Lo scorso autunno è stato proiettato sugli schermi cinematografici di tutto il mondo Il robot selvaggio, ultima fatica di Chirs Sanders, già regista dell’amatissimo Lilo e Stitch, nonché di Dragon Trainer. Il film prodotto da DreamWorks ha riscosso un successo e un’acclamazione a 360 gradi tanto da diventare uno dei titoli più chiacchierati dell’intero 2024 e secondo film d’animazione con il maggior numero di nomination ai vari premi per l’audiovisivo, dietro ad Aladdin.

 
L'unità ROZZUM 7134, soprannominata "Roz", si risveglia su un'isola deserta senza ricordare chi sia o come sia arrivata lì. Mentre esplora l'isola e cerca di sopravvivere, Roz deve imparare a interagire con gli animali che popolano l'isola, che inizialmente la temono e la rifiutano. Un giorno un orso spinge Roz da un dirupo e il robot si schianta su un nido di oche, uccidendo l'intera famiglia di volatili... tranne per un uovo. Quando esso si schiude, per via dell'imprinting, inizierà a considerare il robot come fosse sua madre e la protagonista dovrà fare in modo di allevare la piccola oca nel migliore dei modi. I veri problemi però arriveranno quando altri robot giungeranno sull'isola...
Il film è l'adattamento, con le dovute modifiche, del libro omonimo di Peter Brown, volume che ha avuto abbastanza successo da meritarsi due seguiti. I rimaneggiamenti di Sanders sono stati, a detta sua, considerevoli, da un lato con l’obiettivo di non far sommergere i protagonisti dalla moltitudine di abitanti della foresta, dall'altro per far risultare Roz meno monotona, vista la frequenza con cui nel libro il robot assilla gli abitanti dell’isola con richieste di incarichi.


 
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Il lavoro di Sanders è già rodato sulle tematiche dell’incontro tra uomo e la natura, ma anche il suo piglio sul tema della famiglia è ben noto: come dimenticarsi d'altronde la pluricitata frase "Ohana significa famiglia e famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato” è scaturito dal suo Lilo & Stitch. In questo film Sanders, qui nella doppia veste di regista e sceneggiatore, esplora una diversa declinazione del tema raccontando la storia di un avanzato robot costretto suo malgrado ad adattarsi su un'isola popolata da oche, volpi, piccoli di opossum, castori ossessionati da sequoie che non vogliono crollare. Il tutto in un mondo in cui gli esseri umani non esistono. O almeno, si sa della loro esistenza perché sono i creatori di Roz e dei suoi simili, ma mai presenti on-screen

Dicevamo, in Il robot selvaggio abbiamo Roz, un robot che segue pedissequamente la sua missione algoritmica di accontentare gli altri fino allo stremo, andando dagli animaletti della foresta a chiedere loro come possa essergli utile ancora e ancora, provocandone ovviamente la fuga. Il contrasto tra la fredda e impostata Roz e gli animali dell’isola è lampante e si nota, anche a livello di design e fotografia, dalla primissima scena del film.
 
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Nella sequenza di apertura vediamo il ritrovamento di questo robot, nato per soddisfare i bisogni umani e quindi totalmente avulso al contesto in cui si viene giocoforza a confrontar,  da parte di un gruppo di lontre intente a giocare nell’acqua. Da un lato abbiamo le onde sinuose del mare e le lontre che giocano felici e curiose, flessibili e mobili come l’acqua stessa, dall’altro lo sguardo inscatolato di Roz che osserva incastrata sulla terraferma, circondata dalle colonne di basalto che ricordano molto il Selciato del Gigante di Bushmill, in Irlanda del nord, o altri luoghi di magica terraformazione presenti anche altrove come nelle Reynisfjall islandesi o capo Nieddu in Sardegna. Insomma, il succo è che da una parte abbiamo onde libere, animali giocosi movimenti all’aria aperta privi di paletti di sorta, dall’altro c’è invece un robot bloccato in fredde rocce nere ed esagonali, tutte uguali. Sulle quali però cresce del muschio, come crescerà sul robot. Ma ci torneremo.

