Siamo in un mondo le cui energie elementali sono sostenute dal leggendario Albero del Mana. Una fata magica ad essa legata, ogni quattro anni, si reca presso i villaggi legati agli elementi per scegliere un "Alm", il quale sarà chiamato a mettersi in viaggio per ripristinare il flusso dell’Albero del Mana, accompagnato da una guida, la Soul Guard, incaricata di proteggerla.

Val è un guerriero di Tianeea, villaggio del fuoco collocato nei pressi di un imponente vulcano, ed è appena stato scelto come Soul Guard di Hinna, un'amica d'infanzia scelta per intraprendere il pellegrinaggio. A loro si uniranno Morley, un uomo-gatto che cerca di superare un evento traumatico del suo passato, Careena, metà umana e metà drago del villaggio del vento accompagnata da Ramcoh, figlia della Sacra Bestia Flammie, Palamena, regina della capitale delle Profondità Illystana, e infine il piccolo Julei, del popolo dei Germogli.




Vi sono due implicazioni negative nell’aver giocato una quantità spropositata giochi di ruolo giapponesi. La prima, non vale la pena affrontarla in questo contesto, la seconda è che spesso affrontando questi titoli si vive una serie di continui déjà vu, di avventure che paiono vissute più volte, di esperienze pregresse che riemergono come flashback i quali scaturiscono in una costante sensazione di familiarità, andando alle volte a rovinare un’esperienza che dovrebbe invece trasmettere genuina percezione di scoperta. Non c’è rimedio a questo problema, il nostro vissuto e il nostro passato non lo si può cancellare, non c’è modo di tornare al 1997, a quando hai scalato i confini del mondo di Grandia o varcato le mura di Midgar, verso terre ignote, l’unica cosa che possiamo fare (oltre a quello di voler passare il testimone, ma i giovani pare non esistano) è cercare di ripulire il più possibile i nostri occhi dal filtro della saggezza, che ci è di ostacolo in questi casi, per vedere meglio e cogliere ciò che questi giochi hanno da offrire, anche se con l’avanzare del tempo risulta sempre più difficile.



Dico questo perché la trama di Visions of Mana (PS5, PS4, Xbox Series, PC) ci riporta effettivamente la mente a venticinque anni fa, periodo in cui uscivano Grandia II, Final Fantasy X e Tales of Symphonia, tre jrpg abbastanza ravvicinati tra loro (ma debuttanti su tre diverse console) che avevano in comune il tema del pellegrinaggio. Queste tre storie avevano dei punti in comune talmente convergenti, che molti iniziarono a speculare sul fatto che l’uno fosse la copia dell’altro: abbiamo un contesto di rigida teocrazia, lei protagonista-sacrificale-santa che si immola per il bene comune, lui guardia del corpo che però si ribella a certi dogmi che non concedono il sentimento del dubbio, e via dicendo, e questa cosa ha generato dibattiti per tanto tempo nei forum, al punto che “il boss finale è il Papa” o “inizi col salvare gattini e finisci con distruggere Dio” divengono quasi dei meme rappresentativi del genere. In realtà, queste similitudini hanno ragioni che vanno oltre la semplice carenza di originalità, se spesso ci sembra di rivivere la stessa avventura più volte è perché certi temi sono radicati nella cultura giapponese, e di conseguenza, nella sua narrazione mitologica, che si basa su storie di collettivismo e panteismo. I concetti di dovere, umiltà e senso di comunità sono venerati fin dall'antichità, mentre egoismo e impulso a ergersi al di sopra della collettività, finanche all’aspirazione divina, sono caratteristiche che vengono spesso attribuite al villain finale, destinato a scontrarsi con un gruppo di protagonisti ed essere sconfitto da essi. Fin dalle persecuzioni contro i missionari da parte di Hidetaka Hideyoshi, che proclamava il Giappone come “Terra degli dei”, i governanti hanno espresso una sfiducia più o meno costante nelle religioni monoteiste straniere, che vanno in conflitto con l'amalgama pluralistica di principi shintoisti, buddisti e confuciani che costituiscono le tradizioni culturali dell’estremo oriente. Quando si legge che un gioco è “troppo tradizionale”, non vediamola sempre con un’accezione negativa, se c’è una cosa di cui ha bisogno Square Enix, dopo le giravolte degli ultimi Final Fantasy, forse è proprio la ricerca di certe radici culturali, il remake di Dragon Quest III, già attesissimo, scenderà non a caso come un kami supremo a salvare l’annata con tutto il suo classicismo.



