un'opera di valore artistico indiscusso, per palati fini, anche se forse non a un blockbuster. Che idea ti sei fatto? Takahata, all'interno della Ghibli, rappresenta davvero l'autore della nostalgia verso un passato perduto? Questa volta si è rifugiato nell'immaginario di una fiaba del decimo secolo ampiamente conosciuta da tutti i giapponesi, rifacendosi inoltre allo stile classico giapponese della celebre serie di rotoli di pergamena illustrata intitolata Chōjū-Jinbutsu-Giga. Un duplice richiamo alla tradizione…
G.C.
Partiamo dal contenuto del film in questione, che non ho ancora visto, ma su cui ho cercato di documentarmi quanto più possibile. Si tratta di una rilettura del classico dei classici della narrativa popolare giapponese, in cui un autore intellettuale come Takahata Isao ha cambiato il punto di vista da esterno a interno alla protagonista femminile: la storia non è più quella del tagliatore di bambù che trova e alleva la principessa, ma della principessa che viene trovata e allevata dal tagliatore di bambù. Il regista ha dichiarato che «se Heidi fosse stato ambientato in Giappone, con una protagonista giapponese, probabilmente sarebbe stato così». Dunque credo che, come ai tempi di Hotaru no Haka, Takahata Isao abbia usato l'impianto di una storia precedente, in questo caso sinanco archetipica, per trasfigurarne una riflessione sulla psiche e la sociologia delle persone, in questo caso di una fanciulla. Lo slogan ufficiale del film recita: "Il perpetrato delitto e la pena di una principessa" — in chiara citazione della terminologia del grande classico di Dostoevskij, Il delitto e la pena (erroneamente reso in italiano come Delitto e castigo, ma in realtà inteso dall'autore come una ripresa del titolo del celebre libro di Beccaria, Dei delitti e delle pene), un vero caposaldo della formazione letteraria contemporanea in Giappone, forse per il tenore sottilmente karmiko della storia. Ad ogni modo, quello che si è potuto vedere nei sei minuti del Prologo del film di Takahata, ovvero un'anteprima contenuta in un DVD/BR promozionale distribuito in Giappone in un milione di copie, sembra in effetti coprire tutto lo sviluppo psicologico di una bambina nata 'libera', cresciuta in libertà, per poi giungere sino all'adolescenza e al rifiuto delle convenzioni sociali imposta alla sua femminilità. Non manca la classica scena della corsa in cui la protagonista si spoglia delle vesti costrittive di una civiltà apparente e imposta (così Heidi, così Shoukichi). Ho il sospetto che Takahata abbia anche cambiato il finale della celebre favola, rendendo il 'ritorno alla Luna' della principessa una metafora di un effettivo suicidio di espiazione, un po' a là Petit Prince. Ma queste ultime sono solo le mie suggestioni, illazioni di scarso valore. Di certo invece c'è il bellissimo brano canoro del film, intitolato Le memorie della vita (Inochi no Kioku), dove la delicata ma penetrante voce di Nikaidou Kazumi recita: «Ogni cosa d'adesso è ogni cosa del passato». Mi resta sempre un forte senso di riconsiderazione dell'esperienza di vita di una persona.
Personalmente non vedo l'ora di vivere l'esperienza di vedere questo film al cinema. Valutando quel che so del suo contenuto e della sua forma, non credo che Takahata si sia adagiato in alcun modo su nulla come la maniera della tradizione, anzi tutto il contrario: ha spinto la sperimentazione artistica nel campo dell'animazione travolgendone ogni canone. Questo comporta anche il rischio di irretire il pubblico abituato da sempre a un certo tipo di animazione giapponese, anche e soprattutto in Giappone. E mi pare peraltro che Kaguya-Hime no Monogatari sia anche il film animato giapponese più costoso di sempre. Prodotto con la spinta di un finanziatore mecenate che più che al profitto era interessato «a vedere un ultimo film di Takahata Isao prima di morire» (e purtroppo non ce l'ha fatta, venendo a mancare durante il lungo corso della realizzazione della pellicola), costato al suo regista ben otto anni di lavoro, con una prima sceneggiatura prevedeva una durata di tre ore e mezza, poi ridotta a 'soli' 137 minuti: questo film sembra del tutto impossibilitato a coprire le sue spese di produzione, da sempre. Si tratta di un film davvero monumentale, fatto con il più puro spirito espressionista e intellettualmente comunicativo, come è nello stile di Takahata Isao, che proprio per questo è sempre stato uno sperimentatore. Ho la sensazione che Kaguya-Hime no Monogatari si rivelerà nel tempo la più grande svolta nella storia dell'animazione giapponese (e mondiale) dai tempi di Hols no Daibouken.
