LE MAJOKKO DELLO STUDIO PIERROT
Il genere Maho-shojo non è una novità quando lo Studio Pierrot decide di creare una serie di maghette che non combattono, non hanno poteri megagalattici e non sono aliene. Sono bambine, normali bambine terresti, che ricevono poteri magici da fonti diverse. Questi poteri permettono loro di trasformarsi in adolescenti e di compiere una serie di avventure. Per lo studio, nato da pochi anni e già padre della fortunatissima Lamù, è un’impresa nuova e avvincente che sfida lo strapotere dell’allora guru del genere maho-shojo: Toei. Una scommessa sulla quale pochi avrebbero puntato, che permette però ai suoi realizzatori di godere di un successo forse davvero inatteso. Le Majokko dello Studio Pierrot possono definirsi tranquillamente (assieme a Lamù) il motore che ha lanciato nel firmamento dei grandi questa casa di produzione.
IL POTERE DI INCANTARE
Esiste, come in ogni concetto, una chiave di volta che regge l’imbastitura dell’intero discorso, ossia quel nome, aggettivo, suono o immagine che, una volta mostrata, svela agl’occhi dell’interlocutore, senza più ombra di dubbio, di cosa si sta parlando. Nel caso delle Majokko dello Strudio Pierrot [Da ora Pierjokko] questo ha un nome e un cognome: Akemi Takada. Classe 1952, un donnino compresso in un metro e mezzo di talento e capacità, la Takada è stata per queste serie la così detta scintilla che ha innescato l’incendio. Quello della Takada è un mestiere non semplice: la character designer. Si ma cosa fa questo “professionista dei personaggi”? Il Chara Designer o CD, come viene spesso abbreviato, ha il non semplice compito di sviluppare, assieme all’autore, disegni, forme, colori e psicologia dei personaggi che compongono una serie. Prima ancora di parlare di psicologia, il soggetto va creato attraverso una serie di prove dette settei nelle quali il CD si prodiga nel dare al suo soggetto il massimo di espressività col minimo di tratti. Questo processo creativo è di vitale importanza in quanto è a queste bozze grafiche che i disegnatori dovranno attenersi per la realizzazione dei personaggi nelle varie scene. In un secondo momento si passa alla caratterizzazione del movimento, ossia il disegno della postura, dell’atteggiamento, della mimica tutto per facilitare il compito ai key animator, ossia coloro che creano il movimento partendo proprio da queste basi. Infine i dettagli, quali acconciatura e abbigliamento. Tutto questo va svolto col benestare del creatore della serie che solitamente funge egli stesso da chara designer.
In un manga il CD è solitamente anche l’autore del prodotto, nell’anime invece questa figura si discosta e diventa indipendente. Molti autori hanno fatto da CD per le loro opere, ma recentemente è sempre più accettata l’idea di rivolgersi a un vero professionista.
Le avventure delle Pierjokko iniziano da un'altra eroina, che è a sua volta una Majocco ma che si discosta da questo filone: Lamu. Creata da Rumiko Takahashi pochi anni prima l’eroina spaziale fu il primo grande successo dello Studio Pierrot. In quell’occasione fu proprio la Takada a curare il chara design e facendo tesoro di questa esperienza forgiò uno standard per le future eroine in produzione. La Takada lavorò solo alle prime due Pierjokko ma, come spesso accade, creò un filo conduttore che legò indissolubilmente queste produzioni. Collaborando con il regista Takashi Anno nella produzione di Persia (Evelyn in Italia) suggerì quello che era lo standard di disegno della serie successiva, nella quale la Takada non lavorò ma che confermò Anno alla regia.
Lo studio Pierrot, nella creazione di queste serie impose dei paletti non solo grafici, ma soprattutto sullo sviluppo della sceneggiatura. Le storie infatti hanno dei fattori comuni molto importanti che servono a distinguerle dalla altre Majokko degli anni ‘80.