Seiken Densetsu va dunque ad inserirsi in un filone non certo nuovo, che porta avanti una tradizione avviata su Game Boy nel lontano 1991 da Koichi Ishii, designer dei primi Final Fantasy cui si attribuisce l’ideazione di quelle che sono le mascotte della serie Squaresoft, ovvero i Chocobo e i Moguri. La saga “Mana” sviluppa dal canto suo una certa tematica ecologista, anche questa, successivamente, abbastanza ricorrente nei giochi di ruolo giapponesi (Tales su tutti), ben rappresentata in questo caso dall’Albero del Mana, figura onnipresente in ogni capitolo della serie, simbolo di vita e prosperità e ovviamente costantemente minacciato. La prima cosa che potrebbe risaltare all’occhio, quando si prova per la prima volta un capitolo della serie, che sia Secret of Mana sul Super Nintendo o qualcosa di più recente, è il suo bestiario; in pratica esci dal tuo villaggio e inizi a far fuori coniglietti, funghetti e ricci dall’aspetto così carino e coccoloso che tale azione ti fa quasi sentire in colpa (sentimento che magari ti passa una volta prese le prime sberle). Pensi che questi nemici iniziali siano l’equivalente degli Slime di Dragon Quest o dei Puni di Atelier, sono i primi e quindi non devono essere troppo minacciosi, e invece questo è proprio lo stile di Ishii, uno che avrebbe benissimo potuto fare concorrenza a Ken Sugimori per varietà di mostriciattoli creati, nei Seiken Densetsu troverai mostri pucciosi anche a due passi dal boss finale.



Ma dietro il suo aspetto gradevole e fanciullesco, la serie Mana da sempre cela aspetti decisamente più oscuri, molte delle sue storie si basano sul sacrificio, altre sull’intolleranza, Legend of Mana, in particolare, con la sua eccezionale struttura non lineare, è il gioco della serie che vanta alcune tra le storie più malinconiche e toccanti scritte da Squaresoft, non a caso è il preferito dai giapponesi insieme a Seiken Densetsu 3 (ha avuto di recente anche una trasposizione animata), mentre qui in occidente sono tutti degli inguaribili nostalgici e tendono a ricordare maggiormente il 2, quello più banale con una trama tagliata in più parti. Non che i giapponesi non lo siano, intendiamoci, ma ovviamente americani ed europei sono legati maggiormente al più famoso arrivato da loro. Quello di Mana è un mondo dove il concetto di morte e di sacrificio è costantemente presente nella narrazione, nel primo Seiken Densetsu l’eroina si sacrifica per diventare il nuovo Albero del Mana, prendendo il posto di sua madre, con l’eroe che veglierà su di lei come guardiano. Visions of Mana non sembra fare eccezione, gli Alm sono destinati ad essere sacrificati per il “bene collettivo”, e tutti sembrano accettare questo fato con uno spirito di abnegazione. Eppure, dopo un evento drammatico, la storia prende un’altra piega e cambia totalmente tono, istigando il dubbio sul protagonista, il quale si chiede se vi sia effettivamente un’altra via per interrompere questo ciclo di sacrifici, se tutto questo ne valga davvero la pena; si torna quindi al concetto inziale di libero arbitrio tanto caro a questo tipo di avventure, ma allo stesso tempo, Visions of Mana decostruisce, sotto certi punti di vista, quanto eretto nel corso dei suoi trent’anni, facendo emergere sprazzi di forti individualismi: l’eroe ha perso qualcuno di importante, non vuole che accada anche ad altri e che soffrano come lui, ed è ciò che lo contraddistingue dalla sua inaspettata nemesi che, mossa dal medesimo nobile sentimento, si macchia a sua volta di un crimine vile, la sua emotività si tramuta in opportunismo spinto dall’egoismo.



Per la realizzazione di Visions of Mana viene incaricata Ouka Studios, casa di sviluppo fondata appena quattro anni fa formalmente con sede a Tokyo, ma in realtà facente parte del colosso cinese NetEase e con sviluppo effettivo a Guangzhou. Ancor prima del lancio del gioco si sono diffuse le voci su una possibile chiusura anzitempo di questo studio, addirittura con il destino segnato già dalla scorsa primavera, periodo in cui ci sarebbe stata una prima riduzione del personale. Pur non essendo a conoscenza di altri dettagli, alla luce della situazione ciò che ha realizzato Ouka è impressionante, Visions of Mana fa parte di quel novero di progetti mid-budget di Square Enix, eppure, il risultato finale appare migliore di Star Ocean: The Divine Force, dei veterani di Tri-Ace, e superiore ad un modesto Valkyrie Elysium in maniera significativa. Al netto di modelli poligonali e di animazioni sui personaggi, durante i dialoghi, non proprio eccellenti, la direzione artistica e la bellezza delle ambientazioni sono degne di un nuovo capitolo di Mana, in alcuni scorci pare di entrare all’interno di un quadro del compianto Hiro Isono, il pittore che con i suoi splendidi dipinti ha contribuito a creare l’immaginario favolistico di Seiken Densetsu, segnale che dietro c’è stata una cura e una ricerca sull’eredità artistica della serie ammirevole.

