Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

-

Parlare di "Serial Experiments Lain" non è semplice.
Questo sia perché essa è effettivamente un'opera complessa, ma anche e soprattutto perché, essendo un'opera di tale complessità, tutti quelli che volevano darsi delle arie ne hanno parlato, sperticandosi in discorsi dall'apparenza intellettuale, ma dalla sostanza autoerotica.
Tutte queste cose sono chiaramente un'offesa verso "Serial Experiments Lain" come opera: non c'è nulla di più offensivo dell'idealizzazione, soprattutto se è strumentale a far idealizzare noi stessi agli altri.

Forse avrei potuto evitare questa premessa.
Purtuttavia, ho ritenuto necessario mettere in chiaro chi sono io, e chi sono buona parte dei "fan" di quest'opera, e anche qual è la dimensione dell'opera in sé e per sé, tutto ciò al fine che voi non confondiate me con loro, e il mio ego con la mia analisi dell'opera.

Dunque, partiamo da ciò che dicono tutti.
"Serial Experiments Lain" è una serie di tredici episodi trasmessa per la prima volta nel 1998, ed è d'impatto ancora oggi per il modo, quasi profetico, con cui ha descritto la possibile evoluzione dei mezzi di comunicazione, e il modo in cui ci rapportiamo con essi e tra di noi tramite essi.

"Serial Experiments Lain", però, non è solo questo.
L'anime è un vero e proprio saggio sull'individuo, sulla formazione dei legami tutti e su come le lenti e i filtri con cui guardiamo al mondo possono cambiare il modo in cui lo percepiamo, il mondo, ma anche su come queste lenti possono essere cambiate da elementi esterni per cambiare di conseguenza noi.
Tali concetti sono spiegati tramite una serie di elementi legati da relazioni antonime, e non complementari. Il Wired viene introdotto a Lain come strumento per ottenere informazioni e creare legami, ma il cui mondo è separato da quello "reale", e Lain invece dimostra che la dicotomia non è così netta. Il Wired è parte del mondo reale, e il mondo reale è parte del Wired; tutto questo, non essendo (non in quella parte dell'opera) pienamente sovrapposti.
Un rapporto che, come ho detto, esula dalla complementarietà, dalle scissioni binarie, ma è parte di quel caos organizzato di cui solo le relazioni umane sono parte.

Perché il dialogo artistico di "Serial Experiments Lain" non si ferma alla sola tecnologia. Anzi, la tecnologia è quasi solo un denominatore per esprimere al meglio le angosce, ma anche solo le riflessioni, di un periodo storico che, per l'avvento di tali tecnologie e l'avvicinarsi del nuovo millennio, stava sconvolgendo gli animi di chi lo viveva.
Come detto in precedenza, "Serial Experiments Lain" parla di umanità, di rapporti umani. L'individuo esiste solo in rapporto agli altri, o sono gli altri che esistono solo in rapporto a noi? La risposta ad entrambe le domande non è né "sì" né "no", ma "tendenzialmente sì" e "tendenzialmente no". Due risposte apparentemente in contrasto, che trovano senso solo nella realtà non contrastiva dell'esistenza umana, e che si rifanno a quel linguaggio usato dalle scienze matematiche per descrivere parti di realtà troppo complesse per essere comprese a pieno.
Perché forse la matematica è davvero l'alfabeto con cui Dio ha scritto il mondo, ma tale alfabeto sembra esserci giunto in una maniera incompleta, e chissà se non sia profondamente sbagliato.

E così, nell'interpretazione di "Serial Experiments Lain" degli studi sociali sull'argomento, l'umanità è vista come un organismo vivo e pulsante connesso da rapporti interpersonali, miliardi di neuroni connessi tra loro, miliardi di individui che si uniscono per agire come un individuo solo.
Si tratta esattamente di quella teoria della coscienza collettiva umana che è stata usata in altre opere, come l'arcinoto "Neon Genesis Evangelion", ma che trova in "Serial Experiments Lain" una delle sue descrizioni più profonde e interessanti.
Questo perché viene messa in prospettiva, relazionata a un insieme di altre strutture che si sovrappongono, spesso influenzandosi tra loro; e viene messo in chiaro come queste strutture sono innumerevoli, forse infinite, e comprenderle non è probabilmente possibile. Sicuramente non danno risposte chiare, e non dobbiamo illuderci di comprenderle, o di avere percezione di ogni cosa.

