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Abbiamo condannato il lupo non per quello che è, ma per quello che abbiamo deliberatamente ed erroneamente percepito che fosse - l’immagine mitizzata di uno spietato assassino selvaggio - che, in realtà, non è altro che l’immagine riflessa di noi stessi.
- Farley Mowat

Bastano pochi secondi dei titoli di testa per invaghirsi di questo favoloso ricamo animato: dal sapore anticato e affascinante, lesti si viene trascinati in un indistinto Medioevo dal retrogusto vagamente disneyano, ove celebrità come il volpesco “Robin Hood” o la merliniana “Spada nella roccia” d’avventurosa e spassosa memoria riecheggiano fra pagine tinteggiate d’autunnale magia anglosassone. Campi incolti, alberi confusi, “ritagliati” dai fondali e posti a varie profondità come un libro pop-up ricco di fascino: se le lettere maiuscole dei titoli iniziali appaiono miniate, rimembrando una perizia da amanuense di tardo 1300, il design dei personaggi è una sorta di moderno retrò (dai medesimi autori de “La canzone del mare”, per intenderci), spigoloso, minimale, dai connotati riassunti ma espliciti, incisivi quel tanto che basta da assolvere al proprio fascinoso compito e nel contempo rievocare atmosfere e animazioni di quasi mezzo secolo fa.

Scopriamo così di trovarci a Kilkenny, nell’Irlanda del 1650, una landa bruna, selvaggia, irrorata da freddi raggi solari in una tarda sera d’autunno, poco prima che l’algido tramonto inghiotta l’orizzonte. Come per le più classiche fiabe dark, l’incipit ci mostra un taglialegna che, intento ad abbattere alberi sempre più grandi e antichi, è ormai prossimo alla macchia oscura e fitta del bosco. Dal cuore di quest’ultimo compare un branco di lupi che attacca il taglialegna e lo ferisce; tuttavia, i lupi non finiscono né divorano il malcapitato, poiché, una volta disarmato della sua ascia, accade l’imponderabile: nel momento più critico, dal sottobosco ecco palesarsi un’altra figura - una donna per l’esattezza - femminile dai capelli rossi come foglie autunnali e dalla silhouette abbondante, generosa, quasi sferica, vesti larghe, accoglienti e protettive, tant’è che in braccio culla una bambina che in tutto e per tutto le assomiglia. I suoi occhi verde giada fissano il taglialegna, e mentre i lupi si allontanano silenziosi, la donna s’avvicina, e, senza proferir parola, lenisce le sue ferite.
Allora l’uomo, sgomento, comincia a comprendere: non una donna, bensì una wolfwalker, uno spirito della foresta, qualcosa a metà fra un lupo mannaro e un’entità ancestrale, indissolubilmente legata al Branco, anzi, il fulcro, la mente, il nucleo di esso.
L’uomo è scosso, allibito, senza parole, mentre osserva il branco svanire nel fitto del bosco.
Cos’ha visto? Cos’ha vissuto?
Come potrà raccontarlo ai suoi amici?
Poco importa, ormai: la notizia dei lupi è ormai di dominio pubblico all’interno delle mura cittadine, non troppo distanti dalla natura selvaggia. Così, non trascorre molto tempo che, inevitabilmente, una feroce caccia ai lupi si scatena in lungo e in largo. Si tratta d’un pericolo troppo grande per tutta la comunità e motivo di grattacapi per chi governa il borgo.

Sin dal principio, la ruvida austerità neocoloniale che si respira è direttamente proporzionale al misticismo che permea il tutto, alla stregua d’una copertina sgualcita, ostinatamente rigida, eppure consumata ai bordi, ricamata da sfumature druidiche e litanie arcane: un estremo bilancia l’altro, ma entrambi si ignorano a vicenda.
Ogni passo della trama è accompagnato da una colonna sonora favolosa, emotivamente impattante e di stampo tipicamente irish, lunghissime radici che attingono dal folklore nordirlandese e ancor più antico celtico e sassone: ogni nota è color verde rigoglioso o arancio acceso, così intense da poterle vedere, tanto quanto udire.