L’action RPG propone il classico gruppo di tre personaggi interscambiabili in qualsiasi momento al controllo del giocatore, con gli altri due manovrati dalla CPU. Con il proseguire dell’avventura si ottengono i Vessel dagli spiriti elementali, questi sono in tutto otto ma su ognuno dei cinque eroi conferiscono una classe diversa, per un ragguardevole totale di 45, contando la classe iniziale. A differenza di Trials of Mana, dove era necessario tornare in uno specifico luogo per cambiare classe, qui è possibile farlo in qualsiasi momento dall’inventario, le magie acquisite con i relativi punti rimangono in dotazione del personaggio mentre la tecnica elementale, effettuabile con il tasto R2, così come la mossa speciale, è prerogativa del Vessel equipaggiato. Questo sistema Job risulta sufficientemente profondo e conferisce al gioco una varietà (anche esteticamente, con i vari costumi) che non ha precedenti per la serie. Secret of Mana introdusse il Ring Menu, ovvero la shortcut per gli oggetti presente anche in questo nuovo capitolo e in moltissimi altri giochi action, fino ad allora, come ad esempio in The Legend of Zelda, dovevi aprire ogni volta l'inventario per usare un oggetto, fu un'intuizione notevole da parte del team di Ishii. Ma per il resto, i Mana non hanno mai brillato particolarmente nel battle system, neanche nei suoi capitoli migliori, la serie ha tentato di distaccarsi dallo Zelda-like ma allo stesso tempo non ha mai raggiunto la qualità tecnica di Ys, poi nel 2002 è arrivato Kingdom Hearts e lo stesso Final Fantasy ha successivamente abbracciato l’azione in tempo reale, e le priorità di Square sul versante action sono cambiate. Per questo, rispetto ai precedenti, Visions of Mana compie passi avanti innegabili per quanto riguarda il feeling dei combattimenti, pur non raggiungendo i livelli di Ys o del recente Granblue Fantasy Relink, con alcune boss battle per nulla banali e un bestiario sufficientemente vario.



Anche l’esplorazione risulta decisamente più marcata rispetto a Trials of Mana, con location abbastanza vaste ed interazioni ambientali sbloccabili con i Vessel, anche se alcune fasi di platforming mancano di rifinitura. La longevità si attesta sulle trenta ore per la storia, qualcosa di più per il totale completamento, tra sfide di vario genere, caccia ai Li'l Cactus (nascosti dannatamente bene) e sidequest non proprio memorabili. Pertanto, è un gioco alla portata di tutti alla luce anche dei tre livelli di difficoltà disponibili fin da subito; al solito, per i veterani è consigliabile passare direttamente ad hard, ma in ogni caso è possibile cambiarla anche a partita in corso. Alla colonna sonora ritorna Hiroki Kikuta, artefice delle musiche di Seiken Densetsu 2 e 3 (prima di essere magnificamente sostituito da Yoko Shimomura), che 27 anni fa lasciava Squaresoft per fondare Sacnoth mentre oggi ritorna riprendendo quello stile esotico e distensivo con cui divenne famoso, con melodie idilliache che non potrebbero essere più accoglienti, animate da ritmi orchestrali delicate rivestite da strumentazioni lussureggianti, grazie alle sue note la serie Mana innalza un mondo di bucolica bellezza naturale e meraviglia. Assente purtroppo la localizzazione in italiano.


 
Anche stavolta il nuovo Seiken Densetsu parte da un racconto a suo modo classico, prendendo in prestito da più parti e concedendosi poi delle riflessioni nuove per la serie. Pur tradendo una realizzazione tecnica tutt’altro che ambiziosa, per ciascuno dei segmenti di cui compone, dal gameplay all’esplorazione, passando per la splendida direzione artistica, Visions of Mana palesa una certa cura nell’animare la sua storia, con l'immagine sempre funzionale a restituire un'impressione nostalgica dei suoi luoghi, non rifuggendo però da tentativi di innesti di modernità ed evoluzione della formula. E là fuori molti sembrano non averne colto il messaggio.