Rilasciato nei cinema giapponesi il 16 luglio del 1994 e noto in madrepatria con il nome "Pom Poko, la guerra dei Tanuki del periodo Heisei", Pom Poko nasce, come dice scherzosamente il produttore esecutivo di Studio Ghibli Toshio Suzuki, da una battuta fatta da Miyazaki durante la produzione di Porco Rosso, ovvero "Io ho fatto un maiale, ai tanuki lasciamo che ci pensi Takahata". Dopo ciò che Suzuki definisce "un lungo periodo di negoziazione" (Takahata era tipo da dover essere convinto a fare qualcosa) il regista accetta di prendere in carico il progetto, e dopo alcune idee scartate gli viene in mente di raccontare una storia incentrata sull'edificazione di Tama New Town, un gigantesco complesso residenziale di Tokyō realizzato abbattendo una montagna intera e trasformandola in una città, ma incentrandola dal punto di vista dei tanuki che si erano visti distruggere il loro habitat.
Va aggiunto a quanto detto prima che, stando sempre a Suzuki, sebbene Takahata fosse sempre refrattario a prendere in mano un nuovo progetto, una volta accettato si dedicava a esso con anima e corpo, andando anche oltre gli obiettivi iniziali e lasciando tutti gli altri di stucco. Da qui, infatti, il regista inizia a stendere la sceneggiatura, studiare il comportamento dei tanuki andandoli a osservare di persona e parlare con le persone che si erano opposte al progetto di sviluppo urbano.
Di fatto, il risultato finale non è un semplice film sui tanuki che racconta la distruzione dei territori di Tama, ma una gigantesca allegoria sociale in stile documentaristico e fortemente umoristica, di cui Takahata si serve per raccontare in maniera concreta, benché romanzata, un pezzo di storia da lui stesso vissuto con evidente dolore sotto molteplici punti di vista. Infatti, se da un lato il Maestro tratta con chiara nostalgia il tema del suo Giappone devastato emotivamente all'indomani della guerra, dall'altro narra, in maniera verticale, chiara e semplicissima, come queste conseguenze abbiano realmente impattato sulla natura circostante.
Ci troviamo nel Giappone della fine degli anni '60: qui, in seguito all'inizio del piano di sviluppo urbano di Tokyō per rispondere alla domanda crescente di abitazioni, due gruppi di Tanuki dapprima rivali decidono di unire le forze per salvaguardare la loro casa e dichiarare guerra all'invasore umano.
Una guerra, pertanto, giusta dal punto di vista di Takahata, che mai durante la narrazione esita a schierarsi: il linguaggio del film, il più politico di tutta la sua filmografia, è sin da subito a favore dei tanuki e sfrutta la già citata allegoria per criticare con ogni mezzo a sua disposizione la scena politica giapponese, la speculazione edilizia e il sistema di intrattenimento televisivo basato sul pettegolezzo e non sull'informazione.
Durante tutta la narrazione, infatti, i tanuki vedranno con i loro occhi non solo la totale indifferenza del mondo umano verso i loro problemi, ma anche come sistematicamente esso distolga lo sguardo persino di fronte all'evidenza dei fatti, pur di poter mantenere quella parvenza di nobiltà d'animo dettata dall'ignoranza e dalla superficialità, impedendogli di prendere una decisione sensata nei confronti dello sviluppo urbano fino a quando non sarebbe stato troppo tardi per tornare indietro.
Takahata, notoriamente critico nei confronti della linea adottata dal governo giapponese durante il suo periodo di gioventù, li rappresenta pertanto (sebbene non li faccia mai vedere) come individui spietati e interessati solo all'ampliamento dei quartieri abitativi, noncuranti delle devastanti conseguenze che questo avrà sugli animali tutti, trasmettendo così alla pellicola un'importante senso di rigidità, non dettata dall'arroganza quanto, semmai, da un profondo senso di giustizia riposta in sé stesso e dai suoi forti ideali.
