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Strana, a tratti surreale. Si potrebbe aggiungere altro su "Witch Craft Works", una serie anime le cui uniche qualità evidenti sono l'impatto visivo sorprendente e una ending a dir poco divertente e molto più brillante della trama stessa della serie? Forse, ma ogni parola sarebbe votata alla delusione per una scatola finemente ornata ma il cui contenuto sparisce paragonato alla confezione. La trama, comunque, presentava spunti interessanti che avrebbero potuto elevarla facilmente alla qualità artistica dell'opera: Takamiya è uno studente normale, la cui unica sfortuna è quella di essere costantemente fiancheggiato, in classe, da Ayaka Kagari, la figlia della preside dell'istituto nonché talentuosa studentessa sia nello studio sia negli sport. Non guasta il fatto che sia bellissima e carismatica, tutte qualità che portano un enorme numero di ammiratrici attorno a lei, che, con le loro spropositate moine verso la "principessa", non fanno altro che disturbare la povera e pacifica vita dello studente. Takamiya è profondamente infastidito da tutto ciò, ma non sa che, in realtà, Kagari è una strega potentissima in grado di manipolare le fiamme e che è sempre stata vicino a lui per proteggerlo dagli assalti delle Streghe della Torre, una fazione di maghe i cui scopi sono solitamente malvagi ed egoistici, che da sempre lottano con le Streghe della Bottega, una fazione che si occupa di mantenere la pace nelle città e di proteggere i civili dalla magia. Kagari è la figlia della leader delle Streghe della Bottega che tutelano la città in cui Takamiya vive, ma perché è proprio lui a essere fra le mire delle Streghe della Torre? Cos'è quella cosa "bianca", sempre e volutamente non specificata, sigillata nel suo corpo che loro bramano?

Gli elementi che avrebbero reso l'opera un prodotto divertente e piacevole, capace di tenere incollato lo spettatore fino all'ultimo episodio, erano presentati sin dai primi istanti, a cominciare non solo dalla grande cura artistica, fatta di colori sgargianti, animazioni che scorrono fluide sullo schermo come acqua e un character design originale e ricolmo di colori, ma anche da un interessante inversione dei ruoli fra damigella in pericolo e cavaliere senza macchia e senza paura (in questa serie è Honoka Takamiya ad essere continuamente salvato da Ayaka Kagari) e da una comicità scandita dal cambio fra le scene d'azione e quelle legate alla vita quotidiana. In particolare, il comparto sonoro della serie accompagna egregiamente lo scambio repentino fra momenti pacifici e di tensione, aiutando a suscitare emozioni di tenerezza soprattutto nei flashback che illustrano piccoli pezzi del passato in cui Kagari e Takamiya si sarebbero incontrati.

Purtroppo, gli elementi interessanti non solo vengono sfruttati male, ma sono anche seguiti da una trama fumosa e da personaggi chiusi in una caratterizzazione fissa: l'inversione dei ruoli verrà accolta da più di un sospiro irritato dello spettatore, per via della misera personalità dei due protagonisti, che ripetono pedissequamente gli stereotipi della damigella senza carattere e del cavaliere integerrimo e taciturno. Honoka, infatti, è un ragazzo noioso e non solo per via della sua eterna indecisione, della sua autostima pari a zero e della sua effettiva incapacità nell'aiutare Kagari durante gli scontri. Il vero problema che rende impossibile provare un minimo di simpatia per lui è la sua completa inettitudine: Takamiya è un mezzo tramite il quale il pubblico osserva la perfezione della coprotagonista, non ha scopi, né hobby che siano rilevanti o che lo liberino dalle catene che lo tengono prigioniero nel suo ruolo di "donzella" in pericolo. Stesso discorso vale anche per Kagari, la cui aura d'invincibilità, seppur approfondita a metà serie, lascerà i suoi combattimenti con risultati facilmente intuibili e senza un briciolo di tensione o pathos. Il misterioso attaccamento che prova per il ragazzo, inoltre, sarà utilizzato a più riprese per le scenette comiche della serie, ma senza un ulteriore sviluppo della sua personalità, esattamente come per Takamiya.

Ad eccezione del quintetto di Streghe della Torre presente sin da inizio serie (divertentissime e unici personaggi che effettuano un cambiamento nel corso dell'anime), il triste destino dei protagonisti spetta anche ai comprimari e ai villain: i primi risultano anch'essi ancorati a una visione ripetitiva - un esempio eclatante è sen'altro Kasumi, la sorellina di Honoka, il cui desiderio morboso di stare sempre assieme al fratellone verrà sfruttato a scopo comico in modo più o meno riuscito, facendola sembrare più inquietante di Kagari (inutile dire che non verrà spiegato il perché di questo suo comportamento). I "cattivi", d'altro canto, godono di un'inconsistenza straordinaria, con motivazioni ambigue o ridotte all'osso, come nel caso di Chronoire, la quale viene introdotta come una Strega della Torre che vuole ottenere il potere di Honoka, ma che in seguito farà ben poco per dimostrarsi tale, arrivando addirittura ad aiutare le Streghe della Bottega durante l'arco finale della serie. Anche Medusa sembra ugualmente indefinita, mentre Weekend, pur concludendo molto di più delle prime nonostante la tardiva introduzione, risulta un personaggio stereotipato e privo di alcun interesse, che verrà umiliato senza particolari ostacoli dai buoni e non solo.

Una situazione così stagnante per i personaggi viene permessa anche dalla totale assenza di conseguenze per gli stessi, grazie a deus ex machina inspiegabili che ricostruiscono in poco tempo la città ogni volta che gli scontri fra streghe avvengono. Persino la visione disperata della conclusione, che sembra produrre qualche effetto su Takamiya, verrà riportata alla situazione originale senza che ci siano postumi sui protagonisti.

Per concludere, "Witch Craft Works" è una serie assolutamente ineccepibile a livello artistico, forse con un uso eccessivo e poco armonioso del 3D, ma che abbandona altri elementi fondamentali come il contesto, la trama e i personaggi, lasciando un senso di opera incompiuta che sarebbe potuta essere tranquillamente una serie bella e piacevole.

Cinque, per la metà di lavoro ben realizzata, ma seguita da un prorompente: "What the heck?!"