Il tema di "Dio nel Wired" e la rivelazione che quel Dio non è il vero Dio, ma solo qualcuno che è stato messo lì per ricoprire quel ruolo, può essere vista come una critica al positivismo, o comunque all'eccesso di fiducia nelle capacità umane.
Non possiamo credere che la logica sia l'unico strumento per discernere il mondo, poiché analizzando tutto ciò che è percepibile, ignora ciò che non lo è. Dopotutto, il rasoio di Occam non dice che le cose non esistono al di fuori delle nostre analisi, ma solo che non dobbiamo tenerne conto fin quando non abbiamo motivo di pensare siano esistenti e utili al nostro ragionamento.

Come ho detto, l'opera è complessa, ma è anche un manuale su come gestire al meglio tale complessità.
"Serial Experiments Lain" non è mai arrogante nel suo dialogo artistico con lo spettatore, usa la sua complessità per generare curiosità nel districarsi delle vicende e per far percepire l'immensa organicità e ramificazione tematica dell'opera, ma sapendo spiegare e presentare gli elementi che lo compongono, e avendo piena di consapevolezza di cosa lo spettatore può capire da solo e cosa lo spettatore può capire solo dopo aver lasciato qualche indizio, riuscendo quindi ad essere un'opera complessa, magari anche criptica, ma sicuramente non ermetica.

Volendo paragonare la scrittura di "Serial Experiments Lain" con quella di un'opera cinematografica uscita dieci anni prima, ovvero "Akira", il secondo mostra tutte quelle mancanze che invece fanno risplendere il primo, almeno sul piano di pura gestione della scrittura.
"Akira" è un'opera arrogante a livello narrativo, che pretende che lo spettatore comprenda una logica aliena all'immediata comprensione, e diventando quindi di difficile approccio anche a una visione attenta; "Serial Experiments Lain" invece, come detto, ha nella sua complessità uno dei suoi punti di forza, perché la sa mostrare al pubblico senza banalizzare o diventare didascalici.

Infine, un'ultima nota sul comparto estetico di quest'opera, che è la quintessenza di ciò che molte opere erano in quegli anni, tra la fine di un millennio e l'inizio del seguente. Un'estetica che rivediamo anche in "The Silver Case" di Suda51, o nel celebre "Metal Gear Solid", nonché in svariate visual novel di quel periodo. Un'estetica che fonde immagini reali, spesso alterate da filtri, con l'animazione, ma anche con altre trovate estetiche: riuscendo ad amalgamare il tutto anche grazie all'utilizzo di queste soluzioni su più piani "concettuali" diversi.
Un'estetica apprezzabile, che subito rimanda al periodo di concezione e uscita dell'opera, e che forse è l'unica cosa di cui dovremmo essere davvero nostalgici di quegli anni; soprattutto, però, tale estetica è coadiuvata alla perfezione con il resto dell'opera, con tutte le scelte registiche, che impreziosiscono ogni singolo secondo.
Perché in "Serial Experiments Lain" anche i lunghi silenzi sono maledettamente interessanti, e persino il ronzio dell'elettricità ha un significato preciso nel meccanismo della storia.

"Serial Experiments Lain" è semplicemente un monumento.
Alla vera arte, alla vera capacità di raccontare la complessità, a come far primeggiare l'opera e non l'ego di chi l'ha scritta.

Let's all love Lain!

Auf wiedersehen!

P.S. Dedico questa recensione a tutti quelli che mi considerano un "edgelord". Se ho dato 6 e mezzo al "L'attacco dei giganti", è perché nella mia analisi "L'attacco dei giganti" è un'opera da 6 e mezzo, non perché voglio fare l'alternativo.
Io voglio essere l'eccellenza, non la voce fuori dal coro.

8.5/10
-

"Mind Game"... tradotto letteralmente "gioco mentale" o "gioco psicologico", è il film di esordio di Maasaki Yuasa del 2004. Dell'ormai famoso regista, sceneggiatore e animatore ho avuto modo di apprezzare "Ride Your Wave" del 2019, ma lui aveva già raggiunto il successo qualche anno prima con "The Tatami Galaxy" del 2010, per poi confermarla con "Ping Pong The Animation" (2014), "Lu e la città delle sirene" (2017), "Devilman Crybaby" (2018), fino a "Japan Sinks" (2020) e "Inu-Oh" (2021).

"Mind Game" è l'opera prima di una delle personalità probabilmente più vivaci dell’animazione giapponese odierna, e questo film animato rappresenta probabilmente il manifesto del regista e la sua particolare visione dell'animazione.

Si potrebbe definire il film con tanti aggettivi qualificativi positivi, ma credo che ce ne sia uno particolarmente adatto: "anticonformista", nello stile in primis e poi nei anche nei contenuti, che oscillano tra la particolare visione anche "positiva" dell'esistenza e il nonsense, anche con sconfinamenti nel "pulp", con marcate venature tarantiniane (soprattutto all'inizio del film).