Il contrasto sopra sottolineato sta tra la programmazione di Roz e il mondo animale che la circonda. Infatti i due dapprima non si capiscono, in seguito Roz impara a comprendere il linguaggio di questi curiosi abitanti. In prima istanza l'apprendimento è solo superficiale, perché Roz usa l'Intelligenza Artificiale per apprendere la lingua degli animali, ma solo alla fine capirà davvero ogni loro parola, solo alla fine saprà comprendere il significato della vita sull’isola e non lo farà grazie all'ausilio della propria tecnologia ma ....grazie a un figlio!

Beccolustro, il piccolo di oca alla quale Roz si troverà a fare suo malgrado da madre, riesce infatti a creare con lei un rapporto quasi“naturale”. Una relazione che dapprima Roz non riesce a gestire o anche solo concepire. È una macchina abituata a eseguire un ordine diretto: non possiede quelle doti che si suppone siano naturale in una madre e che possono essere d' aiuto per badare ad un cucciolo che ancora deve scoprire il mondo. Non può avere ovviamente l' "istinto materno". Ad aiutarla quindi servirà il personaggio di Codarosa, la mamma opossum con l’ennesima cucciolata di cui non sa più nemmeno distinguere i singoli membri. Codarosa è paziente fino allo sfinimento e pure parecchio distaccata come da istinto animale deve essere, tanto che alla presunta morte di uno dei suoi piccoli reagisce con una scrollatina di spalle. I consigli di una madre anche troppo rodata non riescono a raggiungere la confusa e poco recettiva Roz che cerca in tutti i modi di liberarsi del piccolo, ma la opossum intuisce il funzionamento dei circuiti del robot ed è lei a darle la sveglia. E con svegliarla s’intende… darle la missione. “Prenditi cura di Beccolustro”, ed ecco che il robot non può tirarsi indietro perché il suo protocollo è stato attivato.
Fondamentale anche la presenza di Flink, una volpe il cui obiettivo sulle prime è fare dell' ochetta il suo pasto, cambiando però (anche troppo) rapidamente idea. Il passaggio tra volpe affamata di pennuti e fratellone di Beccolustro è un passaggio non troppo chiaro, nemmeno mostrato o provato, in effetti. Semplicemente succede e lo spettatore non può far altro che prenderne atto.

 

Design iniziali di Codarosa realizzati da Genevieve Tsai.


Quello che però risulta evidente è che il film ha una doppia narrazione, cambiando registro verso circa la metà.
Per certi versi paiono quasi di essere di fronte a due diverse pellicole. Nella fase iniziale ci sono molti temi in ballo come nel più classico dei bildungroman, il romanzo di formazione: Roz deve imparare ad ascoltare gli altri e soprattutto sé stessa tramite la presa di coscienza al di là del “protocollo”. A tendere l'orecchio e forse il cuore verso l'istinto e i sentimenti che, silenti, la guideranno. La sua missione è prendersi cura della piccola oca, crescerla e insegnarle a volare prima dell'ultima migrazione perché è nella natura delle oche, così fan tutte.  
Il rapporto con Beccolustro è ovviamente fondamentale in ciò. Fondamentale per lui è invece la presenza sia di Roz che di tutti gli abitanti dell’isola. Ogni abitante, nel suo piccolo, lo aiuta ad imparare a volare: altrimenti come potrebbero un robot e una volpe insegnare ad un’oca a volare per affrontare la grande migrazione che coinvolge tutte le oche dell'isola?
Beccolustro deve dunque trovare la propria "essenza di oca" in mezzo ad un gruppo molto poco etereogeneo di non oche. I temi sono la famiglia, il comprendere l’altro, il farsi crescere del muschio sui circuiti (come sulle rocce, ricordate?) e integrare una gamba di legno, incastrata nel freddo acciaio, simboli visivi dello smussamento caratteriale e materiale di Roz.
La storia di Beccolustro insegna che si può imparare a volare quando nessuno può davvero spiegarti come fare, a prendere il meglio da chi ci circonda e facendo ciò a tessere delle relazioni che saranno la rete che potrà sorreggerci quando dal cielo rischieremo rovinosamente di cadere sulla roccia.
 