Va infatti ricordato che tipo di persona fosse il regista di Pioggia di ricordi: di fatto, i suoi precedentemente citati ideali di lavorazione non sono altro che una ferrea volontà di non assoggettare le sue opere alle esigenze produttive, ma di fare l'esatto contrario
Per quanto sia evidente, grazie a scene chiaramente riciclate, che la produzione di Pom Poko abbia avuto più di qualche intoppo, Takahata conseguì con la pellicola un risultato notevole e degno dei riconoscimenti in seguito ottenuti (tra cui premi prestigiosi come il Miglior lungometraggio al Festival internazionale dei film d'animazione di Annecy del 1995 e il Premio speciale ai Japan Academy Awards del 1995): le sequenze di animazione esprimono pienamente non solo il coinvolgimento emotivo personale del regista, ma anche il suo talento per l'arte.
Pom Poko è estremamente comunicativo nelle sue animazioni, rende i tanuki espressivi e veri, umani quanto degli esseri umani realmente umani nei loro atteggiamenti. Riesce a mantenersi evocativo nelle scene mistiche quanto soave nei momenti poetici e di racconto delle vita quotidiana, nonché qualitativamente coerente in tutta la pellicola. Un lavoro mastodontico da parte di un artista poliedrico che, per amore del prodotto, aveva lavorato in prima linea in ogni fase della realizzazione del film, e non solo.
La produzione di Pom Poko fu infatti soggetta a problemi esterni alla realizzazione tecnica del film ai quali spesso Takahata ha dovuto porre rimedio. Problemi che, curiosamente, avevano lo stesso comune denominatore: Hayao Miyazaki.
Il padre di Totoro, infatti, sebbene possa apparire all'esterno come una persona rilassata e poco incline a perdere la calma, è sempre stato in realtà istintivo, umorale e facile a dare in escandescenza: per citare un episodio di dominio pubblico, durante la produzione de Il castello errante di Howl, inizialmente affidato alle cure di un giovane Mamoru Hosoda, Miyazaki, insoddisfatto dello stato della lavorazione, decise di estromettere Hosoda e occuparsene in prima persona.
Tornando a Pom Poko, furono nella fattispecie due gli episodi che misero la lavorazione del film a rischio, entrambi descritti da Suzuki nel suo libro I geni dello Studio Ghibli: innanzitutto, Suzuki parla di quando Miyazaki, dal nulla, andò a lamentare un suo stato di insoddisfazione personale mentre lavorava a Porco Rosso, in quanto si sentiva messo in secondo piano da Takahata, reo a sua volta di aver sfiancato troppo lo staff con "Pioggia di ricordi"(probabilmente, anche se Suzuki non lo menziona, questo era vissuto da Miyazaki come un tradimento delle loro battaglie per i diritti degli animatori, che li aveva portati, in seguito, ad abbandonare il mondo delle serie animate), e che pertanto "la produzione dei tanuki" era cancellata, minacciando addirittura di andarsene dallo Studio Ghibli.
Trovatosi tra due fuochi, dopo un mese in cui accade di tutto (tra cui un collasso fisico dello stesso Miyazaki) Suzuki decise di assentarsi da lavoro il giorno dopo (ci scherza anche su dicendo che non faceva un giorno d'assenza dai tempi delle medie), costringendo così di fatto i due a parlare, e che per quanto ignori tutt'oggi cosa si siano detti, questo fece risolvere fra di loro molti "non detti", come se "molte delle cose rimaste ostacolate da un blocco di ghiaccio si fossero liberate", ed entrambi tornarono serenamente a lavorare ai rispettivi film.
Il secondo episodio, più conciso, riguarda un giorno in cui Miyazaki, non si perché, entrò dove lo staff di Takahata stava lavorando a Pom Poko e urlò a cinque key animator principali, colpevoli di non si sa che cosa, un semplicissimo "Siete licenziati!" e se ne andò senza aggiungere altro. Per fortuna, Suzuki fu allertato da un collega presente sul posto dell'accaduto, e rientrato di corsa in studio fermò i cinque animatori mentre portavano via le loro cose. Dopodiché (ovviamente nascondendolo a Miyazaki) continuò a far lavorare quegli animatori al film, riuscendo così a completarlo poco tempo dopo.