Anche per Takahata gli anni si fanno sentire. Viene spontaneo chiedersi del futuro della carriera di Tahakata, allora. Certo, non ha mai raggiunto (nel bene e nel male) l'esposizione mediatica mondiale valsa a Miyazaki da Mononoke Hime, quindi non so bene nemmeno se valga fare un paragone. Però i due sono colleghi praticamente da sempre, ha una certa età l'uno e ce l'ha l'altro. È lecito aspettarsi che anche Takahata lentamente sparisca dalla scena, senza che ce ne accorgiamo, in punta di piedi, con la discrezione che gli è sempre stata propria? In fondo, contrariamente a Miyazaki, Takahata non dovrebbe 'spiegare' niente a nessuno, o quasi.
G.C.
Takahata Isao non è un regista adatto a questi tempi. Miyazaki Hayao lo è stato e lo è a tuttora, con la sua fantasia debordante che è davvero perfetta per una società postmoderna tutta intenta a darsi all'escapismo trovando nei miti d'infanzia un rifugio dalla crescita personale e sociale. Soprattutto, poiché Miyazaki Hayao è una persona intelligente e artisticamente responsabile, nonché dotata di uno squisito senso estetico, i suoi film sono dei perfetti giocattoli che includono un intrinseco alibi per degli adulti che si vogliano ingannare di non stare guardando dei giocattoli, ma delle 'poetiche opere d'arte'. Al contrario, Takahata Isao è un vero intellettuale, a mio modo di vedere uno dei due grandi intellettuali della storia dell'animazione giapponese (l'altro essendo Tomino Yoshiyuki). Proprio per questo Takahata Isao è stato celebrato negli Anni Settanta e Ottanta, quando la società aveva ancora un piede nella più seria modernità e non era ancora del tutto bollita dal consumismo abulico della postmodernità. Ma inevitabilmente, con l'avanzare di quest'ultima mentalità, la personalità artistica di Takahata si è progressivamente ritrovata in controtendenza, o almeno questo è il mio personale sentore. Inoltre, e questo è invece certo, come molti intellettuali Takahata Isao è un perfezionista estremo, un revisore infinito della sua opera, un pensatore che forse non sente nessuna reale impellenza creativa. È famoso per aver spesso (sempre?) protratto e ritardato drasticamente la realizzazione delle sue opere cinematografiche, sin dai tempi di Hols no Daibouken, capolavoro assoluto e imperituro, ma fiasco commerciale tremendo, con una produzione che si era ingigantita contro ogni preventivo di tempo e di denaro. Quindi, benché al contrario di Miyazaki si sia espressamente votato a non dichiarare il suo ritiro, non credo davvero che Takahata Isao avrà modo di dedicarsi a un nuovo film, specie considerando che il suo ultimo capolavoro gli è costato appunto otto anni di lavoro. D'altro canto, però, Takahata è un regista di animazione che non disegna di suo pugno, non è un animatore, quindi forse per lui la realizzazione di un lungometraggio è comunque meno fisicamente gravosa che per Miyazaki Hayao, quindi chissà… la popolazione giapponese mostra da sempre vecchietti estremamente longevi e molto arzilli!
Un'ultima domanda sul futuro dello studio Ghibli. Dopo la tragica scomparsa di Yoshifumi Kondou, e a parte i margini di miglioramento di Gorou Miyazaki, la cui poetica non è forse ancora ben definita, lo studio sembra essere in buone mani, se pensiamo all'incoraggiante affacciarsi sulla scena di nuove leve come Yonebayashi (Karigurashi no Arrietty). Sei tranquillo anche tu, in prospettiva?
G.C.