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La seconda sezione invece perde il lirismo della prima, diventa la dimostrazione che nell’industria non si possa far poesia senza metterci un villain e uno scontro fisico. Come se di scontri non ne fossero già presenti, quello tra il robot e la natura, tra gli schemi e la libertà, tra il seguire gli ordini e il seguire l'istinto.
Il robot selvaggio si trasforma tutto d’un tratto in sparatorie, il terrore di un nemico che nonostante il suo carisma che, per inciso, è dato totalmente dall’animazione e dal design con cui è realizzato, risulta un deus ex-machina per scusare la frenesia, l’azione, il cliffhanger studiato a tavolino di cui il film non aveva davvero bisogno.

Il finale però chiude il cerchio e ritorna ad alimentare la fiamma della prima parte del film, la stessa che ha scaldato i cuori degli spettatori e non quella che ha appiccato il fuoco all'isola. Il robot selvaggio termina la sua corsa mettendo da parte l'azione esasperata: poche inquadrature, mute e toccanti riescono a far dimenticare la frenesia di pochi attimi prima. Il finale non ha dialoghi e pure lascia senza parole perché ben poco c'è da dire; la comunicazione sin dall’inizio è il fulcro dei personaggi, che prima non si capiscono, dialogano come possono, comprendono come parlare l’idioma reciproco, riescono a farsi capire; eppure la vera comunicazione, quella del cuore, avviene senza che alcun suono venga emesso. Con la carezza del silenzio viene battezzato il vero tema del film, quello di trovarsi, affermarsi e rimanere sé stessi nonostante le circostanze. E anche di sottolineare la potenza della famiglia, quella fatta di legami creati passo passo, solidificati dalle incomprensioni, messi alle prova dalle avversità. Legami per i quali si compiranno sacrifici sovrumani e sovra-robotici, perché amare significa anche lasciare andare. In fondo, una famiglia può anche essere un robot in un'oasi umana, una volpe su un’isola sperduta e un’oca sempre in viaggio e che come un filo rosso lega gli alti personaggi nei suoi peregrinaggi.

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Il robot selvaggio non sarebbe il film che è se non si fosse retto su due sequoie: la musica e la fotografia.
La musica, composta da Kris Bowers, è davvero la ciliegina della torta del film. Innanzitutto la musica non è geograficamente collocata. L’isola potrebbe essere ovunque, non ha una geografia precisa, non è un luogo che è identificabile su una mappa, non ha tamburi africani o ukulele di sorta. Su quell’isola possiamo esserci potenzialmente noi, tutti o nessuno.
Pensiamo anche al peso che la musica riveste in questo film: Roz di fatto non dovrebbe mostrare emozioni perché… è un robot. Per quanto le inflessioni della voce, l’abilità nel doppiaggio, l’animazione degli occhi e il cambiamento cromatico dei suoi led in base agli stati d’animo siano fondamentali per aiutare lo spettatore a capire cosa stia provando, la musica fa davvero da ponte tra le sue emozioni e quelle di chi guarda. E con "Kiss the Sky", pezzo sicuramente che risalta rispetto al resto delle musiche composte per il film, si raggiunge l’apice dello sviluppo emotivo del rapporto tra Roz e Beccolustro. Il pezzo può forse ricordare "Into the open air" di Julie Fowils tratto da Brave, che detta il battito dello sviluppo del rapporto tra la protagonista e sua madre, momento che condivide l’anima con la scena in cui "Kiss the Sky" accompagna le falcate di Roz mentre tenta di far volare con lo stormo Beccolustro.

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E mentre la colonna sonora dona voce al cuore di chi non sa di averlo, la regia e la direzione della fotografia prendono il loro posto sotto i riflettori. Il robot selvaggio è un film che implora di non essere visto su un piccolo schermo, distrattamente, ma chiede che ne venga osservato ogni particolare: ogni tramonto, ogni sfumatura di luce sulle foglie. I tratti acquerellati, quasi tremolanti inondano superfici e personaggi, siccome il cartone utilizza la classica CGI con cui di solito si confeziona il fotorealismo, ma gli restituisce quel tipico senso bidimensionale e artigianale che ormai abbiamo imparato a conoscere in molteplici opere cinematografiche (e non) che la DreamWorks aveva già usato in Troppo Cattivi del 2022 e Il gatto con gli stivali: l’ultimo desiderio.