Va detto che alcune di queste divergenze tra i due nascevano da un approccio fondamentalmente diverso al modo di lavorare: Miyazaki, in ogni sua opera, ha sempre dimostrato una precisione millimetrica per "il modo corretto di fare le cose", anche dal punto di vista di tempistica, lavori, orari, modo di sceneggiare, tanto che lo stesso Takahata arrivò a dire che "Miya si preoccupa sempre troppo. Dovrebbe semplicemente fare ciò che vuole e come vuole."
Takahata, dal canto suo, era innamorato dell'animazione, avrebbe fatto di tutto per terminare una sua opera e ha sempre puntato sulla possibilità di rendere le sue pellicole vera e propria arte, nel senso più stretto del termine, studiando maniacalmente la regia e il soggetto in modo tale che la narrazione potesse venire esaltata dall'animazione e, al contempo, restare assoggettata ad essa. Un concetto che potrà sembrare paradossale, ma nella visione artistica di Takahata era di quanto più lapalissiano potesse esistere.
Per spiegarlo, è momentaneamente necessario uscire dall'argomento Pom Poko e prendere in prestito un'espressione usata circa trent'anni dopo l'uscita del film da Guillermo del Toro sul palco degli Academy Awards 2023: il regista, premiato durante la cerimonia per il film d'animazione Pinocchio, decise di tenere un discorso per spiegare a un pubblico notoriamente poco "morbido" come quello dei votanti agli Academy Awards che "l'animazione non è un genere per bambini, è un medium, e dev'essere parte della conversazione".
Il pensiero di Takahata si racchiude in questo concetto: l'animazione è un modo per raccontare qualcosa, così come lo è una poesia, un racconto, un film e un fumetto. Per tale motivo, egli si adoperava con ogni mezzo possibile per garantire alle sue pellicole di essere un prodotto nel quale l'animazione restava protagonista fondante: solo così, per lui, anche la storia avrebbe acquisito il giusto valore.
Alla luce di ciò, si può, con un'analisi più profonda, finalmente evidenziare il perché Pom Poko sia un connubio perfetto tra l'ideologia dell'animazione di Takahata, le tematiche fondanti del regista e le esigenze del mercato dell'animazione: Pom Poko è come detto una gigantesca allegoria, strutturata però su più livelli di comprensione. A un'analisi superficiale, un bambino vede una storia che parla della guerra dei Tanuki di Tama per difendere la loro casa dall'umano invasore, e con l'aiuto del genitore, più sensibile ad altre tematiche e con un vissuto diverso, può comprendere meglio il sottotesto politico ed ecologico nella narrazione del rapporto tra l'uomo e la natura.
A sua volta, il genitore può rispecchiarsi all'interno del trauma sociale giapponese (tematica attraversata in ogni fase della sua vita da Takahata, sin da bambino fino all'età adulta) durante il dopoguerra a causa delle condizioni a cui il Giappone dovette sottostare. Tale vissuto è, sua volta, condiviso con un suo genitore che, probabilmente, come Takahata, è rimasto profondamente scosso dalla Seconda Guerra Mondiale e comprenderà che la guerra dei tanuki è a sua volta un'allegoria del conflitto globale e del conflitto ideologico sperimentato in prima persona dai giapponesi. In tal senso, si può dire che Pom Poko sia il film più omnigenerazionale di Isao Takahata.
A essere tale non è però solo la narrazione, ma anche il già citato umorismo: in Pom Poko, infatti, Takahata è sfacciato, irriverente, a tratti puerile nei modi di far scherzare e giocare i tanuki, vera rappresentazione del popolo giapponese al quale il regista cerca di arrivare. L'umorismo risulta così a tratti caricaturale, esagerato, con derivazioni culturali sottili come l'estetica delle danze dei tanuki, che richiamano il teatro Kabuki, ma al contempo semplici canzoni dell'infanzia con cui strappare allegria e risate al pubblico più piccolo. In riferimento al teatro, se si vuole analizzare il film da un punto di vista narrativo "totale", altro non è che un gigantesco monologo di un non meglio menzionato tanuki, rendendolo di fatto uno spettacolo di Rakugo.
Da menzionare che l'ispirazione del film è proprio un libro per bamini, il racconto Le stelle gemelle di Kenji Miyazawa, e che è anche stato inserito all'interno della pellicola sotto forma di citazione, come "strategia" utilizzata dai due tanuki Shokichi e Ukyo, trasfiguratisi proprio nei due bambini presenti all'interno del libro e origine del nome dello stesso.
