Maquia - Decoriamo la mattina dell'addio con i fiori promessi
“La parola più bella sulle labbra del genere umano è senza dubbio “Madre”
- Khalil Gibran
I fili dell’ordito sono il tempo che scorre
Cambiano le stagioni e tingono il cielo del suo colore
I fili della trama sono le azioni delle persone
Calcano la terra e scuotono l’animo
Una narrazione quasi biblica da profondi richiami mitologici ci prende delicatamente per mano e permette sin da subito di fare la conoscenza con gli Iolph, creature dalla vita praticamente eterna, che crescono fisicamente sino ad assumere l’aspetto di adolescenti o giovani adulti, per poi protrarre tale stato di grazia sino alla fine dei tempi. Per motivi dinastici e soprattutto etici, a tale razza che sovente ricorda gli elfi tolkeniani dell’epica fantastica è severamente vietato allacciare rapporti con gli esseri umani, creature più istintive, inclini alla suscettibilità delle emozioni e dall’arco vitale della durata d’un soffio di vento; almeno è ciò che appare agli occhi di queste angeliche creature, gli Iolph appunto, intenti a trascorrere le loro serene, monotone giornate in una bucolica realtà dal sapore di racconti perduti e ruralità ancestrali, tessendo infiniti metri di seta ricamata come fossero parche, capaci di leggere fra l’ordito del tessuto esattamente come noi assimiliamo le pagine di un libro parola dopo parola.
Il lungometraggio ci introduce alle vicende con ritmo compassato e surreale, nella sua eterea semplicità. Le note che accompagnano le prime scene riportano a galla ricordi di pace sfiorati da punte di leggera malinconia, note magiche, pronte ad aprire a dialoghi aulici e sontuosi, narrazioni perdute che immergono lo spettatore sin da subito nella giusta atmosfera. Il popolo degli Iolph ha davvero tanti punti in comune con la prospettiva degli elfi eterni del miglior immaginario collettivo fantasy moderno, e il modo di “tessere le giornate”, tela dopo tela, appare quasi omerico, in attesa che qualcosa accada, che un Ulisse torni (da dove?), raccogliendo così le cronistorie del mondo, alba dopo alba, settimana dopo settimana, anno dopo anno.
Secolo dopo secolo.
Ma gli esseri umani, come spesso accade, sono invidiosi.
In particolare, il vicino impero di Marzate anela alla vita eterna e i suoi reggenti sono intenzionati a scoprire il segreto che permette agli Iolph di vivere indeterminatamente.
Essendo gli Eterni un popolo pacifico, si trovano impreparati di fronte a tale, inaspettata minaccia. Protagonista di questa vera e propria epopea esistenziale è Maquia, bellissima ragazza dai capelli color oro, all’apparenza appena quindicenne: assiste al rapimento di Lilia, una delle donne più importanti di tutto il popolo eterno, trascinata via dal nemico per portarla in sposa al principe, così da creare una dinastia di esseri umani sempre più vicini all’immortalità. Lilia, strappata ignobilmente dalle braccia dell’amato Krim, è per tutti una sorella maggiore, una guida spirituale d’infinita comprensione e saggezza, e nel tentativo di inseguirla, Maquia riesce ad aggrapparsi a uno dei draghi volanti di Marzate, bestie con cui gli invasori hanno sferrato l’incursione. In un volo rocambolesco e scavezzacollo, la ragazza si accorge che il drago la sta portando troppo lontano dalle terre che conosce, facendola precipitare in un bosco sconosciuto, lontano, oscuro, mortale, misterioso.
Un altro mondo, un’altra vita.
L’inizio di una nuova avventura.
È meglio aver amato e perso, che non aver amato mai
- Alfred Tennyson
Quando riprende i sensi, è accasciata e ferita accanto a una carovana di gente che è stata sterminata. Tutti... tranne il più piccolo: un neonato, salvatosi fra le braccia della madre, che, anche se straziante cadavere, ancora lo stringe con dita fredde ed espressione persa nell’oblio. L’impatto emotivo è immenso, ma la ragazza non può certo abbandonarlo laggiù... la chiave di tutto il racconto, racchiusa in un istante: una persona sola e smarrita, incontra un’altra persona sola, e smarrita. Raccoglie quel bambino come fosse il proprio destino, il proprio futuro, lo specchio di ciò che sarà rispetto a ciò che era stata fino a quel momento.
Da qui in poi, la storia, come ben si può intuire, racconterà le vicissitudini di una ragazza madre intenta a crescere un bambino a cui darà il nome di Erial, e che nel corso degli anni crescerà, imparerà e invecchierà, scoprendo che la bellissima ed eterea madre rimane cristallizzata, purtroppo o per fortuna, nell’aspetto di una bellissima, immortale adolescente.
Maquia è più che un semplice slice of life attraverso un’intera generazione di padri, madri, figli e nipoti.
La filosofia della vita spesso ci sfugge, perché, essendo appunto umani, ci concentriamo troppo sul presente, mettendo in secondo piano l’importanza del poi. Il ritmo assillante del quotidiano divora ogni pensiero a lungo termine, se non siamo noi stessi a fermarci un attimo e riflettere, a considerare ciò che davvero conta, a darci delle priorità prima che queste ci sfuggano da sotto il naso senza che ce ne rendiamo conto.
L’importanza degli attimi e dei rapporti che abbiamo con chi ci circonda, il valore che diamo all’esistenza e al tempo che passa e non torna indietro: sfumature che ci accomunano tutti, ragionamenti che, nostro malgrado, più si diventa adulti e consapevoli, ci interessano sempre più profondamente. Se Maquia vive in eterno, Erial e tutti i suoi amici non potranno usufruire di questo “dono”... sempre che di dono si tratti.
E qui, il parallelismo con il magico Frieren diviene semplice e istintivo: è davvero una fortuna vivere in eterno? Quanto può essere sopportabile dover dire addio a tutti i propri cari, uno dopo l’altro, nel corso dei decenni, dei secoli, di... chi sa quanto tempo? È possibile rimanere anestetizzati a tutto questo? Che tipo di dolore può mai essere questo, posto che nessun essere umano può provare tale esperienza?
Ecco perché gli Iolph non possono stringere rapporti profondi con le altre razze. Così come - in uno dei più celebri passaggi de “Il Signore degli Anelli” - Elrond di Rivendell mette in guardia Arwen dall’innamorarsi di Aragorn, pena il dolore eterno per la perdita dell’amato quand’egli invecchierà, gli Iolph hanno un veto che cerca di proteggerli dalle tragedie del cuore.
Prendere atto, accettare la fine della vita per chi non ne vede il termine dev’essere qualcosa di terribile. La realtà della morte è sempre atroce, per chiunque, si tratta di un giorno vago e lontano per tutti noi, e di certo inconsciamente tutti lo rifuggiamo, non vogliamo in nessun modo conoscere il momento di quando questo si realizzerà, poiché in cuor nostro, meno ne sappiamo, più indistinto e irreale ci sembrerà. Ma, se pensiamo che accadrà anche e soprattutto a chi amiamo, allora l’angoscia diventa disperazione.
Cos’è la vita? È davvero solo spazio, tempo, materia? Cosa è, davvero, la vita?
- Schrödinger
In una lenta ascesa d’emozioni e di pause riflessive, questo massiccio lungometraggio ci regala più volte vibe in stile Escaflowne, facendo trapelare addii e profonde riflessioni da cui non possiamo uscirne immuni: un monumentale inno alle infinite sfaccettature della maternità, e di come in tali casi tale istinto sia una sorta di surrogato della solitudine, un mondo a parte, un universo di sensazioni come un cielo buio che aspetta la propria stella.
“Maquia” ha uno sviluppo centellinato ma piacevole, il ritmo narrativo è pertinente, anche se qualche punto debole lo mostra soprattutto ignorando alcuni personaggi secondari che avrebbero dovuto forse ricevere più spazio (almeno nel finale). A parte piccoli, precipitosi nei e alcuni accadimenti che fortunatamente possono esser letti anche in maniera implicita per favorire la scorrevolezza narrativa, lo spettatore viene costantemente abbracciato da una colonna sonora fantastica, che fa da cornice a un comparto tecnico immenso. Le animazioni sono eccezionali, i disegni in generale davvero accattivanti e gli scenari a dir poco clamorosi, capaci di richiamare i titoli più amati fra giochi di ruolo nipponici e tavole illustrate di numerosi e blasonati autori.
Sfumature rustiche ci riportano alla memoria la bellezza dei vari Final Fantasy Tactics, la serie dei Tales of… e tante altre chicche che i videogiocatori più esperti e navigati ricorderanno sicuramente. Le strutture gotiche, fantasy e imperialistiche accentuano la grandezza del regno nemico, imbastendo un emozionante intreccio pregno d’una intensità che viene dettata coi giusti tempi.
È stato doloroso, è stato proprio doloroso, ma il mondo è bellissimo. Non posso dimenticarlo!
Da giovane fuggiasca, a madre adottiva, a tanto, tanto altro.
In fondo, è la vita: ognuno di noi vive le proprie esperienze inaspettatamente, e come diceva Oscar Wilde, la vita è l’insegnante più severo: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione!
“Maquia” è un cerchio, narra di separazioni, di addii inesorabili, allorché il tempo non si fermerà, avanti, sempre avanti senza arrestarsi, poiché questa è la vita, e se anche spesso ci guardiamo indietro nostalgicamente, è avanti a noi che dobbiamo guardare e concentrarci. Dal punto di vista degli Iolph, affezionarsi ai mortali è una maledizione, ma, al tempo stesso, un viaggio indimenticabile e pieno di emozioni. E l’epilogo, che tanto ci ricorda il dolcissimo, straziante paradosso dell’indimenticato Interstellar di Cristopher Nolan, costringerà lo spettatore a mettere mano ai fazzoletti più di una volta. Colpi di scena si susseguono in un climax fra luci distanti e cieli sconfinati, ma la bellezza del finale va assaporata nel ritmo compassato post caos (non perdetevi la chicca al termine dei crediti!)
Di separazione in separazione, questa è la vita.
Per quanta sofferenza si possa provare, per quanta tristezza si debba sopportare, ogni esperienza vale sempre e comunque la pena di essere vissuta al suo massimo: solo incrociando i nostri destini coi destini degli altri riusciremo a carpire il vero significato della solitudine. Solo chi assapora la sofferenza comprende davvero la gioia, ma mai e poi mai essa sarà un motivo per rinunciarvi: ogni attimo ne ripaga sempre il costo.
Un lungometraggio che è già stato assimilato da molti appassionati come un capolavoro moderno, più vicino al nostro cuore di quanto si possa immaginare. Regalatevi due ore di dolce terapia: guardatevi “Maquia”.
- Khalil Gibran
I fili dell’ordito sono il tempo che scorre
Cambiano le stagioni e tingono il cielo del suo colore
I fili della trama sono le azioni delle persone
Calcano la terra e scuotono l’animo
Una narrazione quasi biblica da profondi richiami mitologici ci prende delicatamente per mano e permette sin da subito di fare la conoscenza con gli Iolph, creature dalla vita praticamente eterna, che crescono fisicamente sino ad assumere l’aspetto di adolescenti o giovani adulti, per poi protrarre tale stato di grazia sino alla fine dei tempi. Per motivi dinastici e soprattutto etici, a tale razza che sovente ricorda gli elfi tolkeniani dell’epica fantastica è severamente vietato allacciare rapporti con gli esseri umani, creature più istintive, inclini alla suscettibilità delle emozioni e dall’arco vitale della durata d’un soffio di vento; almeno è ciò che appare agli occhi di queste angeliche creature, gli Iolph appunto, intenti a trascorrere le loro serene, monotone giornate in una bucolica realtà dal sapore di racconti perduti e ruralità ancestrali, tessendo infiniti metri di seta ricamata come fossero parche, capaci di leggere fra l’ordito del tessuto esattamente come noi assimiliamo le pagine di un libro parola dopo parola.
Il lungometraggio ci introduce alle vicende con ritmo compassato e surreale, nella sua eterea semplicità. Le note che accompagnano le prime scene riportano a galla ricordi di pace sfiorati da punte di leggera malinconia, note magiche, pronte ad aprire a dialoghi aulici e sontuosi, narrazioni perdute che immergono lo spettatore sin da subito nella giusta atmosfera. Il popolo degli Iolph ha davvero tanti punti in comune con la prospettiva degli elfi eterni del miglior immaginario collettivo fantasy moderno, e il modo di “tessere le giornate”, tela dopo tela, appare quasi omerico, in attesa che qualcosa accada, che un Ulisse torni (da dove?), raccogliendo così le cronistorie del mondo, alba dopo alba, settimana dopo settimana, anno dopo anno.
Secolo dopo secolo.
Ma gli esseri umani, come spesso accade, sono invidiosi.
In particolare, il vicino impero di Marzate anela alla vita eterna e i suoi reggenti sono intenzionati a scoprire il segreto che permette agli Iolph di vivere indeterminatamente.
Essendo gli Eterni un popolo pacifico, si trovano impreparati di fronte a tale, inaspettata minaccia. Protagonista di questa vera e propria epopea esistenziale è Maquia, bellissima ragazza dai capelli color oro, all’apparenza appena quindicenne: assiste al rapimento di Lilia, una delle donne più importanti di tutto il popolo eterno, trascinata via dal nemico per portarla in sposa al principe, così da creare una dinastia di esseri umani sempre più vicini all’immortalità. Lilia, strappata ignobilmente dalle braccia dell’amato Krim, è per tutti una sorella maggiore, una guida spirituale d’infinita comprensione e saggezza, e nel tentativo di inseguirla, Maquia riesce ad aggrapparsi a uno dei draghi volanti di Marzate, bestie con cui gli invasori hanno sferrato l’incursione. In un volo rocambolesco e scavezzacollo, la ragazza si accorge che il drago la sta portando troppo lontano dalle terre che conosce, facendola precipitare in un bosco sconosciuto, lontano, oscuro, mortale, misterioso.
Un altro mondo, un’altra vita.
L’inizio di una nuova avventura.