Primo fra tutti la protagonista, perché ovviamente il perno delle vicende è femminile, è sempre una bambina umana (primo fattore). Questa riceve dei poteri con tempo limitato (secondo fattore) da alieni o spiritelli non appartenenti a questo mondo e che la accompagnano nelle sue avventure (terzo fattore). Questi poteri si azionano per mezzo di un oggetto magico (quarto fattore) che si trasforma anch’esso. Grazie a questo oggetto è in grado di trasformarsi in un’adolescente (quinto fattore) così da poter vivere un’esperienza adulta pur rimanendo una bambina nell’animo. Va sottolineato che questo aspetto psicologico delle nostre protagoniste è davvero importante. Tutte le Pierjokko sono in realtà bambine, anche se fanno girare la testa a molti adulti e cercano di comportarsi come tali.
La realizzazione grafica deve quindi essere molto curata, e qui torniamo alla Takada, poiché deve fornire un certo distacco tra le due figure protagoniste pur mantenendone gesti, somiglianze ed abitudini. Quindi la bambina ed il suo alter ego adulto devono agire e comportarsi all’unisono, e la traccia da seguire è quella del comportamento infantile della protagonista. Una altro fattore molto importante che caratterizza parecchio queste serie è l’assenza di un vero antagonista. Esistono elementi di disturbo, ossia personaggi che vogliono intralciare o scomodare l’eroina, ma senza affrontarla. Questo per due motivi ben distinti. In primis la protagonista non combatte. I suoi poteri sono mere trasformazioni della realtà che le servono per creare magie più o meno potenti ma (quasi) mai offensive. In secondo luogo l’obbiettivo finale della vicenda non è mai “sconfiggere il cattivo” ma comporta sempre una crescita emotiva del personaggio, una maturazione che la spinge ad aiutare questo o quell’altro ed a migliorare se stessa.
PAMPULO PIMPULO PARIM PAMPUM!
1983, il Giappone e molti altri paesi a traino si ingozzano di serie su maghette dolci e carine, streghe a volte, con poteri miracolosi, in grado di compiere grandi prodigi. La maggior parte di queste belle e magiche eroine proviene dalla stessa casa di produzione che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha saputo dar loro vita, incantando il pubblico con le loro avventure. La casa è la Toei e i titoli sono tantissimi, di cui, probabilmente, la più famosa nell’immaginario collettivo resta Bia e la sfida della magia.
Ma facciamo un ulteriore passo indietro nella storia e fermiamoci al 1962, quando tre fratelli di Kyoto, Tatsuo, Kenji e Toyoharu Yoshida, fondano una piccola casa di produzione: la Tatsunoko. Pionieristica e realizzatrice di serie immortali quali Judo Boy, Demetan, Kyashan, Chobin, Yattaman, Hurrycane Polymar e molti altri, questa azienda ha un altro merito, ossia quello di aver formato due personaggi di estrema importanza per l’animazione nipponica: Yuji Nunokawa e Hisayu Toriumi. Si, a molti di noi, in effetti, questi nomi dicono davvero poco, tuttavia questi due giovani animatori nel 1979 hanno un’idea. Si licenziano dalla Tatsuoko e fondano il loro studio di animazione, lo Studio Pierrot. Oltre al distacco fisico dall’azienda formatrice c’è anche un distacco filosofico. La Tatsunoko produceva in quegl’anni principalmente due generi di anime ben distinti: supereroi alieni o robotici in formato shonen e meisaku in formato kodomo. Lo Studio Pierrot parte, volere della sorte, proprio con un Meisaku, producendo nel 1980 Nils no fushigi na tabi, di scarso valore e successo. Dopo il lancio di Lamu, del quale abbiamo già parlato, ai due produttori salta un po’ la mosca al naso e decidono di avventurarsi in un genere del tutto nuovo per loro: il maho-shojo. Riusciranno ben presto a strappare alla Toei il titolo di regina del maho-shojo e farsi incoronare nuovi re del genere.