Andando a riprendere proprio il tema spirituale, va sottolineato qualcos'altro di altrettanto importante, andando nuovamente a "scomodare" il rapporto di Takahata con Hayao Miyazaki: se infatti il regista di Principessa Mononoke era stato in grado di donare all'occidente una versione dello spiritualismo orientale più romanzata e di mediare tra la necessità del racconto e le tematiche a lui più care, Takahata fu come sempre integerrimo: prova ne è il costante riferirsi all'iconografia tradizionale giapponese, fino a ripescare dall'era Heian simboli tradizionali, dipinti e citazioni.
Argomenti, pertanto, non per tutto il pubblico, ma per quel tipo di pubblico in grado di collegare il proprio vissuto a quello strato di narrazione volutamente inserito in modo più o meno sottile (in questo caso meno) da Takahata.
Takahata, inoltre, in maniera quasi subdola, inserisce un senso di sdegno per la mancanza di riguardo avuta dal popolo giapponese, nel corso dei 50 anni precedenti alla pellicola, per la sua cultura fokloristica e religiosa: collegandosi a quanto detto in apertura sulla superficialità e l'ignoranza, gli esseri umani sono colpevoli di essersi allontanati dalla riverenza verso il sovrumano, cercando di banalizzarlo e catalogarlo, pur di fronte all'evidenza dei fatti, come qualcosa di umano.
Tale sottotesto è, come già detto, fondante dell'arte di Takahata, che riesce pienamente e veicolare con le immagini, i suoni, la musica e la costruzione tutta delle scene quel senso di dovuta riverenze, a incutere rispetto verso l'ignoto e portare l'uomo a comprendere il suo piccolo ruolo nell'ordine delle cose.
Un'ulteriore differenza (anche se questa è da evidenziare come ricorrente nelle loro filmografie) è nella concretezza con cui viene affrontato il tema dell'ecologismo: da un lato abbiamo Miyazaki, che con Nausicaa e appunto "Principessa Mononoke" ha creato delle vere e proprio fiabe. Non in senso poetico o spesso impunemente superficiale come viene abitualmente usato il termine quando ci si riferisce alle opere di Miyazaki, ma proprio nell'approccio alla pellicola, che è permeata dalla tematica portante in modo potente e solenne, lasciandoti dietro una morale verticale e un significato sì profondo, ma raccontato e ideologico. Nelle due opere precedentemente citate, si può dire che il senso di fondo a cui si giunge alla fine del film è "l'uomo deve imparare una volta per tutte a vivere in armonia con la natura che lo circonda a dalla quale anch'egli proviene". Tuttavia, mai una volta Miyazaki si sbilancia e cerca di dare un senso di concretezza alla morale sociale.
In Pom Poko, e in generale per l'appunto nella filmografia di Takahata, tutto questo è sì presente ma presentata con molta più crudezza e realtà: è chiaro che, parlando di una storia di Tanuki trasformisti parlanti che fanno la guerra agli umani a suon burle e trasformazioni ci sia un'evidente quantità di "romanzo" dietro, ma il senso di fondo è molto più orizzontale, nascosto e reale. Takahata, con i dovuti termini di paragone, fa notare grazie a Pom Poko che quello che lui racconta è effettivamente stato fatto, il Giappone ha per davvero ceduto al ricatto della modernità e disboscato quelle aree, tagliato i legami con lo spiritualismo e provocato un forte impatto nella fauna, che altro non vorrebbe se non "riavere le montagne, la campagna e le pianure".
In tal senso, la fiaba di Miyazaki lascia spazio al pessimismo e al dolore che si ritrova spesso nelle opere di Takahata, che per quanto sia smorzato, nel finale, dal mantenimento della sospensione dell'incredulità per il pubblico infantile, grazie al racconto secondo il quale i tanuki trasformisti vivano in mezzo al popolo giapponese come normali esseri umani, torna protagonista con la chiosa finale, lasciata non a caso a un tanuki, che chiede senza troppi giri di parole agli umani di smettere di disboscare, perché se è pur vero che volpi e tanuki possono trasformarsi e vivere in mezzo agli umani, ci sono tantissimi animali per i quali perdere territorio boschivo è una vera e propria condanna a morte.