È meglio aver amato e perso, che non aver amato mai
- Alfred Tennyson
Quando riprende i sensi, è accasciata e ferita accanto a una carovana di gente che è stata sterminata. Tutti... tranne il più piccolo: un neonato, salvatosi fra le braccia della madre, che, anche se straziante cadavere, ancora lo stringe con dita fredde ed espressione persa nell’oblio. L’impatto emotivo è immenso, ma la ragazza non può certo abbandonarlo laggiù... la chiave di tutto il racconto, racchiusa in un istante: una persona sola e smarrita, incontra un’altra persona sola, e smarrita. Raccoglie quel bambino come fosse il proprio destino, il proprio futuro, lo specchio di ciò che sarà rispetto a ciò che era stata fino a quel momento.
Da qui in poi, la storia, come ben si può intuire, racconterà le vicissitudini di una ragazza madre intenta a crescere un bambino a cui darà il nome di Erial, e che nel corso degli anni crescerà, imparerà e invecchierà, scoprendo che la bellissima ed eterea madre rimane cristallizzata, purtroppo o per fortuna, nell’aspetto di una bellissima, immortale adolescente.
Maquia è più che un semplice slice of life attraverso un’intera generazione di padri, madri, figli e nipoti.
La filosofia della vita spesso ci sfugge, perché, essendo appunto umani, ci concentriamo troppo sul presente, mettendo in secondo piano l’importanza del poi. Il ritmo assillante del quotidiano divora ogni pensiero a lungo termine, se non siamo noi stessi a fermarci un attimo e riflettere, a considerare ciò che davvero conta, a darci delle priorità prima che queste ci sfuggano da sotto il naso senza che ce ne rendiamo conto.
L’importanza degli attimi e dei rapporti che abbiamo con chi ci circonda, il valore che diamo all’esistenza e al tempo che passa e non torna indietro: sfumature che ci accomunano tutti, ragionamenti che, nostro malgrado, più si diventa adulti e consapevoli, ci interessano sempre più profondamente. Se Maquia vive in eterno, Erial e tutti i suoi amici non potranno usufruire di questo “dono”... sempre che di dono si tratti.
E qui, il parallelismo con il magico Frieren diviene semplice e istintivo: è davvero una fortuna vivere in eterno? Quanto può essere sopportabile dover dire addio a tutti i propri cari, uno dopo l’altro, nel corso dei decenni, dei secoli, di... chi sa quanto tempo? È possibile rimanere anestetizzati a tutto questo? Che tipo di dolore può mai essere questo, posto che nessun essere umano può provare tale esperienza?
Ecco perché gli Iolph non possono stringere rapporti profondi con le altre razze. Così come - in uno dei più celebri passaggi de “Il Signore degli Anelli” - Elrond di Rivendell mette in guardia Arwen dall’innamorarsi di Aragorn, pena il dolore eterno per la perdita dell’amato quand’egli invecchierà, gli Iolph hanno un veto che cerca di proteggerli dalle tragedie del cuore.
Prendere atto, accettare la fine della vita per chi non ne vede il termine dev’essere qualcosa di terribile. La realtà della morte è sempre atroce, per chiunque, si tratta di un giorno vago e lontano per tutti noi, e di certo inconsciamente tutti lo rifuggiamo, non vogliamo in nessun modo conoscere il momento di quando questo si realizzerà, poiché in cuor nostro, meno ne sappiamo, più indistinto e irreale ci sembrerà. Ma, se pensiamo che accadrà anche e soprattutto a chi amiamo, allora l’angoscia diventa disperazione.
Cos’è la vita? È davvero solo spazio, tempo, materia? Cosa è, davvero, la vita?
- Schrödinger
In una lenta ascesa d’emozioni e di pause riflessive, questo massiccio lungometraggio ci regala più volte vibe in stile Escaflowne, facendo trapelare addii e profonde riflessioni da cui non possiamo uscirne immuni: un monumentale inno alle infinite sfaccettature della maternità, e di come in tali casi tale istinto sia una sorta di surrogato della solitudine, un mondo a parte, un universo di sensazioni come un cielo buio che aspetta la propria stella.
“Maquia” ha uno sviluppo centellinato ma piacevole, il ritmo narrativo è pertinente, anche se qualche punto debole lo mostra soprattutto ignorando alcuni personaggi secondari che avrebbero dovuto forse ricevere più spazio (almeno nel finale). A parte piccoli, precipitosi nei e alcuni accadimenti che fortunatamente possono esser letti anche in maniera implicita per favorire la scorrevolezza narrativa, lo spettatore viene costantemente abbracciato da una colonna sonora fantastica, che fa da cornice a un comparto tecnico immenso. Le animazioni sono eccezionali, i disegni in generale davvero accattivanti e gli scenari a dir poco clamorosi, capaci di richiamare i titoli più amati fra giochi di ruolo nipponici e tavole illustrate di numerosi e blasonati autori.
Sfumature rustiche ci riportano alla memoria la bellezza dei vari Final Fantasy Tactics, la serie dei Tales of… e tante altre chicche che i videogiocatori più esperti e navigati ricorderanno sicuramente. Le strutture gotiche, fantasy e imperialistiche accentuano la grandezza del regno nemico, imbastendo un emozionante intreccio pregno d’una intensità che viene dettata coi giusti tempi.
È stato doloroso, è stato proprio doloroso, ma il mondo è bellissimo. Non posso dimenticarlo!
Da giovane fuggiasca, a madre adottiva, a tanto, tanto altro.
In fondo, è la vita: ognuno di noi vive le proprie esperienze inaspettatamente, e come diceva Oscar Wilde, la vita è l’insegnante più severo: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione!
“Maquia” è un cerchio, narra di separazioni, di addii inesorabili, allorché il tempo non si fermerà, avanti, sempre avanti senza arrestarsi, poiché questa è la vita, e se anche spesso ci guardiamo indietro nostalgicamente, è avanti a noi che dobbiamo guardare e concentrarci. Dal punto di vista degli Iolph, affezionarsi ai mortali è una maledizione, ma, al tempo stesso, un viaggio indimenticabile e pieno di emozioni. E l’epilogo, che tanto ci ricorda il dolcissimo, straziante paradosso dell’indimenticato Interstellar di Cristopher Nolan, costringerà lo spettatore a mettere mano ai fazzoletti più di una volta. Colpi di scena si susseguono in un climax fra luci distanti e cieli sconfinati, ma la bellezza del finale va assaporata nel ritmo compassato post caos (non perdetevi la chicca al termine dei crediti!)
Di separazione in separazione, questa è la vita.
Per quanta sofferenza si possa provare, per quanta tristezza si debba sopportare, ogni esperienza vale sempre e comunque la pena di essere vissuta al suo massimo: solo incrociando i nostri destini coi destini degli altri riusciremo a carpire il vero significato della solitudine. Solo chi assapora la sofferenza comprende davvero la gioia, ma mai e poi mai essa sarà un motivo per rinunciarvi: ogni attimo ne ripaga sempre il costo.
Un lungometraggio che è già stato assimilato da molti appassionati come un capolavoro moderno, più vicino al nostro cuore di quanto si possa immaginare. Regalatevi due ore di dolce terapia: guardatevi “Maquia”.
Di Mari Okada posso scrivere di aver visto qualche opera, soprattutto in veste di sceneggiatrice di produzioni di successo (vedi "Toradora!", "Anohana", "Her Blue Sky", "Araburu", ecc.). Con "Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazarō", ovvero "Maquia - When the Promised Flower Blooms", ovvero "Maquia - Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi", la talentuosa artista si cimenta anche nella regia e sforna uno dei film di successo della stagione 2018 e della sua ormai lunga carriera.
In questa occasione, la Okada va "sul sicuro" e costruisce una storia ad ambientazione fantasy in un passato non meglio definito simil-medievale, i cui cardini sono rappresentati dall'amore materno e la sua inossidabilità al trascorrere del tempo. Sentimenti agapici, frutto di amore disinteressato e senza limiti, tipico proprio dell'amore di una madre nei confronti di un figlio/a.
Facendo leva su un sentimento dalla nobiltà "assoluta" e incontrovertibile, Mari Okada non poteva non concepire una storia molto toccante secondo lo stile che la contraddistingue, che mixa in modo anche un po' "furbo" elementi fantasy in un mondo del passato indefinito in cui si pongono le basi per trattare i sentimenti in modo piuttosto puro, assoluto, candido, col "solito" (a mio avviso) limite del troppo fanciullesco, ingenuo e melodrammatico.
Stile che mi è capitato di apprezzare anche in negativo già in "Toradora!" e, soprattutto, in "Anohana" (con cui "Maquia" condivide anche il richiamo nel titolo ai fiori...).
Probabile che lo stile di Okada non rientri completamente nelle mie corde, ma ciò non significa che ritenga "Maquia" un film di basso livello, tutt'altro.
Senza 'spoilerare' eccessivamente, la protagonista Maquia appartiene a un popolo di cui non si sa nulla, se non che sono individui che possono vivere per centinaia o migliaia di anni. Per come sono disegnati, mi sono sembrati vagamente ariani: capelli e pelle chiarissimi, abbigliamento etereo (vesti/tuniche bianchi simil-sacerdoti/esse dell'antichità), sembianze simil-adolescenti efebici/androgini (sebbene anche di un'età per noi inconcepibile secondo i normali standard), vita tranquillissima e dedicata alla creazione di tessuti speciali di cui sono abili e apprezzati tessitori.
Per le loro caratteristiche e la loro ritrosia a non immischiarsi con gli umani normali, è evidente che sono temuti da questi ultimi, e alcuni di loro li vorrebbero soggiogare per trarne vantaggio.
Fatta la doverosa premessa, incluso l'aspetto che gli Iorph si impongono di non amare mai un comune mortale, proprio perché loro sopravvivrebbero e soffrirebbero nel vederli morire comunque prima di loro, rimanendo soli (idea non originalissima, vedi "Highlander"...), si spiega l'incipit dove, dopo una breve sequenza "bucolico-onirica" sulla normale vita degli Iorph, si giunge all'attacco a scopo "ratto delle Sabine" (alias la principessa degli Iorph, Leilia) da parte degli umani, affinché il principe dell'esercito attaccante possa sposare e avere un erede proprio da Leilia.
Da questa premessa M. Okada sviluppa una trama molto dolce, sentimentale, un po' anche fiabesca, in cui sembra voler trasmette il valore dell'amore disinteressato, la forza di un legame che può trascendere anche il tempo e, soprattutto, con l'escamotage della quasi immortalità degli Iorph, che si tratta di un sentimento che vale la pena provare in ogni caso e fino in fondo indipendentemente dai problemi, dai limiti contingenti e da qualsiasi ostacolo o criticità che possa limitarne o ridurne la portata.
In fondo, il legame tra Maquia e Ariel, piccolo orfano di cui la protagonista si prenderà amorevolmente cura come una madre, fino a quando lui deciderà di farsi, in apparenza anche in modo poco riconoscente, la sua vita, sembra proprio voler dimostrare quanto sia importante e prezioso amare e donarsi senza se e senza ma, se si vuole il bene della persona amata.
Se la storia tra Maquia e Ariel racconta la crescita di Ariel al fianco della sua giovanissima madre adottiva e di come il legame tra i due muta, si trasforma, vacilla, ma non finisce (e lo struggente finale del film lo testimonia...), resta tuttavia mal sviluppata la maternità "coercizzata" di Leilia.
Ed è a mio avviso una grossa pecca della sceneggiatura: da un lato l'accettazione di prendersi cura di un orfano a qualunque costo e sacrificio e dall'altro una specie di maternità negata per la particolare natura di Iorph di Leilia, cui non sarà mai permesso di avere contatti con la propria figlia. Un tema altrettanto degno di approfondimento che viene liquidato verso la fine del film troppo frettolosamente, lasciando la sensazione che nel caso di Leilia valga ancora la regola del non provare amore per gli umani (o semi-umani come la figlia) proprio per la quasi immortalità degli Iorph.
A mio avviso, "Wolf Children" di Mamoru Hosoda era riuscito a rendere meglio e in modo ancora più forte senza particolari escamotage (quali l'immortalità) il valore dell'amore materno... ma è questione di gusti e di punti di vista.
Dal punto di vista tecnico e grafico, "Maquia" è un'opera di eccellente primordine: colori saturi, dettagli incredibili, un contrasto delle immagini che è un piacere per gli occhi, l'utilizzo della computer grafica sapiente e ben amalgamato con l'animazione tradizionale. Lo studio P.A. Works ha assistito al meglio M. Okada, sfornando ancora un prodotto di qualità sul versante dell'animazione, del character design e del worldbuilding.
"Maquia", pertanto, resta in ogni caso uno di quei film che gli appassionati di anime non dovrebbero assolutamente perdere.
In questa occasione, la Okada va "sul sicuro" e costruisce una storia ad ambientazione fantasy in un passato non meglio definito simil-medievale, i cui cardini sono rappresentati dall'amore materno e la sua inossidabilità al trascorrere del tempo. Sentimenti agapici, frutto di amore disinteressato e senza limiti, tipico proprio dell'amore di una madre nei confronti di un figlio/a.
Facendo leva su un sentimento dalla nobiltà "assoluta" e incontrovertibile, Mari Okada non poteva non concepire una storia molto toccante secondo lo stile che la contraddistingue, che mixa in modo anche un po' "furbo" elementi fantasy in un mondo del passato indefinito in cui si pongono le basi per trattare i sentimenti in modo piuttosto puro, assoluto, candido, col "solito" (a mio avviso) limite del troppo fanciullesco, ingenuo e melodrammatico.
Stile che mi è capitato di apprezzare anche in negativo già in "Toradora!" e, soprattutto, in "Anohana" (con cui "Maquia" condivide anche il richiamo nel titolo ai fiori...).
Probabile che lo stile di Okada non rientri completamente nelle mie corde, ma ciò non significa che ritenga "Maquia" un film di basso livello, tutt'altro.