Nel 1983 Ito Kazunori (famoso oggi per il suoi lavori con Patlabor e .hack\\) inizia a stendere quel canovaccio che sarà la base sulla quale si svilupperà la futura prima serie Pierjokko. La creazione dei disegni è affidata a Yuko Kitagawa, che disegnerà anche il manga abbinato alla serie e che purtroppo creerà solo questa produzione nella sua vita (fatta eccezione per lo screenplay in un film di Lupin nel ’78). Nasce Maho no tenshi Creamy Mami, un anime innovativo che viene proiettato dal primo luglio 1983 sulla rete televisiva Nippon Television e che affascina subito gli spettatori del Sol Levante. L’idea è di creare un maho-shojo alternativo, più concentrato sulla modernità della vita nipponica che sulla magia fine a se stessa. Da questo concetto ne scaturisce la dolce Creamy, primo alter ego magico delle Pierjokko. Gli elementi ci sono tutti e gli alieni in questione, sono due batuffoli di pelo: Posi e Nega. Cos’ha di tanto diverso Creamy rispetto alle altre majokko? Indubbiamente il fascino, Creamy è bella, alla moda, accessoriata, e non usa la magia per creare pozioni, lo fa per diventare una Idol. Il connubio magia-jetset pare un matrimonio morganatico tra la nobile arte degli antichi stregoni e il frivolo ambiente della mondanità moderna. La formula magica però è geniale e il successo lo dà ad intendere. Altra grande novità, sulla quale lo Studio Pierrot ha un fine olfatto è il mondo del merchandising e del fanservice. L’oggetto che Yu, la nostra piccola protagonista, usa per trasformarsi è duplice: da medaglione diventa bacchetta magica a suo piacimento. Questo “oggetto magico” non è affatto da sottovalutare. Il suo potere commerciale infatti è molto maggiore del suo millantato fattore magico. Presto le giovani telespettatrici (e non solo) inizieranno a desiderare il ciondolo e la bacchetta che Yu usa per trasformarsi, così da essere anche loro delle piccole Creamy.
Ho accennato la parola fanservice. Avremo modo di chiarire più avanti di cosa si tratta in quanto è giusto spiegare, una volta per tutte, il significato di questo termine, sbandierato da molti, capito da pochi ed usato spesso a sproposito. Per ora prendete per vero che per il successo di Creamy il fanservice gioca un ruolo chiave. La caratterizzazione della figura di Toshio da parte della nostra Akemi Takada sarà una tassello indispensabile al lancio della prima majokko targata Studio Pierrot.
Tutto questo contorno non sarebbe comunque riuscito a decollare senza una storia credibile, avvincente ed un’ottima regia. Osamu Kobayashi è un regista ancora in erba quando prende le redini di questo anime. Ricordiamo per doveri editoriali le sue collaborazioni nella realizzazione di serie molto amate in Giappone e poco conosciute all’estero come Makoto-Chan e Gambare! Tabuchi-Kun!, due yonkoma manga adattati a film per il grande schermo negli anni ’70. Ora è indubbiamente entrato nel firmamento dell’animazione grazie ai suoi titoli di punta come Kimagure Orange Road e BECK, ma ai tempi di Creamy il suo debutto era un altro azzardo per lo Studio Pierrot.
La storia si incentra su Yu Morisawa, e sulla sua dote appunto di trasformarsi nell’avvenente cantante Creamy. Come abbiamo già detto Yu è una bambina normalissima, che riceve i suoi poteri da fonti esterne. Questo crea in lei e per osmosi nei suoi telespettatori, una duplice intesa. Yu ha un segreto e lo custodisce gelosamente. A parte lei solo lo spettatore ne è al corrente e questo crea un legame molto intenso con l’eroina (basti pensare che molti format di soap opera famose si basano su questo feeling). Inoltre Yu vive un sogno magico nel quale si forma un triangolo utopico con soli due lati: ossia lei ama Toshio, ma lui ama Creamy, che altri non è se non la stessa Yu.