Da un punto di vista artistico, potremmo dire che Yonebayashi Hiromasa, animatore di talento e spicco formatosi in seno allo studio Ghibli e poi promosso alla regia, potrebbe essere un erede di Miyazaki Hayao, di quella concezione artigiana di regia d'animazione. Sicuramente Arrietty, nato da un antico progetto di Miyazaki stesso, si è dimostrato come un film delicato e gentile, molto sensoriale ed estremamente 'animato', proprio come nella tradizione miyazakiana. Il prossimo film di Yonebayashi, in uscita in Giappone proprio quest'anno e intitolato Omohide no Marnie (tratto dal libro di narrativa inglese When Marnie Was There), potrebbe darci presto conferma dell’effettivo talento del giovane regista. Ai suoi antipodi abbiamo Miyazaki Gorou, che differentemente dal padre ha una personalità molto più intellettuale che grafica, che non è un animatore e che valuta la realizzazione di un film in primo luogo come un'istanza comunicativa. In effetti proprio Miyazaki Gorou è probabilmente il più grande estimatore di Takahata Isao che io possa immaginare, cosa piuttosto evidente nello stile dei due lungometraggi da lui firmati, l'acerbo ma comunicativamente poderoso Ged Senki (I racconti di Terramare) e l'assai più raffinato Coquelicot-Zaka kara (Dalla Collina dei Papaveri), che, pur basato non solo su un antico progetto del padre, ma anche sviluppato da una sua sceneggiatura realizzata appositamente per il film, pure si discosta drasticamente dalle atmosfere trasognate tipiche delle produzioni di Miyazaki Hayao. Personalmente sono un grande estimatore di Miyazaki Gorou, che vedo come l'unico possibile successore di Takahata Isao: un regista che fa animazione non 'per fare animazione' in quanto tale, ma per usare l'animazione in una comunicazione culturale reale.
Gli eredi dei due grandi maestri, quindi, tutto sommato potrebbero già essere emersi. Tuttavia, al di là delle preferenze personali, credo che la questione sia ben altra. Il fatto è che il modo produttivo (o modello di business) dei film dello Studio Ghibli, realizzati artigianalmente con quella qualità da mani giapponesi, risulta oggi anacronistico. Il mondo dell'animazione giapponese è cambiato perché al giorno d'oggi non è più possibile produrre disegni animati di alta qualità realizzati al 100% manualmente in Giappone e rientrare dei costi di produzione. L'uso del computer e la delocalizzazione del lavoro sono subentrati anche in questo settore, spesso come mali necessari. La cruda realtà è che l'animazione 'fatta a mano' è un lavoro duro ed estenuante, tipico da paesi ancora in fase si sviluppo economico, di 'boom di produttività'. Per intenderci: fino agli Anni Ottanta le produzioni americane delocalizzavano il lavoro bruto dell'animazione in Giappone, quando il Giappone viveva ancora dell'inerzia del superlavoro del miracolo economico postbellico, ma quel periodo storico per il Giappone è finito. L'animazione giapponese ha quindi dovuto rinnovare il proprio modello di business, oltre ad essere andata incontro a una crisi di tipo creativo: i nuovi giovani giapponesi non riescono a vedere il mondo professionale dell'animazione come un mondo in cui trovare il lavoro che gli permetta di sostentarsi in una società ormai ricca e affermata come quella giapponese. Chi lo fa, lo fa perché è lui stesso un appassionato di animazione a priori, ma come risultato il mondo dell'animazione risulta sempre più autoreferenziale e sterile. Non ci sono nuovi autori realmente maturi, adulti, portatori di un pensiero giovane ma serio e assertivo, come poteva essere ai tempi del giovane Takahata, o del giovane Tomino, o del giovane Miyazaki Hayao. Questa tendenza ha in effetti già iniziato a manifestarsi quando la prima generazione di ragazzi dell'anime boom giapponese (fine '70, inizi '80) ha iniziato a passare dal lato dei consumatori a quello degli autori, e sto pensando a autori come a Anno Hideaki e studi come la GAINAX, in primis.