Senza 'spoilerare' eccessivamente, la protagonista Maquia appartiene a un popolo di cui non si sa nulla, se non che sono individui che possono vivere per centinaia o migliaia di anni. Per come sono disegnati, mi sono sembrati vagamente ariani: capelli e pelle chiarissimi, abbigliamento etereo (vesti/tuniche bianchi simil-sacerdoti/esse dell'antichità), sembianze simil-adolescenti efebici/androgini (sebbene anche di un'età per noi inconcepibile secondo i normali standard), vita tranquillissima e dedicata alla creazione di tessuti speciali di cui sono abili e apprezzati tessitori.
Per le loro caratteristiche e la loro ritrosia a non immischiarsi con gli umani normali, è evidente che sono temuti da questi ultimi, e alcuni di loro li vorrebbero soggiogare per trarne vantaggio.
Fatta la doverosa premessa, incluso l'aspetto che gli Iorph si impongono di non amare mai un comune mortale, proprio perché loro sopravvivrebbero e soffrirebbero nel vederli morire comunque prima di loro, rimanendo soli (idea non originalissima, vedi "Highlander"...), si spiega l'incipit dove, dopo una breve sequenza "bucolico-onirica" sulla normale vita degli Iorph, si giunge all'attacco a scopo "ratto delle Sabine" (alias la principessa degli Iorph, Leilia) da parte degli umani, affinché il principe dell'esercito attaccante possa sposare e avere un erede proprio da Leilia.
Da questa premessa M. Okada sviluppa una trama molto dolce, sentimentale, un po' anche fiabesca, in cui sembra voler trasmette il valore dell'amore disinteressato, la forza di un legame che può trascendere anche il tempo e, soprattutto, con l'escamotage della quasi immortalità degli Iorph, che si tratta di un sentimento che vale la pena provare in ogni caso e fino in fondo indipendentemente dai problemi, dai limiti contingenti e da qualsiasi ostacolo o criticità che possa limitarne o ridurne la portata.
In fondo, il legame tra Maquia e Ariel, piccolo orfano di cui la protagonista si prenderà amorevolmente cura come una madre, fino a quando lui deciderà di farsi, in apparenza anche in modo poco riconoscente, la sua vita, sembra proprio voler dimostrare quanto sia importante e prezioso amare e donarsi senza se e senza ma, se si vuole il bene della persona amata.
Se la storia tra Maquia e Ariel racconta la crescita di Ariel al fianco della sua giovanissima madre adottiva e di come il legame tra i due muta, si trasforma, vacilla, ma non finisce (e lo struggente finale del film lo testimonia...), resta tuttavia mal sviluppata la maternità "coercizzata" di Leilia.
Ed è a mio avviso una grossa pecca della sceneggiatura: da un lato l'accettazione di prendersi cura di un orfano a qualunque costo e sacrificio e dall'altro una specie di maternità negata per la particolare natura di Iorph di Leilia, cui non sarà mai permesso di avere contatti con la propria figlia. Un tema altrettanto degno di approfondimento che viene liquidato verso la fine del film troppo frettolosamente, lasciando la sensazione che nel caso di Leilia valga ancora la regola del non provare amore per gli umani (o semi-umani come la figlia) proprio per la quasi immortalità degli Iorph.
A mio avviso, "Wolf Children" di Mamoru Hosoda era riuscito a rendere meglio e in modo ancora più forte senza particolari escamotage (quali l'immortalità) il valore dell'amore materno... ma è questione di gusti e di punti di vista.
Dal punto di vista tecnico e grafico, "Maquia" è un'opera di eccellente primordine: colori saturi, dettagli incredibili, un contrasto delle immagini che è un piacere per gli occhi, l'utilizzo della computer grafica sapiente e ben amalgamato con l'animazione tradizionale. Lo studio P.A. Works ha assistito al meglio M. Okada, sfornando ancora un prodotto di qualità sul versante dell'animazione, del character design e del worldbuilding.
"Maquia", pertanto, resta in ogni caso uno di quei film che gli appassionati di anime non dovrebbero assolutamente perdere.
“L'amore di una madre è qualcosa che nessuno può spiegare, è fatto di profonda devozione, di sacrificio e di dolore, è infinito, altruistico e duraturo, nulla può distruggerlo o portar via.”
Maquia è una ragazza quindicenne membro della “stirpe delle separazioni”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che smettono di crescere esteriormente verso i quindici anni, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Purtroppo, però, Maquia questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia e Krim, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere lo Hibiol, un tessuto pregiato prodotto soltanto da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda.
Questa pacifica routine viene interrotta dall'attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph. Nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunatamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il destino la mette, però, sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta, Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. È qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.
A differenza di ciò che si potrebbe erroneamente pensare, “Maquia” è un film complesso, che tratta tanti temi e, a malincuore, fatica ad approfondirli tutti nel migliore dei modi. Centrale, ovviamente, è il tema della maternità, strettamente connesso a quello della solitudine. Pur vivendo in una comunità di persone che le vuole bene, Maquia sente dentro di sé un profondo senso di solitudine, perché sostanzialmente orfana di entrambi i genitori. Questo, almeno, è quello che racconta il suo sguardo quando vede i suoi due più cari amici, Leila e Krim, riabbracciare i loro familiari dopo una lunga giornata di lavoro. Racine, la Somma Anziana, è sì una madre per Maquia, ma lo è per lei così come per gli altri membri della comunità, e non può darle l’amore di cui ha bisogno una figlia. Ecco perché, quando trova quel neonato solo e abbandonato in mezzo alla foresta, non può far altro che prenderlo con sé e provare ad accudirlo come farebbe la sua madre naturale, le cui dita morenti non vogliono lasciar andare a nessun costo. La scelta di Maquia è egoista e altruista allo stesso tempo. Da un lato, sente il bisogno di porre rimedio alla sua sconfinata solitudine e di colmare quel vuoto che sente nel suo animo; dall’altro, capisce di non poter abbandonare quel neonato al proprio infausto destino. Inizia così il film “Maquia - Decoriamo la mattina dell’addio con i fiori promessi”, che è, soprattutto, una dolcissima storia di maternità. Ovviamente, Maquia non sa nulla di cosa significhi essere madre, perché lei probabilmente la sua non l’ha mai conosciuta, e impara ad esserlo un po’ a spese proprie, un po’ imitando la gentile Mido, che ospita la piccola famigliola nella sua casa di campagna. Maquia dà ad Ariel tutto l’amore che può, contravvenendo al monito della Somma Anziana, proferito proprio ad inizio film: ‘Se amassi qualcuno, ti ritroveresti davvero da sola.’ È dalla solitudine che ha provato da quando è al mondo che nasce l’amore di Maquia e il suo desiderio che Ariel non debba patire ciò che lei ha sofferto. Nonostante gli appena quindi anni di età, Maquia si reiventa madre e accudisce quello che sente essere suo figlio a tutti gli effetti, con tutto l’amore possibile. E questo ci fa capire due cose molto importanti: madri non lo si nasce, ma si diventa e, ancor più importante, non sono i legami di sangue a fare di una donna una madre, bensì l’amore. Come è ovvio che sia, il rapporto tra i due non è sempre rose e fiori, specialmente quando Ariel cresce, entra nel difficile periodo della pubertà e inizia a sembrare più adulto di sua madre. Quest’ultimo, in particolar modo, sembra rappresentare un problema per il ragazzo, che, tra l’altro, scoprirà ben presto di non essere il figlio biologico di Maquia e, quindi, inizierà anche a trattarla aspramente. Come si dice a Napoli, ‘e figlie so piezz’ ‘e core, ma i figli sanno anche essere terribilmente ingrati, ma questo non scalfirà in alcun modo l’amore di una madre, che può resistere ad ogni avversità, anche lo scorrere inesorabile del tempo.
Se mi soffermassi soltanto su questo punto, il film sarebbe da dieci. Mari Okada tratta il tema della maternità con una dolcezza e una gentilezza che raramente ho sperimentato, riuscendo a commuovere profondamente lo spettatore, seppur, in alcuni frangenti, sembra quasi che voglia strapparti di forza le lacrime dagli occhi, che, volente o nolente, durante la visione del film, sono destinate a scendere. Oltre a questo, però, bisogna anche considerare, come sopra accennato, che la Okada mette tanta carne a cuocere, lasciando inevitabilmente alcune parti poco cotte. Nonostante le sue due ore piene e intense, il film non risulta in alcun modo pesante, anzi, mi ha dato quasi l’impressione che dovesse durare qualche minuto in più, per meglio approfondire alcune questioni liminari e impreziosire un world building abbastanza scarno. La storia di Maquia e Ariel è inserita in un contesto bellico di cui sappiamo molto poco, e quale che sia stata la fine di tutti gli altri Iorph e della loro terra natia viene perlopiù lasciata all’immaginazione dello spettatore. Dello Hibiol, che tanto sembra assomigliare al destino inafferrabile del genere umano e che gli abitanti di Iorph tessono quotidianamente, sappiamo poco o nulla. La storia stessa dei due protagonisti procede per time skip, a volte, troppo frettolosi. Insomma, “Maquia” è un film imperfetto, che riesce a colpire per la trama affascinante, la delicatezza di Mari Okada e un comparto tecnico e musicale di grande livello. Le animazioni sono stupende e riescono a far risaltare la bellezza dei fondali delle varie ambientazioni, che spaziano dalla campagna, al mare, fino ad arrivare alla appariscente terra di Iorph. Altrettanto eccelso il comparto musicale, mai invasivo e sempre perfetto nella scelta e nell’uso delle musiche. Per quanto mi riguarda, la scena d’inizio film di Maquia che cavalca il renato è di una bellezza visiva e uditiva disarmante, emblematica dell’intera pellicola e produzione.
Nonostante i suoi difetti, “Maquia - Decoriamo la mattina dell’addio con i fiori promessi” è, a mio modestissimo parere, un film che va visto assolutamente.
Maquia è una ragazza quindicenne membro della “stirpe delle separazioni”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che smettono di crescere esteriormente verso i quindici anni, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Purtroppo, però, Maquia questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia e Krim, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere lo Hibiol, un tessuto pregiato prodotto soltanto da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda.
Questa pacifica routine viene interrotta dall'attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph. Nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunatamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il destino la mette, però, sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta, Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. È qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.
A differenza di ciò che si potrebbe erroneamente pensare, “Maquia” è un film complesso, che tratta tanti temi e, a malincuore, fatica ad approfondirli tutti nel migliore dei modi. Centrale, ovviamente, è il tema della maternità, strettamente connesso a quello della solitudine. Pur vivendo in una comunità di persone che le vuole bene, Maquia sente dentro di sé un profondo senso di solitudine, perché sostanzialmente orfana di entrambi i genitori. Questo, almeno, è quello che racconta il suo sguardo quando vede i suoi due più cari amici, Leila e Krim, riabbracciare i loro familiari dopo una lunga giornata di lavoro. Racine, la Somma Anziana, è sì una madre per Maquia, ma lo è per lei così come per gli altri membri della comunità, e non può darle l’amore di cui ha bisogno una figlia. Ecco perché, quando trova quel neonato solo e abbandonato in mezzo alla foresta, non può far altro che prenderlo con sé e provare ad accudirlo come farebbe la sua madre naturale, le cui dita morenti non vogliono lasciar andare a nessun costo. La scelta di Maquia è egoista e altruista allo stesso tempo. Da un lato, sente il bisogno di porre rimedio alla sua sconfinata solitudine e di colmare quel vuoto che sente nel suo animo; dall’altro, capisce di non poter abbandonare quel neonato al proprio infausto destino. Inizia così il film “Maquia - Decoriamo la mattina dell’addio con i fiori promessi”, che è, soprattutto, una dolcissima storia di maternità. Ovviamente, Maquia non sa nulla di cosa significhi essere madre, perché lei probabilmente la sua non l’ha mai conosciuta, e impara ad esserlo un po’ a spese proprie, un po’ imitando la gentile Mido, che ospita la piccola famigliola nella sua casa di campagna. Maquia dà ad Ariel tutto l’amore che può, contravvenendo al monito della Somma Anziana, proferito proprio ad inizio film: ‘Se amassi qualcuno, ti ritroveresti davvero da sola.’ È dalla solitudine che ha provato da quando è al mondo che nasce l’amore di Maquia e il suo desiderio che Ariel non debba patire ciò che lei ha sofferto. Nonostante gli appena quindi anni di età, Maquia si reiventa madre e accudisce quello che sente essere suo figlio a tutti gli effetti, con tutto l’amore possibile. E questo ci fa capire due cose molto importanti: madri non lo si nasce, ma si diventa e, ancor più importante, non sono i legami di sangue a fare di una donna una madre, bensì l’amore. Come è ovvio che sia, il rapporto tra i due non è sempre rose e fiori, specialmente quando Ariel cresce, entra nel difficile periodo della pubertà e inizia a sembrare più adulto di sua madre. Quest’ultimo, in particolar modo, sembra rappresentare un problema per il ragazzo, che, tra l’altro, scoprirà ben presto di non essere il figlio biologico di Maquia e, quindi, inizierà anche a trattarla aspramente. Come si dice a Napoli, ‘e figlie so piezz’ ‘e core, ma i figli sanno anche essere terribilmente ingrati, ma questo non scalfirà in alcun modo l’amore di una madre, che può resistere ad ogni avversità, anche lo scorrere inesorabile del tempo.