Dopo tale, movimentato prologo, ecco esordire la nostra giovane protagonista, Robin, graziosa scavezzacollo dagli occhi di ghiaccio e dai capelli color miele soleggiato, figlia di uno dei più noti cacciatori di lupi della città, che, sebbene dovrebbe preoccuparsi del focolare, mentre il padre rischia la vita cacciando le fiere nel fitto dei boschi, in realtà sogna anch’ella di abbattere quelle terribili, spaventose bestie, magari al fianco del genitore, compiendo imprese eroiche che verranno tramandate ai posteri dai menestrelli, di taverna in taverna. Mantello verde edera, lunghe calze di lana, balestra, dardi e un fedele falco al seguito: la mira c’è, l’incoscienza pure. Fantastico, nevvero?
Robin non è propriamente l’esempio di figlia ubbidiente, così, quando il padre esce per l’ennesima caccia, lei lo segue di soppiatto, ed è così che la storia s’innesca: mai sciocchezza fu più grande, poiché i lupi ben presto finiscono per circondare la ragazzina, e un dardo scoccato maldestramente ferisce il povero falchetto accompagnatore (Merlin il suo nome), subitamente prelevato (o rapito?) proprio dalla più giovane delle wolfwalker, si presume quella bimba che, ad inizio storia, si trovava in grembo alla ben più autoritaria madre.
Si dipana da qui in poi un’altalena di emozioni, dapprima alla disperata ricerca di Merlin, un tuffo in quell’oscura foresta, sempre più mistica, dai calamitanti toni celtici e pagani, fondali dalle tinte fosche e tremendamente suggestive trasportanti lo spettatore scenario dopo scenario nel cuore della trama, un susseguirsi di dinamici eventi che avvicinerà Robin alla giovanissima wolfwalker, formando così un duetto di protagoniste insospettabilmente genuino, allegramente infantile, dolcissimo e spassoso.
Gli autori impostano facilmente il film sul concetto della difficoltà di accettarsi e accettare chi riteniamo troppo diverso da noi per non nutrire sospetto o, ancor peggio, paura. Immersi in fondali più da libro illustrato che da lungometraggio moderno, le scene si susseguono come rigide, affascinanti pagine di cartoncino tinteggiato da decisi acquarelli e tratti di carboncino dal gusto rustico e misterioso, di poesie desuete e nordiche armonie, un districarsi nel fitto sottobosco che condurrà lo spettatore lungo un itinerario artistico eccezionale, ricco di scorci e di allegorie visive che si rifanno al più basilare concetto cubista - un vero e proprio schiudersi delle tre dimensioni per poterle comprendere in due, proponendo uno scorrimento laterale della scena capace di valorizzare i protagonisti al centro dell’attenzione, in modo che emergano in maniera netta, proprio come l’effetto sortente un libro pop-up. Il tutto appare fluido, spontaneo, piacevole, immersivo e al tempo stesso sorprendente, un vero diletto per gli occhi.

“Al mondo non c'è bestia tanto temibile per l'uomo quanto l'uomo”, suggeriva Michel de Montaigne, e il punto focale di tutto wolfwalker è certamente questo: ciò che non capiamo, spesso o lo rifuggiamo o lo distruggiamo.
Fa parte della nostra natura, e sebbene esistano mille e mille eccezioni di buon cuore, la storia ci ha insegnato che, essendo noi bestie fortemente territoriali, egoiste e possessive, presto o tardi, secondo le necessità espansionistiche di un dato regno o nazione, sarà sicuramente il più debole e meno evoluto a rimetterci. Non si tratta di bene o male, ma di semplice attitudine, per quanto terribile; essendo il film ambientato nel 1650, superstizioni, religione e ignoranza rafforzano i timori del popolo (ergo, la tesi di De Montaigne), imbastendo una vera e propria caccia ai lupi senza quartiere.
Ma in “Wolfwalkers” non viene raccontato solo il cinismo dell’uomo. Parallelamente, viaggia al fianco della curiosità e dell’ingenuità delle due giovani protagoniste: una forte componente sovrannaturale permea la vicenda, rendendo vivi, potenti e reali vecchi racconti sussurrati intorno al fuoco e antiche leggende tramandate di padre in figlio; fortunatamente, dove non arriverà la crudeltà di gente ottusa e senza scrupoli, lo faranno il coraggio dell’amore e dell’amicizia.
Il film vola, corre selvaggiamente a tratti, scivola piacevolmente forte di un estetismo originalissimo, un crescendo che porta a un epilogo drammatico, tuttavia consolatorio e, perché no, lieto. Un tripudio di colori e allegorie di forti tonalità, rimandi a un paganesimo sepolto sotto secoli di leggende e affascinante mitologia ormai smarrita, una sequenza animata, luminosa e ricca di stupefacenti livree che terrà incollati allo schermo e sfiorerà il cuore nel profondo, grazie anche a indimenticabili note di violini e flauti ridondanti fino ai titoli di coda, melodie capaci di donare pace all’anima, in gemellaggio ai verdeggianti paesaggi e agli accenni di orizzonti incontaminati dalla mano spietata di quella fetta di umanità, che tutt’oggi, ha dimenticato la sacralità e l’importanza di Madre Natura e di tutti i suoi figli, ma spesso si lascia suggestionare da sciocche credenze o ridicole paure.

Un lungometraggio speciale, si potrebbe dire unico nella sua magica originalità, vessillo di una filosofia ineccepibile: soltanto abbracciando le nostre origini potremo convivere in pace con ciò che ci circonda. Accettiamoci per ciò che siamo e smetteremo di essere i principali nemici di noi stessi, incapaci di vedere il buono dentro di noi e, di conseguenza, dentro il prossimo.
Fiducia, altruismo, paura, discriminazione: è davvero il lupo che abita nel bosco la bestia malvagia o è l’uomo armato di fucile che vive fra alte mura di pietra la vera minaccia? Se il punto di vista cambia, cambia anche l’aggressore? O tutto è relativo in base alle proprie origini?
“Wolfwalkers” è la metafora di una società in rotta con sé stessa da sempre: far parte del branco equivale a far parte della famiglia, e proteggere il territorio - cacciare chi ci spaventa - sembra legittimo per autodifesa... almeno fino a quando non ci si rende conto che la Terra non è di nostra proprietà, e tutti abbiamo lo stesso diritto di abitarla, dal più piccolo e semplice degli esseri viventi, al più grande e complesso.
Analogie che ci portano a riflettere sull’importanza del rispetto verso ogni forma di vita, microcosmi che spesso molti ignorano, preferendo le mura dell’ignoranza rispetto alla vastità che può generare un’introspezione non facile da affrontare.
Sì, avete capito bene: “Wolfwalkers” merita tutta la vostra attenzione.