Ovviamente Yu non può parlare del suo segreto neppure a lui e questo crea infinite situazioni comiche e romantiche sulle quali gli sceneggiatori hanno il loro bel da fare nello sbizzarrirsi. Entrambi questi fattori verranno ripresi (chi più chi meno) nelle successive produzioni, ma è fuori discussione che sia stata Creamy a gettare le basi di un nuovo tipo di maho-shojo che avrebbe coinvolto il pubblico in modo molto differente dal classico e già ben collaudato filone.
EVELYN, IL SOGNO D'AMORE E L'INCUBO DEL PLAGIO
Appena terminate le avventure di Creamy lo Studio Pierrot lancia subito una nuova eroina, in linea con il nuovo format confezionato dalla Takada e da Kobayashi; nasce, nel 1984 Mahou no yousei Perushya, o come sarà poi nota in Italia: Evelyn e la magia di un sogno d’amore. Il cast vede alcuni cambiamenti sostanziali. Osamu Kobayashi lascia per sempre le Pierjokko e così con lui anche Kozunori Ito e Yuuko Kitagawa, i due soggettisti che avevano dato vita a Creamy vengono sostituiti da Takako Aonuma, mentre al posto di Kobayashi subentra un altro futuro grande regista: Takeshi Anno (Maison Ikkoku, È un po' magia per Terry e Maggie). Resta salda alla guida del Chara Design Akemi Takada, questa volta però affiancata da Yoshiyuki Kishi, un allievo promettente, come vedremo in seguito.
La trama in breve. L’aereo che deve riportare Parsia Hayami in Giappone dopo il suo lungo soggiorno in Africa, collide con una strana turbolenza che lo trasporta in un universo parallelo. Qua la ragazzina incontra tre piccoli Kappa, che prontamente le illustrano il grave problema che attanaglia il Lovely Dream (il loro mondo, appunto): creato dai sogni degli umani, Lovely Dream sta sempre più sprofondando in un inverno gelido ed eterno, solo la magia dell’amore può risollevare le sorti di un universo che sembrerebbe spacciato e che si sta allontanarsi dal nostro, inesorabilmente. Parsia riceve quindi la sua missione e gli strumenti per metterla in atto. Grazie a un cerchietto magico può ora contare su una vasta gamma di poteri magici, ma soprattutto sulla possibilità di trasformarsi in un’avvenente diciassettenne. Grazie alla magia dell’amore ora Parsia è l’unica in grado di salvare il Lovely Dream da un destino crudele.
Gli elementi ci sono tutti, eppure leggendo anche solo questa seppur breve introduzione a molti salta subito all’occhio che Parsia pare il clone di un’altra majokko apparsa solo due anni prima sul teleschermo: Minky Momo.
Entrambe le majokko hanno praticamente la stessa missione: salvare il Mondo dei Sogni da una brutta fine. Perché lo Studio Pierrot dovrebbe aver plagiato un anime prodotto due anni prima da Ashi e che stava ancora andando in onda in quel periodo, in quanto, di Minky Momo ne furono trasmesse due serie a palinsesto annuale? La risposta si perde nei meandri degli studi di produzione nipponici. Il cast delle due serie sono completamente indipendenti l’uno dall’altro. Nessun artista che ha lavorato a Minky Momo ha poi disertato verso lo Studio Pierrot per dedicarsi a Persia. Le congetture negli anni si sono sprecate. Ho consultato parecchie fonti che trattano l’argomento. Chi sostiene che sia una mera coincidenza, chi che sia un plagio bello e buono. Eppure nessuno fornisce prove che validino l’una o l’altra ipotesi. Certo, credere alla coincidenza è davvero un azzardo. Le assonanze tra le due serie sono tantissime, ma un aspetto importante deve farci riflettere sul fatto che forse non si trattò di plagio, bensì di reinterpretazione. Il confine tra queste due parole è labile, ma analizzando la trama delle due serie nel dettaglio si scopre che Persia è strutturata in modo molto più leggero della sua ipotetica genitrice. Si può dire che le vicende della nostra majokko siano salienti in circa 12 puntate: quelle iniziali, un paio centrali e quelle finali. Tutto il resto è mero contorno che nulla aggiunge alla trama e che concentra le energie di Persia su personaggi secondari che arricchiscono la serie ma non la storia in se (oggi diremmo che sono filler). Minky Momo, Gigì in Italia, ha invece una trama molto più lineare che non lascia spazio a episodi filler. La majokko della Ashi è infatti perennemente impegnata nella sua missione. Va inoltre aggiunto che, nonostante le somiglianze iniziali, poi le due serie si discostano parecchio l’una dall’altra. La trama di Parsia infatti, dopo un incipit che lascia presagire plagi e vergognose scopiazzature, non ha nulla a che spartire con lo svolgimento della missione di Gigì. Anche se i due universi per i quali le due eroine lottano sono simili, l’intreccio e lo svolgimento sono assai discordanti. Per farla breve sarebbe un po’ come chiedersi se Mila Azuki sia un plagio di Mimì Ayuhara, visto che entrambe giocano a pallavolo e vogliono andare alle olimpiadi. La risposta sembra palesemente negativa.