Se mi soffermassi soltanto su questo punto, il film sarebbe da dieci. Mari Okada tratta il tema della maternità con una dolcezza e una gentilezza che raramente ho sperimentato, riuscendo a commuovere profondamente lo spettatore, seppur, in alcuni frangenti, sembra quasi che voglia strapparti di forza le lacrime dagli occhi, che, volente o nolente, durante la visione del film, sono destinate a scendere. Oltre a questo, però, bisogna anche considerare, come sopra accennato, che la Okada mette tanta carne a cuocere, lasciando inevitabilmente alcune parti poco cotte. Nonostante le sue due ore piene e intense, il film non risulta in alcun modo pesante, anzi, mi ha dato quasi l’impressione che dovesse durare qualche minuto in più, per meglio approfondire alcune questioni liminari e impreziosire un world building abbastanza scarno. La storia di Maquia e Ariel è inserita in un contesto bellico di cui sappiamo molto poco, e quale che sia stata la fine di tutti gli altri Iorph e della loro terra natia viene perlopiù lasciata all’immaginazione dello spettatore. Dello Hibiol, che tanto sembra assomigliare al destino inafferrabile del genere umano e che gli abitanti di Iorph tessono quotidianamente, sappiamo poco o nulla. La storia stessa dei due protagonisti procede per time skip, a volte, troppo frettolosi. Insomma, “Maquia” è un film imperfetto, che riesce a colpire per la trama affascinante, la delicatezza di Mari Okada e un comparto tecnico e musicale di grande livello. Le animazioni sono stupende e riescono a far risaltare la bellezza dei fondali delle varie ambientazioni, che spaziano dalla campagna, al mare, fino ad arrivare alla appariscente terra di Iorph. Altrettanto eccelso il comparto musicale, mai invasivo e sempre perfetto nella scelta e nell’uso delle musiche. Per quanto mi riguarda, la scena d’inizio film di Maquia che cavalca il renato è di una bellezza visiva e uditiva disarmante, emblematica dell’intera pellicola e produzione.
Nonostante i suoi difetti, “Maquia - Decoriamo la mattina dell’addio con i fiori promessi” è, a mio modestissimo parere, un film che va visto assolutamente.
"Maquia - Decoriamo la mattina dell'addio con i fiori promessi" ("Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazarō"), scritto e diretto da Okada Mari e prodotto dallo studio P.A. Works, è un film del 2018 che definirei “altamente sentimentale”.
All'inizio del lungometraggio veniamo subito trasportati in un mondo fantasy dove la mitologica popolazione Iolph, di cui la protagonista Maquia fa parte, conduce la propria esistenza in pace, cucendo dei particolari tessuti che possono anche contenere messaggi. La loro tranquillità verrà presto sconvolta dall'arrivo dei soldati del Regno di Marzate, interessati all’immortalità di questo popolo. Maquia, travolta dagli eventi, diverrà una madre, andando incontro a tutte le problematiche a ciò associate, e inizierà la sua avventura nel mondo dei mortali.
Il film scorre con un ritmo pacato, senza però risultare pensate, utilizzando una narrazione che punta tutto sui sentimenti e sul calore umano.
Il tema principale del lungometraggio è indubbiamente l'amore materno e il rapporto madre-figlio, a cui faranno di contorno altre dinamiche di minor rilevanza, non particolarmente sviscerate. I personaggi realmente caratterizzati sono alla fine i soli protagonisti, mentre tutti quelli secondari (fatta eccezione per uno o due) non spiccano, rimanendo dimenticabili.
L'animazione dell’opera è buona e molto fluida, con i tratti dei personaggi molto puliti che risultano gradevoli. In alcune scene si fa largo uso di computer grafica, ma questa è generalmente ben mascherata; esistono però alcuni momenti in cui è invece eccessivamente palese e risulta sgradevole (in particolare l’animazione delle grosse creature volanti che compaiono in alcuni momenti). La colonna sonora è amabile e aiuta molto a rendere molto emozionali certe sequenze.
In definitiva, "Maquia" è un buon prodotto, che ho trovato gradevole e che emozionerà sicuramente le persone più sensibili. Detto questo, alcune scelte di scrittura mi hanno dato la sensazione di già visto, e ho trovato un peccato la mancanza di approfondimenti su alcuni aspetti del mondo in cui l'opera è ambientata e dei personaggi secondari.
All'inizio del lungometraggio veniamo subito trasportati in un mondo fantasy dove la mitologica popolazione Iolph, di cui la protagonista Maquia fa parte, conduce la propria esistenza in pace, cucendo dei particolari tessuti che possono anche contenere messaggi. La loro tranquillità verrà presto sconvolta dall'arrivo dei soldati del Regno di Marzate, interessati all’immortalità di questo popolo. Maquia, travolta dagli eventi, diverrà una madre, andando incontro a tutte le problematiche a ciò associate, e inizierà la sua avventura nel mondo dei mortali.
Il film scorre con un ritmo pacato, senza però risultare pensate, utilizzando una narrazione che punta tutto sui sentimenti e sul calore umano.
Il tema principale del lungometraggio è indubbiamente l'amore materno e il rapporto madre-figlio, a cui faranno di contorno altre dinamiche di minor rilevanza, non particolarmente sviscerate. I personaggi realmente caratterizzati sono alla fine i soli protagonisti, mentre tutti quelli secondari (fatta eccezione per uno o due) non spiccano, rimanendo dimenticabili.
L'animazione dell’opera è buona e molto fluida, con i tratti dei personaggi molto puliti che risultano gradevoli. In alcune scene si fa largo uso di computer grafica, ma questa è generalmente ben mascherata; esistono però alcuni momenti in cui è invece eccessivamente palese e risulta sgradevole (in particolare l’animazione delle grosse creature volanti che compaiono in alcuni momenti). La colonna sonora è amabile e aiuta molto a rendere molto emozionali certe sequenze.
In definitiva, "Maquia" è un buon prodotto, che ho trovato gradevole e che emozionerà sicuramente le persone più sensibili. Detto questo, alcune scelte di scrittura mi hanno dato la sensazione di già visto, e ho trovato un peccato la mancanza di approfondimenti su alcuni aspetti del mondo in cui l'opera è ambientata e dei personaggi secondari.
Non mi soffermerò sulle generalità del film, accessibili semplicemente consultando la scheda in primo piano, e passerò subito a una riflessione quanto più esauriente possibile delle tematiche dell'opera, chiudendo con le dovute considerazioni sull'apparato tecnico.
Ebbene, di cosa parla "Maquia: When the Promised Flower Blooms"?
A primo impatto tutto sembrerebbe riportare a una storia che tratta, come base portante, il tema della maternità e si concentra sullo sviluppo dei legami affettivi messi a dura prova dall'incedere del tempo. Questa prima semplificazione di per sé non sarebbe neanche sbagliata, tuttavia il mio intento è rivolto a provare a capovolgere questa preliminare visione d'insieme: e se fosse il tempo, o meglio, la necessità di doversi inserire e saperci stare nel tempo, fare in modo da non farsi schiacciare da esso, il tema portante della narrazione, mentre la maternità non risulti essere nient'altro che il miglior pretesto possibile per mettere in mostra il tempo come improvvisa provocazione esistenziale?
Così facendo, il paradigma di riferimento con cui decodificare l'opera si sposterebbe sul rapporto reciproco tempo-eternità.
Gli abitanti di Iorph, conosciuti anche come la "Stirpe delle separazioni", vengono subito presentati alla stregua di una "razza" purosangue e incontaminata da interferenze esterne, tutti estremamente simili tra loro (se non proprio uguali), vestiti di candidi e bianchissimi abiti che richiamano vesti sacerdotali (da antiche vestali per le donne), caratterizzati da una carnagione molto pallida e capelli di un biondo tenue che sembra scivolare anch'esso nel bianco da un momento all'altro. Vivono isolati, come in una bolla, in una sorta di eden richiamante i primordi e i fasti di una passata età dell'oro, architettonicamente composta da un imponente edificio di pietra circondato da abbozzi di rovine a filo d'acqua.
Lo spessore "fisico" del suo popolo, come viventi sempiterni, viene messo in risalto dalle loro abitazioni, grandi quel che basta per permettere loro di muoversi in posizione eretta in contrasto non tanto con l'edificio principale della loro terra quanto con il resto delle strutture architettoniche del mondo di fuori, dove anche una locanda può contenere oltre un centinaio di persone, ad evidenziare quanto possa essere caduca, effimera e poco ingombrante l'esistenza di un qualsiasi altro essere umano.
Tornando al popolo di Iorph, il principio d'identità, tipico del concetto di eternità, si impone in maniera schiacciante. Ciò che perdura nel tempo non cambia e si mantiene sempre identico a sé stesso. Essere un appartenente della Stirpe delle separazioni non è una questione di appartenenza a una terra o a una cultura, è uno status in sé e massima alterità da ogni altra caratterizzazione di un semplice uomo "mortale".
Il capovolgimento di paradigma, in questo caso di mezzo-scopo, riguarda anche la loro principale attività di tessitura dei cosiddetti Hibiol. Il fine non è quello di tessere la storia dell'umanità, come se fosse una vocazione a un compito collaterale della specie umana (tutta) che essi solo ormai possono assolvere a mo' di divisione del lavoro, ma il tessere esso stesso Hibiol è il solo modo rimasto che ha la Stirpe delle separazioni di autodeterminarsi (e, come afferma Maquia all'inizio del film: "di continuare vivere in maniera risoluta") e restare ancorata alla propria esistenza, senza annichilirsi in una vuota eternità. Soltanto in virtù della loro lunghissima esistenza ne è derivato (ed è stato possibile) tessere il telo della storia umana. Quest'unica possibilità di autodeterminazione è alla base della tessitura degli Hibiol, bianchi e candidi come ciò che non muta, immacolati e senza sfumature di colore, come tutto ciò che non conosce cambiamenti o avvicendamenti di alcun tipo, cosa che accade nella tridimensionalità del tempo che scorre. La loro auto-ghettizzazione li ha preservati dal continuare a vivere termini di paragone differenti dalla loro percezione del tempo. Troppo sarebbe il divario emotivo da sopportare tra il loro vissuto, ampiamente dilatato nei secoli, e il vissuto delle persone di fuori, ristretto in una manciata di decenni.
Il senso di solitudine strisciante che pervade il clan nella sua interezza è alla base della sua alienazione e conseguente escapismo nell'attività di tessitura degli Hibiol. Questo aspetto in particolare si rispecchia nella protagonista Maquia, orfana di entrambi i genitori e cresciuta dall'anziano saggio della comunità. Il desiderio di sfuggire alla solitudine della sua esistenza senza tempo, complice un sentimento di leggera e innocente gelosia per la relazione dei suoi due migliori amici Krim e Leilia, le impediscono quotidianamente di dire "Sayonara" senza avvertire un moto di sofferenza e quasi di rimpianto ogni volta che saluta i suoi amici al calar della sera, come se quel "A presto" per il giorno successivo fosse in realtà un addio definitivo.
Lo sviluppo degli avvenimenti di certo avviene per cause di forza maggiore e per inferenze esterne, ma possiamo notare come il motore primo dello scorrere del tempo si attivi attraverso il punto di vista di Maquia. La nostra protagonista principale ovviamente non è un deus ex machina (anche lei è vittima degli eventi come tutti gli altri personaggi), d'altro canto è possibile intuire come sia la presa di consapevolezza di Maquia del tempo vissuto (in contrapposizione alla vuota eternità del suo senso di solitudine) a "mettere in moto gli eventi". In altre parole il tempo inizia a scorrere quando si palesa una scucitura nel tessuto notoriamente infinito e apparentemente perfetto degli Hibiol.
La scena in questione è quella quasi iniziale dell'incontro notturno tra Krim e Leilia nel campo fiorito, incontro al quale Maquia assiste dopo aver seguito di nascosto Krim. Resasi conto dei sentimenti che i due amanti provano l'uno per l'altra, Maquia si lascia sfuggire una lacrima che cade su di un fiore, esclamando: "È sbocciato!" Non più il vago e indistinto desiderio di sfuggire alla solitudine, ma il desiderio di amare, come unico modo di sentirsi vivi, accende la miccia del tempo. Il motore primo è l'amore che sboccia, è il palesarsi e disvelarsi, all'autocoscienza di Maquia, di qualcosa di tangibile. Proprio in quel momento (sarà un caso?) la quiete di quella eternità viene frantumata dall'arrivo del tempo dall'esterno. Tempo che differenzia inoltre i destini dei tre protagonisti, i quali smettono di essere e di vivere come se fossero una cosa sola e la stessa cosa fra di loro. Il tempo divide i loro Hibiol, la loro via all'autodeterminazione di sé, conferendo loro sfumature diverse.
Il destino di Maquia e il suo rapporto con Ariel è molto approfondito durante tutto il film e non credo necessiti di ulteriori introduzioni. Il mio intento, in questa recensione, era di inquadrare i concetti chiave a base della trama e i suoi presupposti narrativi per una introduzione più cosciente alla visione del film.
E dunque: di cosa parla "Maquia"? Offre un monito e lancia un messaggio. La sofferenza della solitudine di creature che, con la loro esistenza, arrivano ad abbracciare secoli di storia, non si attenua evitando di dire "Sayonara" alle persone care che si possono incontrare al di fuori della cerchia del proprio clan e isolandosi nell'alienazione della propria eternità, ma vivendo nel tempo dei "mortali" i propri sentimenti per le persone amate e sempre nel tempo avere la forza d'animo di poterle salutare, senza rimpiangere la diversa longevità, e portare comunque i ricordi di quei momenti sempre con sé, compagni di viaggio e imperituri.
I sentimenti provati e soprattutto ricambiati che ci fanno sentire vivi, anche soltanto per un breve lasso di tempo, sono la nostra più concreta e reale autodeterminazione, perché quest'ultima non è autoreferenziale, ma ci viene riconosciuta da chi ci ama e, quando gli altri non ci saranno più, continueranno a vivere dentro di noi, tessendoci ancora e ancora. Così la memoria delle persone alle quali abbiamo saputo dire "Sayonara" senza rimpianti (pur essendo l'ultima volta) passa dall'essere memoria di un pezzo di stoffa ad essere memoria vivente, memoria del cuore, sempre intenta a tessere chi la tramanda.
L'apparato tecnico, a mio avviso, presenta elevati punti di forza quali l'evidente ricchezza di dettagli e fantasmagoria dei fondali, rappresentazioni di un mondo estasiante da vedere, una straordinaria fotografia con colori molto accesi, sfavillanti anche nelle parti più buie. Un ventaglio cromatico di infinita ricchezza.
Le musiche puntellano efficacemente la storia e fanno la loro bella figura nelle scene di maggior pathos, valorizzandole e rendendole emozionanti al punto giusto. Il charachter design, molto abbozzato e minimale, la dice lunga sulla scelta di campo dei produttori di puntare tutto sull'impatto visivo dei paesaggi e sullo stimolo dato dalle suggestioni cromatiche. Ciononostante, le espressioni facciali dei personaggi sono molto accurate e suggeriscono più di mille dialoghi.