Quando i giovani Takahata Isao e Miyazaki Hayao iniziavano a muovere le loro prime mosse nel mondo dell'animazione, ai tempi di una Toei Douga scossa dalle lotte sindacali degli 'operai' animatori, erano spinti da una grande motivazione personale. Nel 1968 uscì il primo capolavoro figlio di quelle straordinarie energie: si trattava del lungometraggio Taiyo no Ouji – Hols no Daibouken (trad: "La grande avventura di Hols, il principe del Sole"). Il giovane regista Takahata voleva fare un film d'animazione che non fosse rivolto, per stile e contenuti, ai soli bambini. Il giovane animatore Miyazaki voleva fare un film d'animazione di alta qualità, che non sembrasse un sottoprodotto a confronto con l'animazione occidentale. Erano due giovani molto influenzati dalla cinematografia europea, più che dalla tradizione disneyana, e volevano usare il mezzo espressivo chiamato animazione per realizzare, con la loro opera artigianale, un prodotto dal contenuto culturale e artistico. Ci riuscirono: il loro capolavoro, con una produzione durata tre anni invece che gli otto mesi preventivati, benché condannata al fiasco commerciale cambiò per sempre il mondo dell'animazione giapponese. Hols no Daibouken era stato realizzato con grande maestria, con grande sforzo, con grande impeto artistico, racchiudendo al tempo tutta l'esperienza dall'ancora giovane animazione giapponese e spingendola a un tempo oltre i suoi limiti. Ma i tempi da allora sono molto cambiati. Se ci pensiamo, l'animazione disegnata è davvero un lavoro come a cavallo tra artigianato e industrialità. La mole di lavoro manuale svolto dai singoli artigiani coinvolti è impressionante. Fare dei lungometraggi animati alla 'vecchia maniera', come ha sempre continuato a voler fare lo Studio Ghibli, comporta oggi dei costi tanto esorbitanti che i film così prodotti hanno poi l'effettiva necessità di risultare non solo grandi successi di pubblico, ma dei veri e propri fenomeni. Infatti, se lo Studio Ghibli ha potuto sino ad oggi continuare a produrre i suoi film è stato solo per l'anomalia intrinseca alla produzioni firmate Miyazaki Hayao, un autore ormai tanto consacrato in Giappone da costituire una categoria a sé stante nel suo stesso ambiente e capace di generare incassi pressoché 'fuori scala' per il tutto settore. Ma esaurita questa cornucopia, dubito che lo Studio Ghibli potrà continuare ad esistere come noi lo conosciamo. Del resto lo Studio Ghibli era nato espressamente con l'intento di produrre e realizzare i film di Miyazaki Hayao, quindi non trovo realmente sbagliato o triste che il marchio possa o debba estinguersi con la firma del suo fondatore. Personalmente, amo le cose compiute, che hanno un loro inizio e una loro fine ben definiti. Ho sempre apprezzato Miyazaki Hayao anche per il suo essere un autore che non crea 'universi narrativi' in cui ambientare interi cicli di storie, quanto piuttosto opere uniche, singolari, definite. Senza mai seguiti (e non si citi il cortometraggio Mei e il Gattinobus, per favore, che era e resta pressoché un divertissement), senza mai spin-off, senza propaggini di contorno. Così deve essere. E se pensiamo il tutto in logica frattale: così un film, così il suo studio di produzione. Miyazaki Hayao è un animatore e poi un regista che con la sua infaticabile opera e la sua straordinaria inventiva è riuscito a dimostrare al mondo intero che l'animazione giapponese può proporre prodotti di elevata qualità artistica e contenuto culturale di spicco. Credo che questo sia sempre stato un po' il suo sogno, fin dai tempi di Hols: affermare l'animazione giapponese come un prodotto di alto livello. Oggi possiamo forse dire in tutta onestà che c'è in effetti riuscito: al di là del riconoscimento internazionale, al di là della consacrazione in patria, credo soprattutto che l'eredità di una simile impresa titanica perdurerà nelle generazioni a venire, perché tutta l'animazione giapponese e il suo pubblico sono stati fortemente influenzati dall'autorevolezza stilistica dell'opera dello Studio Ghibli e di Miyazaki Hayao. In questo senso, si potrebbe ora dire che il titolo di anime no kami (il dio degli anime) gli spetti davvero di diritto.
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A seguito delle vostre richieste, riproponiamo integralmente, sotto forma di comodo PDF da conservare per riletture e approfondimenti, l'interdialogo sviluppato tra la redazione di AnimeClick.it e Gualtiero 'Shito' Cannarsi.
"Ghibli: dal vento, all'aeroplano, allo Studio..." - PDF
Ringraziamo ancora una volta Gualtiero Cannarsi (e Alessandro Bencivenni) per l'opportunità di confronto e riflessione, sicuramente preziosa in vista dell'arrivo di Kaze Tachinu sui nostri lidi, e più in generale per un ripensamento della ormai lunga storia dello Studio Ghibli.