Un film che mi ha lasciato l'impressione di osservare la storyboard attraverso un caleidoscopio. Di sicuro chi è delle generazioni più risalenti come me (Baby boomers, X) saprà a cosa mi riferisco: quel tubo tipo "monocolo", che contiene due o più specchietti e piccoli oggetti colorati, attraverso il quale si osserva un'immagine. Ogni volta che lo si muoveva, quei pezzetti colorati frapposti con la luce e l'immagine formavano immagini diverse e affascinanti, psichedeliche e oniriche, diventando un vero e proprio filtro creativo sulla realtà.

Perché ho utilizzato la metafora del caleidoscopio per descrivere il primo film di Maasaki Yuasa?
Perché "Mind Game" mi ha rammentato le teorie sul "pensiero caleidoscopico" di una docente universitaria, Rosabeth Moss Kanter (Harvard University), che ha sostenuto che «Il caleidoscopio è un insieme flessibile di elementi: se lo ruoti, o se guardi da una diversa angolazione, puoi vedere un’immagine o un pattern diverso. Non è la realtà che è fissa, ma la nostra visione della realtà. È importante imparare a vedere nuove possibilità».

Tale affermazione sembra calzare a pennello su "Mind Game", un film che dopo la sua visione lascia allo spettatore la sensazione di essere stato stimolato nell'immaginazione, nell'ampliamento della propria visione della realtà, per far apprezzare idee e soluzioni diverse dalla solita esperienza sensoriale e mentale.
Un vero e proprio invito ad accogliere idee e concetti che potrebbero sembrare prima facie anche contrapposti tra loro, senza scartarli sommariamente a priori.

E così l'esordiente Yuasa con "Mind Game" ha animato un mondo atipico, fuori dai canoni o dalle solite convenzioni del mainstream sia dell'animazione sia delle modalità narrative della storia.
E come tutte le opere "sperimentali", sembra che alla sua uscita il film sia stato un flop, al pari di altre opere di illustri registi del calibro di M. Oshii o H. Anno (vedi rispettivamente "Tenshi no Tamago" e anche "Neon Genesis Evangelion"), che hanno tentato di innovare rispetto al genere e stile che andavano per la maggiore nel periodo.

La trama è un viaggio metaforico/onirico sull'esistenza umana e sulla determinazione a voler incidere sul proprio destino "against all odds and issues".
E Yuasa lo fa a modo suo con uno mix di stili narrativi che partono da una sequenza ipnotica iniziale di immagini estrapolate dal film sotto forma di anticipazione, in una delle quali si legge che "La tua vita è il risultato delle tue decisioni", e dopo alcuni minuti di immagini veloci, serrate e senza respiro si inizia a vedere la vera e propria trama. Inutile riportare le citazioni che il regista inserisce nelle immagini (mi sovviene "Astro Boy").
E dopo una serie infinita di stili animati in cui si passa dal tradizionale al 3D digitale con l'utilizzo di filmati e immagini girati in live action, si chiude con una margherita che ruota come una girandola e sui cui petali leggiamo il titolo del film: "Mind Game"... e una frase emblematica, "This story has never ended".
Il finale è una "riscrittura" in chiave positiva dei cambiamenti conseguenti alle vicissitudini narrate nel film, e dimostra come il messaggio sia quello che, avendo il coraggio, è possibile modificare il corso degli eventi e migliorare la propria condizione: basta volerlo.

Con "Mind Game" Yuasa ha dimostrato di possedere un grande talento nello sviluppare una storia dal ritmo narrativo variabile, capace di stupire e disorientare lo spettatore con visioni inedite, spaziando dal pulp all'introspezione, al dramma e alla commedia.

Il film rappresenta pertanto un'opera fuori dagli schemi, atipica e surreale, aspetti sui quali a tratti mi è sembrato di percepire, di contro, un eccesso in cui ho avuto anche l'impressione che a tratti il film abbia "indossato il vuoto con classe" (mi vorranno perdonare gli Afterhours), in un'ottica quasi giocosa di sincretismo visivo e tecnico eccessivamente barocco.

Ovviamente, è solo la mia opinione personale, e devo comunque ammettere che "Mind Game" abbia aperto una nuova porta sull'universo tanto particolare e affascinante che è l'animazione d'autore.