Prima di passare ai punti deboli dell'opera, credo sia ragionevole sorvolare sulla sceneggiatura, cucita in maniera sufficiente a fare il proprio lavoro. Le scene chiave sono rese in maniera esauriente e gli eccessivi salti temporali non tolgono nulla alla comprensione del senso dell'opera. Di certo non era tenuta ad essere, per principio, un punto di forza.
Discorso che non si può fare sulle animazioni. Nel complesso si mantengono su un buon livello ma, quando viene usata la CGI, si nota e pesa un po' sulla scorrevolezza delle animazioni.
La cosa che più mi ha deluso, ad una visione più attenta, è la regia abbastanza appiattita sulle inquadrature dei visi, senza offrire significative e alternative inquadrature di campo. Unica nota di merito, la breve scena in piano sequenza di Maquia inseguita da Renato all'interno dell'edificio di Iorph, all'inizio del film.
In conclusione: che questo film abbia dei difetti è innegabile; d'altro canto, la morale alla base del film, non banale e di una certa caratura, una pregevole cura dei dettagli dei paesaggi e degli interni, un'offerta cromatica di prim'ordine con un'eccellente fotografia, e il comparto musicale dignitoso ed efficace, innalzano parecchio il voto dell'opera e, non volendo essere troppo fiscali, direi che forse ad un buon voto ci possiamo arrivare.
Valutazione. 8
Ebbene, di cosa parla "Maquia: When the Promised Flower Blooms"?
A primo impatto tutto sembrerebbe riportare a una storia che tratta, come base portante, il tema della maternità e si concentra sullo sviluppo dei legami affettivi messi a dura prova dall'incedere del tempo. Questa prima semplificazione di per sé non sarebbe neanche sbagliata, tuttavia il mio intento è rivolto a provare a capovolgere questa preliminare visione d'insieme: e se fosse il tempo, o meglio, la necessità di doversi inserire e saperci stare nel tempo, fare in modo da non farsi schiacciare da esso, il tema portante della narrazione, mentre la maternità non risulti essere nient'altro che il miglior pretesto possibile per mettere in mostra il tempo come improvvisa provocazione esistenziale?
Così facendo, il paradigma di riferimento con cui decodificare l'opera si sposterebbe sul rapporto reciproco tempo-eternità.
Gli abitanti di Iorph, conosciuti anche come la "Stirpe delle separazioni", vengono subito presentati alla stregua di una "razza" purosangue e incontaminata da interferenze esterne, tutti estremamente simili tra loro (se non proprio uguali), vestiti di candidi e bianchissimi abiti che richiamano vesti sacerdotali (da antiche vestali per le donne), caratterizzati da una carnagione molto pallida e capelli di un biondo tenue che sembra scivolare anch'esso nel bianco da un momento all'altro. Vivono isolati, come in una bolla, in una sorta di eden richiamante i primordi e i fasti di una passata età dell'oro, architettonicamente composta da un imponente edificio di pietra circondato da abbozzi di rovine a filo d'acqua.
Lo spessore "fisico" del suo popolo, come viventi sempiterni, viene messo in risalto dalle loro abitazioni, grandi quel che basta per permettere loro di muoversi in posizione eretta in contrasto non tanto con l'edificio principale della loro terra quanto con il resto delle strutture architettoniche del mondo di fuori, dove anche una locanda può contenere oltre un centinaio di persone, ad evidenziare quanto possa essere caduca, effimera e poco ingombrante l'esistenza di un qualsiasi altro essere umano.
Tornando al popolo di Iorph, il principio d'identità, tipico del concetto di eternità, si impone in maniera schiacciante. Ciò che perdura nel tempo non cambia e si mantiene sempre identico a sé stesso. Essere un appartenente della Stirpe delle separazioni non è una questione di appartenenza a una terra o a una cultura, è uno status in sé e massima alterità da ogni altra caratterizzazione di un semplice uomo "mortale".
Il capovolgimento di paradigma, in questo caso di mezzo-scopo, riguarda anche la loro principale attività di tessitura dei cosiddetti Hibiol. Il fine non è quello di tessere la storia dell'umanità, come se fosse una vocazione a un compito collaterale della specie umana (tutta) che essi solo ormai possono assolvere a mo' di divisione del lavoro, ma il tessere esso stesso Hibiol è il solo modo rimasto che ha la Stirpe delle separazioni di autodeterminarsi (e, come afferma Maquia all'inizio del film: "di continuare vivere in maniera risoluta") e restare ancorata alla propria esistenza, senza annichilirsi in una vuota eternità. Soltanto in virtù della loro lunghissima esistenza ne è derivato (ed è stato possibile) tessere il telo della storia umana. Quest'unica possibilità di autodeterminazione è alla base della tessitura degli Hibiol, bianchi e candidi come ciò che non muta, immacolati e senza sfumature di colore, come tutto ciò che non conosce cambiamenti o avvicendamenti di alcun tipo, cosa che accade nella tridimensionalità del tempo che scorre. La loro auto-ghettizzazione li ha preservati dal continuare a vivere termini di paragone differenti dalla loro percezione del tempo. Troppo sarebbe il divario emotivo da sopportare tra il loro vissuto, ampiamente dilatato nei secoli, e il vissuto delle persone di fuori, ristretto in una manciata di decenni.
Il senso di solitudine strisciante che pervade il clan nella sua interezza è alla base della sua alienazione e conseguente escapismo nell'attività di tessitura degli Hibiol. Questo aspetto in particolare si rispecchia nella protagonista Maquia, orfana di entrambi i genitori e cresciuta dall'anziano saggio della comunità. Il desiderio di sfuggire alla solitudine della sua esistenza senza tempo, complice un sentimento di leggera e innocente gelosia per la relazione dei suoi due migliori amici Krim e Leilia, le impediscono quotidianamente di dire "Sayonara" senza avvertire un moto di sofferenza e quasi di rimpianto ogni volta che saluta i suoi amici al calar della sera, come se quel "A presto" per il giorno successivo fosse in realtà un addio definitivo.
Lo sviluppo degli avvenimenti di certo avviene per cause di forza maggiore e per inferenze esterne, ma possiamo notare come il motore primo dello scorrere del tempo si attivi attraverso il punto di vista di Maquia. La nostra protagonista principale ovviamente non è un deus ex machina (anche lei è vittima degli eventi come tutti gli altri personaggi), d'altro canto è possibile intuire come sia la presa di consapevolezza di Maquia del tempo vissuto (in contrapposizione alla vuota eternità del suo senso di solitudine) a "mettere in moto gli eventi". In altre parole il tempo inizia a scorrere quando si palesa una scucitura nel tessuto notoriamente infinito e apparentemente perfetto degli Hibiol.
La scena in questione è quella quasi iniziale dell'incontro notturno tra Krim e Leilia nel campo fiorito, incontro al quale Maquia assiste dopo aver seguito di nascosto Krim. Resasi conto dei sentimenti che i due amanti provano l'uno per l'altra, Maquia si lascia sfuggire una lacrima che cade su di un fiore, esclamando: "È sbocciato!" Non più il vago e indistinto desiderio di sfuggire alla solitudine, ma il desiderio di amare, come unico modo di sentirsi vivi, accende la miccia del tempo. Il motore primo è l'amore che sboccia, è il palesarsi e disvelarsi, all'autocoscienza di Maquia, di qualcosa di tangibile. Proprio in quel momento (sarà un caso?) la quiete di quella eternità viene frantumata dall'arrivo del tempo dall'esterno. Tempo che differenzia inoltre i destini dei tre protagonisti, i quali smettono di essere e di vivere come se fossero una cosa sola e la stessa cosa fra di loro. Il tempo divide i loro Hibiol, la loro via all'autodeterminazione di sé, conferendo loro sfumature diverse.
Il destino di Maquia e il suo rapporto con Ariel è molto approfondito durante tutto il film e non credo necessiti di ulteriori introduzioni. Il mio intento, in questa recensione, era di inquadrare i concetti chiave a base della trama e i suoi presupposti narrativi per una introduzione più cosciente alla visione del film.
E dunque: di cosa parla "Maquia"? Offre un monito e lancia un messaggio. La sofferenza della solitudine di creature che, con la loro esistenza, arrivano ad abbracciare secoli di storia, non si attenua evitando di dire "Sayonara" alle persone care che si possono incontrare al di fuori della cerchia del proprio clan e isolandosi nell'alienazione della propria eternità, ma vivendo nel tempo dei "mortali" i propri sentimenti per le persone amate e sempre nel tempo avere la forza d'animo di poterle salutare, senza rimpiangere la diversa longevità, e portare comunque i ricordi di quei momenti sempre con sé, compagni di viaggio e imperituri.
I sentimenti provati e soprattutto ricambiati che ci fanno sentire vivi, anche soltanto per un breve lasso di tempo, sono la nostra più concreta e reale autodeterminazione, perché quest'ultima non è autoreferenziale, ma ci viene riconosciuta da chi ci ama e, quando gli altri non ci saranno più, continueranno a vivere dentro di noi, tessendoci ancora e ancora. Così la memoria delle persone alle quali abbiamo saputo dire "Sayonara" senza rimpianti (pur essendo l'ultima volta) passa dall'essere memoria di un pezzo di stoffa ad essere memoria vivente, memoria del cuore, sempre intenta a tessere chi la tramanda.
L'apparato tecnico, a mio avviso, presenta elevati punti di forza quali l'evidente ricchezza di dettagli e fantasmagoria dei fondali, rappresentazioni di un mondo estasiante da vedere, una straordinaria fotografia con colori molto accesi, sfavillanti anche nelle parti più buie. Un ventaglio cromatico di infinita ricchezza.
Le musiche puntellano efficacemente la storia e fanno la loro bella figura nelle scene di maggior pathos, valorizzandole e rendendole emozionanti al punto giusto. Il charachter design, molto abbozzato e minimale, la dice lunga sulla scelta di campo dei produttori di puntare tutto sull'impatto visivo dei paesaggi e sullo stimolo dato dalle suggestioni cromatiche. Ciononostante, le espressioni facciali dei personaggi sono molto accurate e suggeriscono più di mille dialoghi.
Prima di passare ai punti deboli dell'opera, credo sia ragionevole sorvolare sulla sceneggiatura, cucita in maniera sufficiente a fare il proprio lavoro. Le scene chiave sono rese in maniera esauriente e gli eccessivi salti temporali non tolgono nulla alla comprensione del senso dell'opera. Di certo non era tenuta ad essere, per principio, un punto di forza.
Discorso che non si può fare sulle animazioni. Nel complesso si mantengono su un buon livello ma, quando viene usata la CGI, si nota e pesa un po' sulla scorrevolezza delle animazioni.
La cosa che più mi ha deluso, ad una visione più attenta, è la regia abbastanza appiattita sulle inquadrature dei visi, senza offrire significative e alternative inquadrature di campo. Unica nota di merito, la breve scena in piano sequenza di Maquia inseguita da Renato all'interno dell'edificio di Iorph, all'inizio del film.
In conclusione: che questo film abbia dei difetti è innegabile; d'altro canto, la morale alla base del film, non banale e di una certa caratura, una pregevole cura dei dettagli dei paesaggi e degli interni, un'offerta cromatica di prim'ordine con un'eccellente fotografia, e il comparto musicale dignitoso ed efficace, innalzano parecchio il voto dell'opera e, non volendo essere troppo fiscali, direi che forse ad un buon voto ci possiamo arrivare.
Valutazione. 8
Dannati ninja affettatori di cipolle, smettetela di nascondervi in casa mia, facendomi lacrimare gli occhi!
Scherzi a parte, il finale mi ha commosso. Nonostante alcune decisioni da parte dei personaggi non mi siano del tutto chiare e alcuni "cattivoni" siano un po' troppo banalizzati, in fin dei conti la scrittura della trama mi è sembrata sensata e rimane piuttosto interessante in tutte le 'fasi' della storia. Anche se alcune parti le avrei davvero allungate, per avere una comprensione di questo universo fantasy un po' più approfondita.
Ci sarebbe stata una miniserie da nove-dieci episodi... ma va bene lo stesso. Lo scorrere veloce degli eventi nel film enfatizza ancora di più la prospettiva della protagonista sul mondo che la circonda.
Mi è piaciuto molto com'è stata sviluppata la riflessione intorno al concetto di immortalità, ad esempio il fatto che questa possa essere vista sia come una benedizione che come una maledizione allo stesso tempo; è un buon modo per ragionare su cose reali (come la spasmodica paura dell'uomo di perdere il proprio "io", portandoci a sperare in una vita oltre la morte o a cercare, soprattutto in passato, improbabili elisir di lunga vita) attraverso ambientazioni e personaggi fantasy.
Un bel film; mi scuso in anticipo per la terminologia un po' troppo professionale, ma ci tengo a segnalare la ricchezza di momenti "aww" e momenti "sigh", ma anche di momenti "grrr" e "yeee".
Di tutto un po'.
Due ore spese bene.
Scherzi a parte, il finale mi ha commosso. Nonostante alcune decisioni da parte dei personaggi non mi siano del tutto chiare e alcuni "cattivoni" siano un po' troppo banalizzati, in fin dei conti la scrittura della trama mi è sembrata sensata e rimane piuttosto interessante in tutte le 'fasi' della storia. Anche se alcune parti le avrei davvero allungate, per avere una comprensione di questo universo fantasy un po' più approfondita.
Ci sarebbe stata una miniserie da nove-dieci episodi... ma va bene lo stesso. Lo scorrere veloce degli eventi nel film enfatizza ancora di più la prospettiva della protagonista sul mondo che la circonda.
Mi è piaciuto molto com'è stata sviluppata la riflessione intorno al concetto di immortalità, ad esempio il fatto che questa possa essere vista sia come una benedizione che come una maledizione allo stesso tempo; è un buon modo per ragionare su cose reali (come la spasmodica paura dell'uomo di perdere il proprio "io", portandoci a sperare in una vita oltre la morte o a cercare, soprattutto in passato, improbabili elisir di lunga vita) attraverso ambientazioni e personaggi fantasy.