Si è già detto come sia difficile attribuire emozioni ad esseri innanzitutto non antropomorfi per quanto riguarda gli animali, ma d’altro canto anche ad un robot che non può per conformazione fisiologica sorridere, arricciare il naso, aggrottare la fronte. Eppure Il robot selvaggio riesce a restituire a tutte le sue creature, nessuna esclusa, la vitalità e la capacità di comunicare con piccoli gesti. Il merito va al design e alla perizia con cui sono gestiti i movimenti dei dettagli, non solo del volto ma dell’intero corpo di ciascun personaggio. Una mano tentennante o il collo un poco più ricurvo del normale riescono centrano l'obiettivo di umanizzare senza forzature il personaggio robotico. D’altro canto il film s’impegna sin da subito a contestualizzare Roz come l’elemento estraneo, l'essere meccanico, impostato e freddo attorniato da un mondo variopinto che conosce altre sfumature oltre quelle del grigio e dei pochi colori neon che i suoi led riescono ad assumere. Ed ecco che Roz vaga incerta tra maestose foreste verdeggianti, praterie e spiagge, in un mondo orizzontale che si oppone a lei, l’essere più alto di tutti, nonché il più fuori posto.
I colori, in più, arricchiscono i personaggi, gli donano emotività, ma ci testimoniano anche il passaggio delle stagioni. Ovviamente risaltano ulteriormente la bellezza della natura, una natura ispirata ai classici background Disney ma anche agli acquerelli tipici dei film dello Studio Ghibli. 
 

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A far da contrasto agli spazi vasti e ricolmi di sfumature della natura insulare, ci sono i design “futuristici” delle campane di vetro in cui vivono gli umani e i simili di Roz. Il futuro rappresentato ne Il robot selvaggio è infatti ispirato ai design del neofuturista Syd Mead, designer di Blade Runner, Tron e Alien. Qui la luce naturale rimane intrappolata al di fuori della bolla e dentro splende sempre il sole che non proietta ombre, palesemente di matrice artificiale. Le sfumature della luce, quindi, rimangono appannaggio del mondo naturale mentre il candore luminoso e il colore omogeneo, come quello dei led o dell'oscurità degli interni delle strutture, indica la freddezza e l'immutabilità del mondo umano e robotico.

 

 

Insomma, Il robot selvaggio è un film capace di emozionare con la sua semplicità e soprattutto di parlare a tutte e tutti. Specialmente la protagonista Roz, parla agli adulti, a coloro sulle quali spalle gravano molteplici responsabilità, in primis ai genitori. Essi sono coloro che si trovano tra i piedi dei piccoli marmocchi che non sanno stare al mondo e in un battito d'ali sono pronti a lasciare il nido di casa senza che nulla possa impedirglielo. Perché così fan tutti. E Roz, da madre, dovrà lasciare che Beccolustro prenda il volo: è sua la responsabilità di inondare qualcuno di affetto, sacrificare tutto per lui, sapendo che da lì a poco dovrà lasciarla. Forse tornerà, in effetti, perché quel legame non verrà mai reciso. 
La capacità di emozionare è insita principalmente nei due personaggi principali e da essi sgorga verso tutti gli altri comprimari e non. Nonostante la divisione della pellicola nonché l'uso di escamotage narrativi che ascrivono il film in un contesto industriale che spesso fa sfuggire di mano i fili produttivi e narrativi, il finale riesce a soddisfare pienamente lo spettatore, facendogli continuare a battere il cuore che per qualche minuto era stato costretto ad arrestarsi, confuso.
Tecnicamente il film è un piccolo gioiello che chiede di essere visto, osservato, studiato. La pittura sulle superfici dei personaggi fa assomigliare le scene ad un libro illustrato dai tratti genuini, quasi sporchi e vivi. La musica e le canzoni abbracciano non tanto la narrativa quanto le emozioni, perché è a queste che il film mira. Tutti siamo o saremo Roz o Beccolustro. Amare, lottare, sacrificare e lasciare andare, sapendo che ovunque siamo quel legame non si spezzerà mai.


Fonti consultate:
Variety
Animation Magazine