Viene però naturale domandarsi quanto Minky Momo, che si trasforma in adulta con un oggetto magico anche lei, abbia influenzato non solo questa serie, ma l’intera produzione delle Pierjokko. Rispondere a questa domanda ci farebbe cadere in una serie di supposizioni tendenziose, che creerebbero solo confusione. Mettiamo quindi da parte quelle che sono le contese tra Ashi e Studio Pierrot e limitiamoci a parlare di anime e delle nostre majokko, continuando con quella che sicuramente rappresenta la maturità completa per questo filone: Emi.
È QUASI MAGIA... EMI!
Anno 1985. Lo Studio Pierrot sbanca il botteghino, conquistando la vetta più alta dello share e l’intero pubblico, prima nipponico, poi internazionale. Lo fa con un anime che, assieme a Creamy, sarà per sempre catalogato come il cavallo di battaglia di questo filone: Mahou no Star Majikaru Emi, noto a noi italiani come Magica magica Emi. Anche qua, come accadde con Parsia lo staff viene avvicendato, ma non completamente. Takeshi Anno resta saldo alla regia. La Takada lascia le Pierjokko, ma in buone mani. Le subentra infatti Koshiyuki Kishi, affiancato da Kouji Motoyama.
La trama. Mai Kazuki è una ragazzina appassionata di prestidigitazione e figlia d’arte. La madre era una maga e lo sono i nonni, a capo di una compagnia di prestigiatori: la Magical-Art. Durante un trasloco Mai si imbatte in uno strano globo di luce, che oscilla a mezz’aria. La strana luce sembra visibile solo a lei e dopo un breve inseguimento si rifugia all’interno di uno specchio. Mai nota subito che, attraverso l’oggetto, la sua immagine non viene riflessa, bensì compare una sorta di amalgama luminosa. Dallo specchio scaturisce ben presto un braccialetto magico e la sfera di luce si trasferisce all’interno di un peluche a forma di scoiattolo volante. L’esserino illustra a Mai i suoi nuovi poteri dando così il via alla nascita di Emi.
Alcune considerazioni preliminari vanno fatte prima di approfondire il discorso su questa serie. Emi è considerata, a buon titolo, l’opera più matura e meglio riuscita tra le Pierjokko. Questo sostanzialmente per due motivi. Prima di tutto Emi non usa i suoi poteri a seconda dei casi, ma lo fa per esaudire un suo sogno: quello di diventare una prestigiatrice. In questo suo maturare rapidamente per poter sperimentare il futuro Emi incarna perfettamente quell’indole fanciullesca del voler bruciare un po’ le tappe, per sperimentare la vita in tutte le sue salse. Chiaramente la ragazzina non si lascia mai andare ad eventi edonistici o discutibili, tuttavia tra le varie Majokko, è sicuramente la più sincera. Emi costruisce nel corso delle puntate un ragionamento e una morale tutti suoi, ossia cresce come individuo, sperimentando, grazie alla magia di Topo (il folletto del globo di luce), l’ebbrezza del vivere due realtà parallele. In una è Mai, una bambina dolce, gentile, simpatica. Nell’altra è Emi, l’adulta che Mai vuole diventare. È una piccola rivoluzione per il genere. Infatti Creamy e Parsia non si identificavano così strettamente nel loro alterego, il quale per loro non rappresentava certo un’aspirazione per il futuro così certa e calcata.