Ironico quindi sottolineare che, nonostante tutte queste differenze stilistiche e le divergenze avute in corso di produzione, a Miyazaki questo film sia piaciuto talmente tanto che, stando alle parole di Suzuki, egli abbia "pianto dall'inizio alla fine del film" durante l'anteprima, anche se il motivo parrebbe presto detto: due dei tanuki principali ovvero Gonta (il belligerante capo dei tanuki del bosco Takaga) e Shokichi (il vero protagonista del racconto) non sono altro che, rispettivamente, Takahata e Miyazaki ai tempi della Tōei Dōga, caratterizzati in modo rispecchiare le loro personalità (belligerante e istintivo Gonta, riflessivo e pacato Shokichi) e anche disegnati in modo tale che fossero riconoscibilmente loro. Probabilmente, stando sempre a Suzuki, Miyazaki aveva rivisto la storia del loro rapporto in quei due tanuki e si era commosso.
Un rapporto che appare, alla luce di quanto detto, molto complesso e stratificato: i due infatti si conoscono da quando lavoravano insieme a La grande avventura del piccolo principe Valiant, film per la regia di Takahata che vide partecipare un giovanissimo Miyazaki nel ruolo di animatore, che da quel momento vivrà un rapporto che neanche lui fu in grado davvero di descrivere col suo Maestro, ma che Suzuki (che ammette comunque di non averlo mai capito appieno neanche lui) paragona a "una specie di magma", anche se era evidente che gli volesse realmente bene e che il suo dolore, alla scomparsa di Takahata, fosse semplicemente immenso.
E che, purtroppo, non tornerà mai.
Un colossale grazie a Slanzard, senza il quale non avrei mai potuto citare e integrare il testo con tutti i riferimenti sulla produzione e le vicende personali di Miyazaki e Takahata
Fonti consultate:
I Geni dello Studio Ghibli: Isao Takahata e Hayao Miyazaki - di Toshio Suzuki (2023) - Dynit Manga
Tratto da una canzone della mia band preferita, i Sabaton, che racconta proprio di un episodio della storia giapponese: la ribellione Satsuma. Anch'esso un caso di trasformazione culturale e politica che sconvolse il paese del Sol Levante e portò a una guerra intestina.
Nel corso della loro storia i giapponesi hanno sperimentato più volte quando doloroso e devastante sia il cambiamento ma è anche inevitabile. E solo chi sa adattarsi (o in questo caso letteralmente trasformarsi) sopravvive.
E del vecchio mondo non restano che canzoni da ballare intorno al fuoco come fanno i Tanuki alla fine.
Giocando con le metafore rende bene il senso della dicotomia fra passato e presente e dell'inevitabile conflitto fra i due.
Personalmente avrei voluto godermelo meglio in italiano, ma questo è uno di quei casi in cui si arrivò all'eccesso dell'eccesso, rendendo il senso discorsivo della trama ancor più concettoso e verboso di quanto non fosse.
Di certo l'adattamento non ha aiutato... -_-
L'idea di raccontare la tematica dell'ambiente con questo escamotage dei tanuki l'ho trovata emozionante.
Conosco questo film da ormai molti anni e grazie anche a mia nipote che se ne è innamorata l'ho visto innumerevoli volte!
Durante la "parata degli Yokai" passa di tutto, compresi un certo numero di personaggi dei precedenti films della Ghibli. Con qualche fermo immagine si riesce a riconoscerli...
In effetti è una storia che lascia molta malinconia dentro, vedendo l'avanzare del cemento a discapito della natura e delle tradizionie dell'antico Giappone.
L'adattamento di Cannarsi ha in questa occasione creato meno scompiglio, vista l'ambientazione d'epoca che accetta una linguaggio anche desueto ed arzigogolato.
Mi tengo comunque strette le prime edizioni dei film Ghibli prodotte da Buena Vista (Mononoke e Kiki), molto più godibili e coerenti.
Grazie mille ragazzi
Non è noioso, e l'adattamente non ha in alcun modo peggiorato il film ne la sua visione.
Grazie mille
Devi eseguire l'accesso per lasciare un commento.