-

"Paprika" è l'ultimo film completo di Satoshi Kon, famoso per altri lungometraggi quali "Perfect Blue", "Tokyo Godfathers" e "Millennium Actress", nonché la serie TV "Paranoia Agent" e una manciata di manga, in genere non molto lunghi. Stava inoltre lavorando a un nuovo film, quando purtroppo è venuto a mancare dopo una lotta contro il cancro. Satoshi Kon è stato senza dubbio una delle forze creative più potenti nel panorama giapponese: difficile immaginare dove sarebbe potuto arrivare se oggi fosse ancora in vita, forse avrebbe perfino vinto un Oscar per un suo film.

Ma torniamo a "Paprika", un film che è stato apprezzato sia dal pubblico che dalla critica: personalmente, quando lo vidi nel 2007 o 2008, non rimasi molto impressionato, anzi, forse pure un po' deluso, il film in sé mi sembrò discreto ma lontano da altri suoi lavori (migliori). Non brutto, ma nemmeno così geniale come mi aspettavo. Tratto da un romanzo (che non ho letto), "Paprika" si snoda attraverso la dimensione onirica, tanto che a un certo punto i personaggi del film non sono nemmeno più sicuri se stanno sognando o se sono svegli. Nulla di nuovo per il 2006, forse più originale nel 1993, seppure opere con temi simili cominciassero a diffondersi a macchia d'olio, per culminare alcuni anni più tardi con film come "Matrix" ed "Existenz" di Cronenberg, che facevano riflettere lo spettatore su cosa fosse reale o meno. Ma già nel 1990 film come "Allucinazione perversa" ("Jacob's Ladder") avevano introdotto temi simili. D'altro canto i filosofi antichi si erano già cimentati con i concetti di "realtà" e "apparenza", e l'analisi e lo studio dei sogni è diventata una branca importante della psicoanalisi moderna. infatti, secondo Freud, è possibile interpretare il contenuto dei sogni e arrivare al significato profondo e nascosto degli stessi sogni. In tal modo si potrebbe dunque comprendere meglio la psiche del paziente e anche risalire alle cause profonde dei suoi problemi. La storia di "Paprika" prende dunque il via da queste teorie, e ci mostra una dottoressa che entra nei sogni dei suoi pazienti tramite uno strumento chiamato "DC mini", che permette appunto di entrare nel mondo onirico di altre persone, per esplorare i loro desideri più nascosti e anche le loro fobie. In tal modo dovrebbe diventare più semplice aiutare chi soffre di disturbi psichici più o meno seri. Il DC mini è stato realizzato da un geniale inventore, che è tanto intelligente quanto infantile e vorace. A un certo punto però il dispositivo viene rubato da qualcuno che vuole utilizzarlo per scopi molto meno nobili di quelli del suo inventore e della dottoressa Chiba, che entra nei sogni altrui con il suo alter ego Paprika. Con l'aiuto di altri personaggi, alla fine Paprika riuscirà a scoprire chi si cela dietro al furto del DC mini e alle sue reali intenzioni.

Come detto, la prima volta che ho visto questo film non mi impressionò molto, almeno per quanto riguarda la storia. La trovai forse poco originale, specie nella parte finale. Rivedendolo dopo quindici anni, la mia impressione sulla storia non è cambiata molto, ma, se la trama non è brillante come avrei voluto, il resto del film non delude, regalandoci un'altra perla del compianto Satoshi Kon. Disegni e animazioni sono infatti il cavallo di battaglia di questo lungometraggio, non tanto la storia, bene o male già vista e stravista in numerose opere simili. Se questo film fosse stato prodotto a metà degli anni '90, forse avrebbe avuto un impatto differente su di me, ma così non è stato. Ma ad elevare il tutto ci pensa la perizia e la bravura di Satoshi Kon: se ci fosse stato qualcun altro al suo posto, questo film sarebbe stato appena passabile, invece grazie a lui diventa quasi memorabile. Qualcuno inoltre afferma che "Paprika" possa aver ispirato "Inception" di Christopher Nolan: ci sono alcune analogie di fondo infatti, ma il film di Nolan è più complesso a livello di trama di quello di Satoshi Kon; questo rende "Paprika" sicuramente più accessibile da parte del pubblico, ma probabilmente meno affascinante. Diversi film di Nolan fanno della loro complessità interna un cavallo di battaglia in fondo, anche se non sempre si è rivelata una scelta saggia. "Paprika" invece è molto più lineare, forse anche troppo, si poteva forse osare un po' di più, ma evidentemente non c'era il tempo (il film del resto dura circa novanta minuti), o forse non si voleva deviare troppo dal romanzo originale, chissà. In ogni caso, si tratta certamente di un buon film animato, ma ha qualche difetto che ai miei occhi non gli permette di essere quel capolavoro che poteva davvero diventare.