In secondo luogo la scelta finale di Emi è diversa dalle altre Pierjokko. A lei non viene concesso un tempo limite per i suoi poteri, è lei a scegliere come e quando rinunciarvi. Ed è questa rinuncia, questo gesto di maturità, a commuovere gli spettatori, i quali possono constatare quanto la piccola Mai sia cresciuta come persona nel corso delle puntate.
Sulla scelta di Mai va detto che la ragazzina non la pondera sin dall’inizio. Quando riceve i poteri, Mai è ben contenta di essere al centro dell’attenzione nella sua nuova forma. Tuttavia, verso la metà della serie, Mai inizia quel lungo percorso psicologico che la spingerà, pian piano, a prendere coscienza di se, accettandosi per quello che è: una bambina. Questo comportamento è un perno essenziale della trama. All’apparenza frivola e scherzosa ci trascina in un’introspezione accurata di quelli che sono i sentimenti di una comune ragazzina giapponese di quegl’anni, con i suoi dubbi, le sue perplessità, che tanto coinvolgono il pubblico delle sue coetanee nelle quali Mai si riflette alla perfezione. Sembra paradossale che, probabilmente il più riuscito dei personaggi Pierjokko, sia nato senza la Takada, va detto che però l’influenza della character designer è decisamente preponderante su quest’opera.
Esaminando invece la serie da un punto di vista tecnico balza all’occhio immediatamente una considerazione importante. Le movenze e l’animazione in se sono notevolmente migliorati da quel che fu Creamy. Sono passati appena due anni eppure dalla statica cantante che ondeggia sul palco abbiamo una prestigiatrice che incanta e stupisce con giochi di luce, gesti e fluidità non paragonabili ai suoi predecessori. È difficile stimare come e perché ciò sia accaduto, ma molto probabilmente anche lo Studio Pierrot venne travolto da quella che fu la grande rivoluzione informatica di quegl’anni, abbandonando così in parte la tecnica della camera in movimento sul disegno. Anche i personaggi non attivi sulla scena, infatti, spesso si muovono. Questo particolare, che sembra un’inezia, dona all’opera un approccio tanto fluido da farla apparire immensamente superiore a quelle precedenti. L’uso de “L’effetto steady” su un disegno statico, viene in parte ridimensionato. Ed anche gli sfondi assumono sempre meno elementi lasciando spazio al dettaglio dinamico. Un concetto importante quello degli elementi dinamici che merita un piccolo approfondimento.
Immaginiamo una sequenza nella quale viene inquadrato un bosco. Nel sottobosco ci sono tantissimi cespugli. Da uno di questi salta fuori qualcosa. Eppure tutti, inconsciamente potremmo giurare, guardando la scena, che il soggetto dinamico poteva spuntare solo li, perché? Per creare questa scena è stato disegnato uno sfondo, sul quale è stata fatta scorrere la camera per creare un certo effetto di movimento, anche se il fotogramma è uno solo. Successivamente è stato aggiunto un cespuglio, che ha un colore leggermente diverso. Questo cespuglio sarà l’unico elemento dinamico dell’intera scena, ossia l’unico che si muoverà davvero. Questa tecnica, oggi obsoleta ed utilizzata solo in anime di serie B, era uno standard importante negli anni '80. Ebbene nella produzione di Emi, se ne fa un uso sempre più ridotto, preferendo un’animazione fluida, con uno sfondo minimale, dove vengono concentrati molti elementi dinamici. È chiaro che senza l’ausilio dell’informatica questa scelta sarebbe risultata davvero onerosa per i realizzatori della serie, che avrebbero dovuto disegnare tanti oggetti e personaggi in movimento per ogni scena. Il computer da ai produttori la possibilità di “salvare” alcuni frammenti di fotogramma, per poterli così riproporre in parecchie scene successive. Per esempio si può far passare un gabbiano in volo in molte sequenze, prima da destra, poi da sinistra, cambiando angolazione, ma il gabbiano è sempre lo stesso. Questi piccoli dettagli “riciclati” che all’apparenza paiono insignificanti, donano una fluidità e una dinamicità alla scena mai sperimentare prima in Giappone aprendo le porte a un nuovo concetto di animazione. Emi è quindi un anime importante non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche per l'approccio tecnico col quale viene realizzato. Resta il fatto che la nostra eroina è sicuramente la meglio riuscita tra le Pierjokko, che dopo di lei si avvieranno ad un rapido declino.