Un bel film; mi scuso in anticipo per la terminologia un po' troppo professionale, ma ci tengo a segnalare la ricchezza di momenti "aww" e momenti "sigh", ma anche di momenti "grrr" e "yeee".
Di tutto un po'.
Due ore spese bene.
Credo proprio che questa volta comincerò la recensione dalla fine, tanto già si vede il voto, quindi direi che si possa fare. Allora, penso che questo sia uno dei film migliori che abbia visto fino ad oggi, e rientra tranquillamente nella mia categoria degli imperdibili, senza neanche doverci pensare troppo. Trama, animazioni, personaggi, disegni, musiche, colonna sonora, insomma dall'inizio fino ai titoli di coda è un film riuscito al 100%, ma, senza dilungarmi troppo adesso, andiamo a scoprire nel dettaglio cos'è e com'è questo film.
"Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana wo Kazarō", tradotto in "Maquia - Decoriamo la mattina dell'addio con i fiori promessi", è un film tratto da un'opera originale dell'inverno del 2018.
L'opera, brevemente, parla di un mondo che possiamo definire straordinario, dove vive un popolo leggendario chiamato Iolph, che, raggiunta l'adolescenza, smette radicalmente di crescere e invecchiare, se non fosse per la lunghezza e il colore dei capelli. Qui troviamo Maquia, la nostra protagonista, che passa le giornate in piena pace ricoprendo il ruolo di assistente dell' "anziana" del villaggio, intrecciando speciali panni, gli "Hibiol", dove verrà poi riportata tutta la storia del popolo.
L'anime è qualcosa di spettacolarmente bello ed emozionante: una ragazza che già da subito, fin dalle prime scene, sente il "peso" della propria "natura", e le mille domande che nei primi minuti ci propone inquadrano già da subito alla perfezione quale sarà l'evolversi della storia e quale sarà il tema principale affrontato... L'eterna giovinezza e la paura di rimanere da sola.
Poco dopo aver iniziato la visione e aver cominciato a capire che questo non è un film come tutti gli altri, ci viene subito proposta una delle frasi cardine di quest'opera, quando la somma anziana, parlando con Maquia, le dice: "Se mai dovessi lasciare Iolph, qualora facessi degli incontri nel mondo esterno, non dovrai amare nessuno; se amassi qualcuno, ti ritroveresti davvero da sola". Questa frase non ha bisogno di spiegazioni, già da sola rappresenta tutte le emozioni che vuole farci sentire e arrivare il film.
La trama prosegue con un attacco da parte di alcuni invasori esterni, e Maquia insieme a tutto il popolo si "disperde", dovendo abbandonare il proprio villaggio. È da qui che comincia il viaggio che Maquia dovrà intraprendere per vivere la sua nuova vita nel mondo esterno.
Qui mi fermo perché altrimenti so che, se continuassi, non riuscirei a fermarmi e potrei veramente scriverla tutta.
L'opera è caratterizzata da veri e propri balzi temporali che fanno sì che lo spettatore possa avere la visione della storia più chiara e godersi appieno "l'evoluzione" del mondo che circonda i protagonisti. Potrebbe sembrare strano fare dei salti di più e più anni, lasciando un "vuoto" apparente, ma non è questo il caso, poiché la storia ha bisogno di questi salti anche per far capire meglio e interpretare le varie scelte che i personaggi scelgono di fare e soprattutto la maturazione, in particolare per la nostra protagonista (ma non solo), che può avvenire solamente con il tempo e l'esperienza.
Nel film è presente sicuramente una lotta "interna", come abbiamo detto prima, tema centrale dell'opera, ma soprattutto una lotta "esterna" (l'invasione descritta all'inizio), che potremmo identificare come una paura o comunque un temere l'ignoto e quello che non si conosce, tanto da volerlo sfruttare per i propri tornaconti senza preoccuparsi di come possano sentirsi gli altri e di come possano reagire.
Sfondi e animazioni sono qualcosa di eccellente, tutti i background dalla prima all'ultima scena sono fatti con un'accuratezza e un gioco di luci e riflessi che portano veramente a pensare se sia un disegno oppure una foto che ritrae la realtà.
Con soundtrack degne di nota, le scene sono riuscite a dovere, anche grazie a un sottofondo sempre presente e giusto per ogni occasione, dalla scena riflessiva alla scena della battaglia, passando per i rumori provenienti dai tavoli di una locanda che sembra quasi di stare seduti lì di fianco, finendo con quelle scene che veramente ti lasciano quel "non so che" che ti fa alzare in piedi e dire: "Sì, questo è veramente uno dei film più belli che io abbia mai visto".
Menzione speciale alla ending "Viator", che dopo la visione va assolutamente ascoltata e ascoltata di nuovo con il magico potere che ha di far sembrare che la si sta ascoltando sempre per la prima volta.
Siamo arrivati alle conclusioni finali e, se non bastassero le righe che vi hanno portato fin qui, con piacere ribadisco che è un film da non perdere assolutamente, e qui, quando ormai tutto è stato detto, concludo dicendo che una forte, anzi fortissima emozione finale viene data proprio dall'ultima scena, dove tutto sembra tornare al proprio posto, dove tutto sembra non essersi mai mosso dall'inizio e dove tutto il percorso che, forse, fino a quel momento era stato fin troppo travagliato per la nostra protagonista la riporta a casa, ma non senza prima aver appreso che amare la farà sì rimanere da sola, ma amare è quello alla quale lei stessa era destinata fin dall'inizio.
"Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana wo Kazarō", tradotto in "Maquia - Decoriamo la mattina dell'addio con i fiori promessi", è un film tratto da un'opera originale dell'inverno del 2018.
L'opera, brevemente, parla di un mondo che possiamo definire straordinario, dove vive un popolo leggendario chiamato Iolph, che, raggiunta l'adolescenza, smette radicalmente di crescere e invecchiare, se non fosse per la lunghezza e il colore dei capelli. Qui troviamo Maquia, la nostra protagonista, che passa le giornate in piena pace ricoprendo il ruolo di assistente dell' "anziana" del villaggio, intrecciando speciali panni, gli "Hibiol", dove verrà poi riportata tutta la storia del popolo.
L'anime è qualcosa di spettacolarmente bello ed emozionante: una ragazza che già da subito, fin dalle prime scene, sente il "peso" della propria "natura", e le mille domande che nei primi minuti ci propone inquadrano già da subito alla perfezione quale sarà l'evolversi della storia e quale sarà il tema principale affrontato... L'eterna giovinezza e la paura di rimanere da sola.
Poco dopo aver iniziato la visione e aver cominciato a capire che questo non è un film come tutti gli altri, ci viene subito proposta una delle frasi cardine di quest'opera, quando la somma anziana, parlando con Maquia, le dice: "Se mai dovessi lasciare Iolph, qualora facessi degli incontri nel mondo esterno, non dovrai amare nessuno; se amassi qualcuno, ti ritroveresti davvero da sola". Questa frase non ha bisogno di spiegazioni, già da sola rappresenta tutte le emozioni che vuole farci sentire e arrivare il film.
La trama prosegue con un attacco da parte di alcuni invasori esterni, e Maquia insieme a tutto il popolo si "disperde", dovendo abbandonare il proprio villaggio. È da qui che comincia il viaggio che Maquia dovrà intraprendere per vivere la sua nuova vita nel mondo esterno.
Qui mi fermo perché altrimenti so che, se continuassi, non riuscirei a fermarmi e potrei veramente scriverla tutta.
L'opera è caratterizzata da veri e propri balzi temporali che fanno sì che lo spettatore possa avere la visione della storia più chiara e godersi appieno "l'evoluzione" del mondo che circonda i protagonisti. Potrebbe sembrare strano fare dei salti di più e più anni, lasciando un "vuoto" apparente, ma non è questo il caso, poiché la storia ha bisogno di questi salti anche per far capire meglio e interpretare le varie scelte che i personaggi scelgono di fare e soprattutto la maturazione, in particolare per la nostra protagonista (ma non solo), che può avvenire solamente con il tempo e l'esperienza.
Nel film è presente sicuramente una lotta "interna", come abbiamo detto prima, tema centrale dell'opera, ma soprattutto una lotta "esterna" (l'invasione descritta all'inizio), che potremmo identificare come una paura o comunque un temere l'ignoto e quello che non si conosce, tanto da volerlo sfruttare per i propri tornaconti senza preoccuparsi di come possano sentirsi gli altri e di come possano reagire.
Sfondi e animazioni sono qualcosa di eccellente, tutti i background dalla prima all'ultima scena sono fatti con un'accuratezza e un gioco di luci e riflessi che portano veramente a pensare se sia un disegno oppure una foto che ritrae la realtà.
Con soundtrack degne di nota, le scene sono riuscite a dovere, anche grazie a un sottofondo sempre presente e giusto per ogni occasione, dalla scena riflessiva alla scena della battaglia, passando per i rumori provenienti dai tavoli di una locanda che sembra quasi di stare seduti lì di fianco, finendo con quelle scene che veramente ti lasciano quel "non so che" che ti fa alzare in piedi e dire: "Sì, questo è veramente uno dei film più belli che io abbia mai visto".
Menzione speciale alla ending "Viator", che dopo la visione va assolutamente ascoltata e ascoltata di nuovo con il magico potere che ha di far sembrare che la si sta ascoltando sempre per la prima volta.
Siamo arrivati alle conclusioni finali e, se non bastassero le righe che vi hanno portato fin qui, con piacere ribadisco che è un film da non perdere assolutamente, e qui, quando ormai tutto è stato detto, concludo dicendo che una forte, anzi fortissima emozione finale viene data proprio dall'ultima scena, dove tutto sembra tornare al proprio posto, dove tutto sembra non essersi mai mosso dall'inizio e dove tutto il percorso che, forse, fino a quel momento era stato fin troppo travagliato per la nostra protagonista la riporta a casa, ma non senza prima aver appreso che amare la farà sì rimanere da sola, ma amare è quello alla quale lei stessa era destinata fin dall'inizio.
"Maquia" è un film scritto e diretto da Mari Okada, autrice già nota per il proprio stile in altre opere, ed è il nome della protagonista che fa parte di un popolo chiamato Iorph. Gli Iorph, i quali hanno un compito ben preciso che verrà introdotto già all'inizio, hanno una longevità che supera di gran lunga quella di un essere umano, e per questo vivono confinati nel loro villaggio, mantenendo un rapporto distaccato e di timore verso i regni esterni. Una serie di eventi porteranno Maquia a intraprendere il suo viaggio nel mondo, e a scoprire quei rapporti umani ed emozioni che per tanto tempo le sono stati negati dall'isolamento. La solitudine causata da una vita fuori dal tempo diventerà sempre più tangibile per la protagonista, unita a un'esperienza di maternità nata da un ritrovamento particolare, e farà da filo conduttore allo scorrere degli eventi del mondo in cui vive. Il film a livello tecnico è di medio-alto livello e il tratto dell'autrice è ben in risalto nelle ambientazioni fantasy, senza dimenticare la colonna sonora.
In definitiva, una bella storia raccontata bene, dove l'autrice almeno in quest'opera non si perde in eccessi meglio definiti come "forced drama", e mantiene l'attenzione per tutta la durata del film.
In definitiva, una bella storia raccontata bene, dove l'autrice almeno in quest'opera non si perde in eccessi meglio definiti come "forced drama", e mantiene l'attenzione per tutta la durata del film.
Attenzione: la recensione contiene spoiler
“Sayonara no Asa ni Ya Kusuku no Hana o Kazero” (titolo inglese: “Maquia. When the Promised Flower Blooms” - più o meno si può tradurre come: “Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi”) è un film giapponese del 2018, tratto dal manga omonimo, da noi ancora inedito.
Spero che presto possa essere presentato al pubblico italiano in sala, come è già successo per altre opere d’animazione del Sol Levante, perché è davvero un’opera notevole, originale e insolita nell'affrontare una tematica classica, in maniera toccante e profonda.
La regista Mari Okada è alla sua opera prima in tale ambito, ma ha alle spalle una solida esperienza di sceneggiatrice di serie animate di successo (“AnoHana” nel 2011, “Vampire Night Guilty” nel 2008, “Mobile Suit Gundam” nel 2015, solo per citare i titoli più conosciuti qui da noi).
La storia è davvero curiosa; la locandina del film lascia pensare a un racconto del tutto diverso, se non prevedibile, invece dopo la prima mezz’ora ci ritroviamo proiettati dentro una vicenda che non ci aspettavamo.
Maquia, la protagonista, è una giovane fanciulla che appartiene al popolo degli Iolph, esseri isolati dal resto dell’umanità che, raggiunta l’età adulta, smettono di invecchiare e vivono in eterno. Sono creature pacifiche che passano l’esistenza a tessere l’Hibiol, una tela preziosa che conserva la loro memoria, e attraverso cui comunicano pensieri e sentimenti. Il segreto della loro longevità immortale fa gola al regno di Mazarte, nazione con mire espansionistiche, che manda i suoi soldati a cavallo di draghi a rapire la principessa del clan, Leilia, per darla in sposa al principe del regno, nella speranza di una discendenza eterna che fortifichi la loro egemonia sui territori vicini.
Le prime immagini sono davvero spettacolari, i colori vivaci, gli sfondi luminosi ci proiettano in questo mondo idilliaco, una sorta di paradiso che pare perfetto e inviolabile, fermo e immobile nel suo ritmo eterno, finché non verrà invaso da una realtà più cruda e cupa.
L’animazione è di alto livello, la grafica suggestiva.
L’elemento fantasy è ridotto all'essenziale e serve solo da pretesto per sviluppare il concetto chiave del film in una forma originale, un’ottica nuova e insolita, che acquista complessità con l’evolversi della storia della giovane Maquia.
La fanciulla, orfana di entrambi i genitori, pur amata dalla sua gente, avverte il peso della solitudine; in seguito all'attacco di Mazarte, si ritrova viva per miracolo e isolata dagli altri, in un mondo ostile che non conosce. A questo punto avviene la svolta della sua vita, che è poi la svolta clamorosa del film che vira in una direzione inattesa; Maquia, in fuga dal suo mondo, trova sulla sua strada un neonato stretto tra le braccia della madre morta, e decide di prendersene cura come se fosse figlio suo.