I MILLE COLORI DI SANDY
Eccoci all’ultima puntata, l’ultima serie prima del silenzio di 12 anni. Lo Studio Pierrot non lascia questo anime con la stessa convinzione dei precedenti, lo fa molto in sordina, realizzando un opera che, come contenuti e disegni, risulta davvero mediocre se rapportata alle altre tre. Un prodotto molto più commerciale, che sfrutta la scia dorata lasciata da Creamy ed Emi, senza aprire però la strada ad un ipotetico successore. Nel 1986 nasceva Maho no Idol Pastel Yumi, subito importata in Italia con il titolo Sandy dai Mille Colori.
Sandy riprende un po’ il tema di Parsia, anche lei infatti ha una missione, quella di salvare il mondo da un’inspiegabile morsa di gelo. Anche se al posto dei sogni ci sono fiori e disegni. Gli elementi classici si sono tutti, l’oggetto magico duale c’è, i folletti anche, ma ne manca uno fondamentale: Sandy non sa trasformarsi in un’adulta. Perché? Se ne sono dette parecchie su questa scelta dello Studio Pierrot, forse la più attendibile viene non dai fan ma dai detrattori della serie. Spieghiamo nei particolari questa vicenda: dopo tre anni di format collaudato e solido, Sandy sembrava essere il trampolino di lancio per due scelte importanti, eliminare l’alterego e contrarre la serie in un palinsesto semestrale. Due scelte che valgono da esperimento per gli sceneggiatori ed i creatori di questa serie, che ne determineranno probabilmente il flop (in Giappone,) ma che spianerà la strada a un nuovo genere di anime, più breve, che permette di concentrare storie un po’ frivole, come quella della nostra simpatica Yumi, in meno di un’anno. La scelta di contrarre questa serie nelle stagioni primavera-estate è dettata anche da un imperativo scenografico. Le Pierjokko erano “sincronizzate” con il tempo giapponese. Se un episodio andava in onda a Natale allora era natalizio, se andava in onda d’estate parlava di mare e vacanze. Questa sincronia venne poi adottata da molte produzioni a lunga scadenza (si pensi ai filler di Bleach ambientati in inverno o estate a seconda della data di rilascio). Ovviamente Sandy, parlando di fiori, non poteva certo avere una stagione invernale.
Lo staff di produzione viene quasi stravolto rispetto alle precedenti serie. L’unico caposaldo rimane quel Kouji Motoyama, allievo della Takada, che saprà donare un character design conforme alla norma anche rispetto alla bassa qualità narrativa della trama, occupandosi anche di parte della sceneggiatura. Questa viene sviluppata dal canovaccio di Shouji Imai, un tizio che non ha fatto parlare molto di se dopo questa serie, così come il regista Ryo Tachiba, che dopo Sandy dirigerà episodi sparsi di serie dallo scarso impatto. La sceneggiatura è invece affidata ad un'ignota ed appunto a Kuoji Motoyama. Non è chiaro il perché lo Studio Pierrot abbia concentrato tanti nomi così inesperti per proseguire il suo format allora più seguito. Forse si stava cercando una nuova sperimentazione, come successe quattro anni prima con Creamy, ma il risultato fù assai più discutibile. Dopo Sandy il silenzio. Molti OAV, grandi commercialate e Spinoff, ma niente più Pierjokko, fino al 1998.