Così, Maquia ha il primo impatto con la forza di un legame che lega una madre al figlio, lo sente nelle dita rigide e fredde che non vogliono staccarsi dalla testolina del bambino, come se ancora lo volessero proteggere. È il primo doloroso confronto con la realtà umana dell’amore, con la morte che separa e taglia anche i legami più forti. Maquia non ha nessuna esperienza, è essa stessa quasi una bambina, e il suo aspetto fanciullesco, dolce e infantile, quasi etereo e candido, è suggerito dal character designer davvero poetico e delicato che rende lei e la sua gente, così diversi dagli altri personaggi, tratteggiati con un realismo diverso, dove i colori sembrano più caldi, dominati da tinte naturali, più terrene.
Inizia così il rapporto particolare non sempre facile, fatto di amore, conflitto e problematiche varie, tra questa madre che non invecchia e resta sempre uguale - tranne che nel colore dei capelli che assumono una tonalità rossiccia, elemento forse simbolico - e il figlio che cresce e diventa adulto, ragazzo e poi uomo.
La maternità è il tema centrale del film, quella di Maquia, consapevole dei suoi limiti e delle difficoltà date dalla sua natura, spaventata dall'idea di restare sola, costretta a nascondersi dai soldati che cercano quelle come lei, e impossibilitata a mantenere rapporti normali perfino con la famiglia che l’accoglie all'inizio della sua avventura.
Struggente la scena dove rifiuta di legarsi al ragazzo con cui è cresciuta come una sorella, dolorosamente consapevole che un giorno le loro strade si separeranno, e ci rendiamo conto che tale angoscia è vissuta anche nel suo ruolo di madre, pur facendo di tutto per non separarsi da Erial, che inizia ad essere in conflitto con lei.
In parallelo alla sua storia, accennata c’è la solitudine e la maternità dolorosa e negata di Leilia, considerata un mostro, a cui, oltre la libertà, hanno sottratto la figlia subito dopo la nascita, che non ha altro valore se non mettere al mondo un erede che abbia il dono dell’immortalità.
Qui il film ha davvero un’impronta dolorosa, nettamente opposta alle immagini iniziali di paradiso perduto, e i concetti diventano via via più profondi; Leilia ha perso tutto, la sua gente, il ragazzo che amava che tenta di salvarla senza successo, la figlia che non vedrà mai, se non alla fine.
La maternità non è solo gioia, può essere anche dolore, può essere anche separazione, quando i figli vanno per la loro strada, come farà Erial, che diventerà padre e si farà la sua famiglia.
Complessivamente omogeneo e abbastanza lineare, nella trama c’è qualche punto qua e là che non convince; è un po’ confusa la sceneggiatura in qualche passaggio, per cui non ho afferrato esattamente il momento in cui Maquia e il figlio si separano, e lei torna tra la sua gente, ma è davvero poca cosa, e non compromette l’andamento generale del racconto.
C’è un conflitto nel regno degli uomini mortali che non hanno scoperto il segreto dell’immortalità; tutta questa parte bellica è solo di contorno e trattata un po’ superficialmente, ma nel senso complessivo del film ha importanza marginale.
È commovente, straziante e doloroso il finale, che punta l’attenzione su un altro aspetto tragico che può avere la maternità; una madre deve lasciare andare suo figlio, ormai anziano, dopo una vita vissuta, dopo aver costruito degli affetti.
Maquia può dire di aver amato, ed è felice solo di aver vissuto per questo, nonostante le parole con cui, all'inizio del film, la saggia del suo clan l’aveva messa in guardia: una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.
P.S. Mi fa davvero piacere che a breve avremo quest' opera almeno in home video, doppiata in italiano, non vedo l'ora.
“Sayonara no Asa ni Ya Kusuku no Hana o Kazero” (titolo inglese: “Maquia. When the Promised Flower Blooms” - più o meno si può tradurre come: “Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi”) è un film giapponese del 2018, tratto dal manga omonimo, da noi ancora inedito.
Spero che presto possa essere presentato al pubblico italiano in sala, come è già successo per altre opere d’animazione del Sol Levante, perché è davvero un’opera notevole, originale e insolita nell'affrontare una tematica classica, in maniera toccante e profonda.
La regista Mari Okada è alla sua opera prima in tale ambito, ma ha alle spalle una solida esperienza di sceneggiatrice di serie animate di successo (“AnoHana” nel 2011, “Vampire Night Guilty” nel 2008, “Mobile Suit Gundam” nel 2015, solo per citare i titoli più conosciuti qui da noi).
La storia è davvero curiosa; la locandina del film lascia pensare a un racconto del tutto diverso, se non prevedibile, invece dopo la prima mezz’ora ci ritroviamo proiettati dentro una vicenda che non ci aspettavamo.
Maquia, la protagonista, è una giovane fanciulla che appartiene al popolo degli Iolph, esseri isolati dal resto dell’umanità che, raggiunta l’età adulta, smettono di invecchiare e vivono in eterno. Sono creature pacifiche che passano l’esistenza a tessere l’Hibiol, una tela preziosa che conserva la loro memoria, e attraverso cui comunicano pensieri e sentimenti. Il segreto della loro longevità immortale fa gola al regno di Mazarte, nazione con mire espansionistiche, che manda i suoi soldati a cavallo di draghi a rapire la principessa del clan, Leilia, per darla in sposa al principe del regno, nella speranza di una discendenza eterna che fortifichi la loro egemonia sui territori vicini.
Le prime immagini sono davvero spettacolari, i colori vivaci, gli sfondi luminosi ci proiettano in questo mondo idilliaco, una sorta di paradiso che pare perfetto e inviolabile, fermo e immobile nel suo ritmo eterno, finché non verrà invaso da una realtà più cruda e cupa.
L’animazione è di alto livello, la grafica suggestiva.
L’elemento fantasy è ridotto all'essenziale e serve solo da pretesto per sviluppare il concetto chiave del film in una forma originale, un’ottica nuova e insolita, che acquista complessità con l’evolversi della storia della giovane Maquia.
La fanciulla, orfana di entrambi i genitori, pur amata dalla sua gente, avverte il peso della solitudine; in seguito all'attacco di Mazarte, si ritrova viva per miracolo e isolata dagli altri, in un mondo ostile che non conosce. A questo punto avviene la svolta della sua vita, che è poi la svolta clamorosa del film che vira in una direzione inattesa; Maquia, in fuga dal suo mondo, trova sulla sua strada un neonato stretto tra le braccia della madre morta, e decide di prendersene cura come se fosse figlio suo.
Così, Maquia ha il primo impatto con la forza di un legame che lega una madre al figlio, lo sente nelle dita rigide e fredde che non vogliono staccarsi dalla testolina del bambino, come se ancora lo volessero proteggere. È il primo doloroso confronto con la realtà umana dell’amore, con la morte che separa e taglia anche i legami più forti. Maquia non ha nessuna esperienza, è essa stessa quasi una bambina, e il suo aspetto fanciullesco, dolce e infantile, quasi etereo e candido, è suggerito dal character designer davvero poetico e delicato che rende lei e la sua gente, così diversi dagli altri personaggi, tratteggiati con un realismo diverso, dove i colori sembrano più caldi, dominati da tinte naturali, più terrene.
Inizia così il rapporto particolare non sempre facile, fatto di amore, conflitto e problematiche varie, tra questa madre che non invecchia e resta sempre uguale - tranne che nel colore dei capelli che assumono una tonalità rossiccia, elemento forse simbolico - e il figlio che cresce e diventa adulto, ragazzo e poi uomo.
La maternità è il tema centrale del film, quella di Maquia, consapevole dei suoi limiti e delle difficoltà date dalla sua natura, spaventata dall'idea di restare sola, costretta a nascondersi dai soldati che cercano quelle come lei, e impossibilitata a mantenere rapporti normali perfino con la famiglia che l’accoglie all'inizio della sua avventura.
Struggente la scena dove rifiuta di legarsi al ragazzo con cui è cresciuta come una sorella, dolorosamente consapevole che un giorno le loro strade si separeranno, e ci rendiamo conto che tale angoscia è vissuta anche nel suo ruolo di madre, pur facendo di tutto per non separarsi da Erial, che inizia ad essere in conflitto con lei.
In parallelo alla sua storia, accennata c’è la solitudine e la maternità dolorosa e negata di Leilia, considerata un mostro, a cui, oltre la libertà, hanno sottratto la figlia subito dopo la nascita, che non ha altro valore se non mettere al mondo un erede che abbia il dono dell’immortalità.
Qui il film ha davvero un’impronta dolorosa, nettamente opposta alle immagini iniziali di paradiso perduto, e i concetti diventano via via più profondi; Leilia ha perso tutto, la sua gente, il ragazzo che amava che tenta di salvarla senza successo, la figlia che non vedrà mai, se non alla fine.
La maternità non è solo gioia, può essere anche dolore, può essere anche separazione, quando i figli vanno per la loro strada, come farà Erial, che diventerà padre e si farà la sua famiglia.
Complessivamente omogeneo e abbastanza lineare, nella trama c’è qualche punto qua e là che non convince; è un po’ confusa la sceneggiatura in qualche passaggio, per cui non ho afferrato esattamente il momento in cui Maquia e il figlio si separano, e lei torna tra la sua gente, ma è davvero poca cosa, e non compromette l’andamento generale del racconto.
C’è un conflitto nel regno degli uomini mortali che non hanno scoperto il segreto dell’immortalità; tutta questa parte bellica è solo di contorno e trattata un po’ superficialmente, ma nel senso complessivo del film ha importanza marginale.
È commovente, straziante e doloroso il finale, che punta l’attenzione su un altro aspetto tragico che può avere la maternità; una madre deve lasciare andare suo figlio, ormai anziano, dopo una vita vissuta, dopo aver costruito degli affetti.
Maquia può dire di aver amato, ed è felice solo di aver vissuto per questo, nonostante le parole con cui, all'inizio del film, la saggia del suo clan l’aveva messa in guardia: una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.
P.S. Mi fa davvero piacere che a breve avremo quest' opera almeno in home video, doppiata in italiano, non vedo l'ora.
Ultimamente mi capita spesso di approcciarmi a un’opera attirato dalla copertina, immaginandomi una certa serie di contenuti, e di scoprire poi, durante la visione, di sbagliarmi completamente; non so se sia dovuto a una mia assuefazione all’animazione giapponese coi suoi stereotipi o alla mia mancanza di fantasia, ma fatto sta che mi sono approcciato alla visione di “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” (lett. ‘Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi’) immaginandomi una certa avventura prevedibile in un universo fantasy, e invece mi sono trovato una storia che, delle mie aspettative, aveva solo l’universo fantasy... e “Meno male!” posso dire ora, perché, con mia gradita sorpresa, ho potuto seguire una storia molto forte, intensa, commovente e dolce, con l’amore, la solitudine e la maternità come temi portanti, classica per certi versi, molto originale per altri, ma che merita senza dubbio la visione.
‘Una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.’
Questa è la lapidaria lezione che apprende la giovane Maquia da Racine, l’anziana che comanda il suo clan. A prima vista può sembrare un controsenso, ma nel contesto in cui viene espressa assume ben altro significato: Maquia, infatti, è una ragazza quindicenne membro del “Clan delle Separazioni (o dei Separati)”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che hanno la capacità di non invecchiare mai una volta raggiunta una certa età, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Ma Maquia purtroppo questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia, ragazza quasi identica a lei, e Krim, ragazzo per il quale prova una piccola attrazione, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere l’Hibiol, un tessuto pregiato prodotto solo da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda, e inesorabilmente cambia a dispetto della loro condizione immutabile. Questa pacifica routine viene interrotta dall’attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph; nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunosamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il caso la mette però sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta infatti Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura, e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. E’ qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.
Tema portante della pellicola è infatti quello della maternità, affrontata sotto vari punti di vista, non solo quello di Maquia; emblematica in questo senso è una delle scene che ci viene presentata abbastanza presto nel film e che vede protagonista la sconosciuta madre di Ariel che, nel tentativo estremo di difendere il figlio, ha stretto talmente forte la sua mano attorno al capo dell’infante, che Maquia fatica ad aprirla per prenderlo. Ed è una scena questa che ci catapulta subito nelle atmosfere aspre del film, allontanando presto quel tono fiabesco che l’incipit ci aveva fatto immaginare, complice anche una componente grafica deliziosa ma della quale parlerò in seguito.
Altri sono i personaggi che vivranno la condizione di madre in modi e tempi diversi, che spazieranno dalla normale convivenza alla crudele separazione alla quale è condannata, per esempio, Leilia, rapita e costretta a mettere al mondo la figlia dell’erede al trono di Mezarte, senza avere la possibilità di crescerla e conoscerla, in quanto ritenuta una specie di mostro per le sue capacità. Ma sono ovviamente Maquia e Ariel ad occupare la scena per la maggior parte del tempo col loro rapporto tanto tenero quanto complicato da gestire, vista la dote di Maquia, eternamente bloccata nel corpo di una ragazza ma impegnata a fare da madre a un bambino che invece cresce, raggiunge e supera anche l’età apparente che dimostra la madre. E a questo problema specifico si aggiungono anche quelli immaginabili in una situazione simile, visto che Maquia è una ragazza volenterosa sì, ma cresciuta da sola e senza la minima esperienza su cosa significhi davvero l’essere genitore. Ed è su questi contrasti, discussioni, frizioni di un rapporto genitoriale classico e atipico allo stesso tempo che il film dà il meglio di sé, raccontando la crescita di un legame messo costantemente a dura prova, eppure tanto forte e indissolubile da superare gli ostacoli del tempo e del mondo ostile che li circonda, una storia d’amore puro che sa rapirti e riempire il cuore di quei sentimenti e ricordi che tanti hanno avuto la fortuna di vivere e che il trascorrere degli anni rischia spesso di far dimenticare. Non altrettanto coinvolgenti ho trovato invece gli aspetti che fanno da contorno a questa vicenda, come lo scenario politico bellicoso che fa da sfondo alle vicissitudini di Maquia e Ariel, tanto da arrivare a coinvolgerli in prima persona, ma che resta appena accennato e molto poco approfondito, o l’evoluzione che subiscono alcuni personaggi come Krim e Leilia che, da una parte, può essere anche giustificata, vista la durezza delle difficoltà che affrontano nel loro percorso, ma dall’altra stona col messaggio di fondo che vuole lanciare “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro”, che è di stampo positivistico, improntato all’apologia dell’amore, della famiglia e della tolleranza come attributi fondamentali nell’esistenza di ogni individuo. Piccoli difetti, insomma, che non sminuiscono assolutamente il valore della pellicola, che ha la fortuna di fregiarsi di un comparto tecnico davvero di alto livello.
“Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un film prodotto dalla Progressive Animation Works, per gli amici P.A. Works, studio relativamente giovane con all’attivo già diversi titoli di pregevole fattura abbastanza noti dagli appassionati di animazione giapponese, che qui si cimenta nella produzione del suo primo lungometraggio completamente indipendente, affidandosi a uno staff composto da veterani del settore, non tutti impegnati però nei ruoli in cui li si aspetterebbe, e mi riferisco in particolare a Mari Okada, prolifica e conosciutissima sceneggiatrice celebre per serie come “Anohana” e “Nagi no Asukara” , chiamata qui ad occuparsi non solo del suo incarico classico ma anche, e soprattutto, della regia del film, che segna il suo esordio in tal senso, un esordio, mi permetto di dire, decisamente riuscito: “Sayoasa” (l’abbreviazione ufficiale del titolo) è un film scorrevole, armonioso, che raggiunge in pieno il suo obiettivo e trasporta lo spettatore in un mondo dall’apparenza fiabesca estremamente affascinante. Questo grazie al contributo degli splendidi disegni, ovviamente, che emergono nella loro bellezza soprattutto nei fondali delle varie ambientazioni, vero marchio di fabbrica dello studio, rappresentazioni stupende di scenari che fondono natura e fantasia impreziositi da colori forti, brillanti e sempre adatti ad ogni occasione, talmente belli da farmi nascere l’unico vero rimpianto, di non aver potuto godere di tanta eleganza sul grande schermo cinematografico. Al confronto, quasi sfigura, ma anche il character design di Yuriko Ishii, adattamento a sua volta del design originale di Akihiko Yoshida (famoso soprattutto per i suoi lavori in ambito videoludico e, in particolare, su diversi capitoli della saga di “Final Fantasy”), collabora alla riuscita finale della pellicola in modo efficace, un disegno allo stesso tempo semplice e originale che regala dei personaggi non banali eppure di facile presa sul pubblico, che restano rapidamente impressi nella mente di chi guarda. A fare da collante a tutti questi lavori grafici ci sono poi le splendide animazioni, dirette sempre dalla stessa Ishii, impeccabili in ogni sequenza del film, sia in quelle più tranquille sia nelle poche, ma molto coinvolgenti, scene d’azione che “Sayoasa” regala.
Ad accompagnare tanta armonia grafica, c’è poi una colonna sonora di tutto rispetto, affidata a un altro mostro sacro qual è Keniji Kawai, la cui carriera si snoda in oltre tre decenni di partecipazione a serie e film celeberrimi tra appassionati e non, che ci offre musiche evocative e potenti in grado di seguire doviziosamente ogni segmento del film e di guidare lo spettatore, aiutandolo a immergersi completamente nelle atmosfere suggestive della pellicola; anche la theme song, affidata alla cantante Rionos, e intitolata “Viator”, cioè viaggiatore in latino, tocca le giuste corde dell’animo di chi guarda, chiudendo il lungometraggio con una canzone dolce e sensibile che si adatta perfettamente alla storia che racconta e che facilmente chiamerà lacrime di commozione a fare da contorno, cosa provata sulla mia pelle del resto. Impossibile infine non elogiare il doppiaggio giapponese di “Sayoasa”, potendo giudicare solo quello, visto che al momento in cui scrivo il film è inedito in Italia, un lavoro che ha esaltato sia degli esperti del campo come Yuki Kaji (voce di Krim), Miyu Irino (voce di Ariel da adulto), Ai Kayano (Leilia) e Miyuki Sawashiro (Racine), sia doppiatori poco più che esordienti come è, per esempio, Manaka Iwami, doppiatrice della protagonista Maquia alla sua prima prova in un film animato, che ha dato vita in modo più che convincente a un personaggio difficile da interpretare, vista la sua natura tormentata e la sua evoluzione, che la porta a passare dall’essere una ragazzina triste e un po’ piagnucolona a una donna responsabile e sensibile.
Alla luce di quanto scritto finora non è difficile quindi per me racchiudere in poche parole un giudizio su questo lungometraggio: “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un’opera bellissima, un film emozionante capace di trascinare lo spettatore come pochi e di far vivere tante emozioni diverse nella sua durata, quasi due ore che non ho mai accusato, devo dire, disegnato divinamente, e che merita assolutamente la visione, che consiglio caldamente a tutti senza distinzioni, ma in special modo a chi vive o ha vissuto problemi familiari coi propri genitori, le madri in particolare; la storia di Maquia e Ariel non è sovrapponibile ovviamente alle esperienze che ognuno può vivere nella propria vita, ma ci ricorda ancora di più quanto importante sia provare a instaurare un rapporto sereno e amorevole coi propri genitori e con le persone in generale, in modo da non avere mai il rimpianto di ritrovarci a un certo punto della nostra esistenza come la protagonista Maquia senza la possibilità di poter dire in maniera lucida e convinta: “Sono contento di avere amato!”.
‘Una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.’
Questa è la lapidaria lezione che apprende la giovane Maquia da Racine, l’anziana che comanda il suo clan. A prima vista può sembrare un controsenso, ma nel contesto in cui viene espressa assume ben altro significato: Maquia, infatti, è una ragazza quindicenne membro del “Clan delle Separazioni (o dei Separati)”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che hanno la capacità di non invecchiare mai una volta raggiunta una certa età, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Ma Maquia purtroppo questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia, ragazza quasi identica a lei, e Krim, ragazzo per il quale prova una piccola attrazione, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere l’Hibiol, un tessuto pregiato prodotto solo da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda, e inesorabilmente cambia a dispetto della loro condizione immutabile. Questa pacifica routine viene interrotta dall’attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph; nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunosamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il caso la mette però sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta infatti Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura, e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. E’ qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.
Tema portante della pellicola è infatti quello della maternità, affrontata sotto vari punti di vista, non solo quello di Maquia; emblematica in questo senso è una delle scene che ci viene presentata abbastanza presto nel film e che vede protagonista la sconosciuta madre di Ariel che, nel tentativo estremo di difendere il figlio, ha stretto talmente forte la sua mano attorno al capo dell’infante, che Maquia fatica ad aprirla per prenderlo. Ed è una scena questa che ci catapulta subito nelle atmosfere aspre del film, allontanando presto quel tono fiabesco che l’incipit ci aveva fatto immaginare, complice anche una componente grafica deliziosa ma della quale parlerò in seguito.
Altri sono i personaggi che vivranno la condizione di madre in modi e tempi diversi, che spazieranno dalla normale convivenza alla crudele separazione alla quale è condannata, per esempio, Leilia, rapita e costretta a mettere al mondo la figlia dell’erede al trono di Mezarte, senza avere la possibilità di crescerla e conoscerla, in quanto ritenuta una specie di mostro per le sue capacità. Ma sono ovviamente Maquia e Ariel ad occupare la scena per la maggior parte del tempo col loro rapporto tanto tenero quanto complicato da gestire, vista la dote di Maquia, eternamente bloccata nel corpo di una ragazza ma impegnata a fare da madre a un bambino che invece cresce, raggiunge e supera anche l’età apparente che dimostra la madre. E a questo problema specifico si aggiungono anche quelli immaginabili in una situazione simile, visto che Maquia è una ragazza volenterosa sì, ma cresciuta da sola e senza la minima esperienza su cosa significhi davvero l’essere genitore. Ed è su questi contrasti, discussioni, frizioni di un rapporto genitoriale classico e atipico allo stesso tempo che il film dà il meglio di sé, raccontando la crescita di un legame messo costantemente a dura prova, eppure tanto forte e indissolubile da superare gli ostacoli del tempo e del mondo ostile che li circonda, una storia d’amore puro che sa rapirti e riempire il cuore di quei sentimenti e ricordi che tanti hanno avuto la fortuna di vivere e che il trascorrere degli anni rischia spesso di far dimenticare. Non altrettanto coinvolgenti ho trovato invece gli aspetti che fanno da contorno a questa vicenda, come lo scenario politico bellicoso che fa da sfondo alle vicissitudini di Maquia e Ariel, tanto da arrivare a coinvolgerli in prima persona, ma che resta appena accennato e molto poco approfondito, o l’evoluzione che subiscono alcuni personaggi come Krim e Leilia che, da una parte, può essere anche giustificata, vista la durezza delle difficoltà che affrontano nel loro percorso, ma dall’altra stona col messaggio di fondo che vuole lanciare “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro”, che è di stampo positivistico, improntato all’apologia dell’amore, della famiglia e della tolleranza come attributi fondamentali nell’esistenza di ogni individuo. Piccoli difetti, insomma, che non sminuiscono assolutamente il valore della pellicola, che ha la fortuna di fregiarsi di un comparto tecnico davvero di alto livello.
“Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un film prodotto dalla Progressive Animation Works, per gli amici P.A. Works, studio relativamente giovane con all’attivo già diversi titoli di pregevole fattura abbastanza noti dagli appassionati di animazione giapponese, che qui si cimenta nella produzione del suo primo lungometraggio completamente indipendente, affidandosi a uno staff composto da veterani del settore, non tutti impegnati però nei ruoli in cui li si aspetterebbe, e mi riferisco in particolare a Mari Okada, prolifica e conosciutissima sceneggiatrice celebre per serie come “Anohana” e “Nagi no Asukara” , chiamata qui ad occuparsi non solo del suo incarico classico ma anche, e soprattutto, della regia del film, che segna il suo esordio in tal senso, un esordio, mi permetto di dire, decisamente riuscito: “Sayoasa” (l’abbreviazione ufficiale del titolo) è un film scorrevole, armonioso, che raggiunge in pieno il suo obiettivo e trasporta lo spettatore in un mondo dall’apparenza fiabesca estremamente affascinante. Questo grazie al contributo degli splendidi disegni, ovviamente, che emergono nella loro bellezza soprattutto nei fondali delle varie ambientazioni, vero marchio di fabbrica dello studio, rappresentazioni stupende di scenari che fondono natura e fantasia impreziositi da colori forti, brillanti e sempre adatti ad ogni occasione, talmente belli da farmi nascere l’unico vero rimpianto, di non aver potuto godere di tanta eleganza sul grande schermo cinematografico. Al confronto, quasi sfigura, ma anche il character design di Yuriko Ishii, adattamento a sua volta del design originale di Akihiko Yoshida (famoso soprattutto per i suoi lavori in ambito videoludico e, in particolare, su diversi capitoli della saga di “Final Fantasy”), collabora alla riuscita finale della pellicola in modo efficace, un disegno allo stesso tempo semplice e originale che regala dei personaggi non banali eppure di facile presa sul pubblico, che restano rapidamente impressi nella mente di chi guarda. A fare da collante a tutti questi lavori grafici ci sono poi le splendide animazioni, dirette sempre dalla stessa Ishii, impeccabili in ogni sequenza del film, sia in quelle più tranquille sia nelle poche, ma molto coinvolgenti, scene d’azione che “Sayoasa” regala.
Ad accompagnare tanta armonia grafica, c’è poi una colonna sonora di tutto rispetto, affidata a un altro mostro sacro qual è Keniji Kawai, la cui carriera si snoda in oltre tre decenni di partecipazione a serie e film celeberrimi tra appassionati e non, che ci offre musiche evocative e potenti in grado di seguire doviziosamente ogni segmento del film e di guidare lo spettatore, aiutandolo a immergersi completamente nelle atmosfere suggestive della pellicola; anche la theme song, affidata alla cantante Rionos, e intitolata “Viator”, cioè viaggiatore in latino, tocca le giuste corde dell’animo di chi guarda, chiudendo il lungometraggio con una canzone dolce e sensibile che si adatta perfettamente alla storia che racconta e che facilmente chiamerà lacrime di commozione a fare da contorno, cosa provata sulla mia pelle del resto. Impossibile infine non elogiare il doppiaggio giapponese di “Sayoasa”, potendo giudicare solo quello, visto che al momento in cui scrivo il film è inedito in Italia, un lavoro che ha esaltato sia degli esperti del campo come Yuki Kaji (voce di Krim), Miyu Irino (voce di Ariel da adulto), Ai Kayano (Leilia) e Miyuki Sawashiro (Racine), sia doppiatori poco più che esordienti come è, per esempio, Manaka Iwami, doppiatrice della protagonista Maquia alla sua prima prova in un film animato, che ha dato vita in modo più che convincente a un personaggio difficile da interpretare, vista la sua natura tormentata e la sua evoluzione, che la porta a passare dall’essere una ragazzina triste e un po’ piagnucolona a una donna responsabile e sensibile.
Alla luce di quanto scritto finora non è difficile quindi per me racchiudere in poche parole un giudizio su questo lungometraggio: “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un’opera bellissima, un film emozionante capace di trascinare lo spettatore come pochi e di far vivere tante emozioni diverse nella sua durata, quasi due ore che non ho mai accusato, devo dire, disegnato divinamente, e che merita assolutamente la visione, che consiglio caldamente a tutti senza distinzioni, ma in special modo a chi vive o ha vissuto problemi familiari coi propri genitori, le madri in particolare; la storia di Maquia e Ariel non è sovrapponibile ovviamente alle esperienze che ognuno può vivere nella propria vita, ma ci ricorda ancora di più quanto importante sia provare a instaurare un rapporto sereno e amorevole coi propri genitori e con le persone in generale, in modo da non avere mai il rimpianto di ritrovarci a un certo punto della nostra esistenza come la protagonista Maquia senza la possibilità di poter dire in maniera lucida e convinta: “Sono contento di avere amato!”.