1998: PIERROT E LA NUOVA MAGHETTA
Chi è questa nuova Pierjokko? Perché il rinomato Studio decide, dopo 12 anni, di riproporre un format che aveva riscosso si grande successo, ma che era anche miseramente naufragato con Sandy? Cominciamo col dire che Fancy Lala , non nasce nel 1998, ma dieci anni prima. Eroina di un OAV dello Studio Pierrot lanciato l’11 marzo 1988 e diretto da quel Motosuke Takahashi, già art director di Lamù. Quell’unico episodio, Harbor Light Monogatari - Fashion Lala Yori, sarà fonte di ispirazione per i produttori del ’98 che creeranno l’ultima, anacronistica Pierjokko: Mahou no Stage Fancy Lala.
Fancy Lala è una scelta audace per lo Studio Pierrot, che in quegl’anni deve combattere con mostri sacri degli anime, da una parte i Pokèmon, dall’altra Sailor Moon, che rilancia il Maho Shojo su un piano quasi Shonen, e poi ancora le nuove leve dell’anime, che creano prodotti rivoluzionari come Cowboy Bebop e Excel Saga. Come rilanciare le sorti del Pierrot? Riproponendo un classico, con la solita struttura ma con una trama che compatta il meglio delle Pierjokko precedenti in una sola, con un pizzico di filosofia e morale in più. Il prodotto è di per se di buona fattura, ma non regge l’impatto con il presente. Il format, un tempo perfetto, mostra le sue rughe, e dopo tanti anni di stop rilanciarlo è un’impresa che non sembra attuabile. Fancy Lala resta quindi l’ennesimo esperimento, riuscito in parte dello Studio Pierrot.
Come già accennato le intenzioni sono davvero buone. La nostra nuova Pierjokko si trasforma in una bella adolescente (evitando di ripetere l’errore di Sandy), che canta proprio come Creamy, che dialoga coi suoi folletti sulla moralità dei suoi poteri, proprio come Emi e che disegna come Sandy. Insomma, un guazzabuglio di idee reimpastate in questa ricetta che vuole rinnovarsi usando il vecchio.
La perdita dei poteri di Fancy Lala è l’unica anomalia. Tra tutte le Piejokko è l’unica a mostrare egoismo verso il dono ricevuto e quando per un banale incidente di percorso smarrisce il prezioso oggetto magico, il lato infantile (e reale) della protagonista scaturisce come un fiume in piena. Miho, questo è il nome della bambina, punta i piedi disperata e rivuole a tutti i costi tornare ad essere Fancy Lala. Per farlo sacrificherà molto più che se stessa. Il finale racchiude in se una grande morale e un connotato prettamente Kitch. Da una parte la ragazzina si rende conto, guidata da Mr. Mistero di non poter più ottenere i suoi poteri, accettando quindi la realtà per quella che è, e quindi, di conseguenza, accettandosi. Dall’altra la mistica profezia del suo parrucchiere, che come una sacra visione rivela a Miho il futuro, sminuendo un finale che poteva essere davvero godibile.
Per realizzare la serie che voleva rilanciare le Pierjokko, lo Studio non bada a spese ed ingaggia forse il regista più eclettico e completo in commercio Takahiro Omori. L’unico a saper mischiare con maestria maho shojo a seinen psicologici. Ricordiamo infatti che il maestro è stato direttore di serie leggere e fresche come Super Milk-Chan, grandi opere come Baccano! e psicodrammi seinen come Koi Kaze. Insomma, un regista a tutto tondo. Al suo fianco un piccolo esercito di sceneggiatori, tra cui lo stesso creatore della serie, Tomomi Mochizuki, già regista di Ranma ½ e grande esperto di Shojo in generale, tanto che il suo palmares conta titoli come Princess Nine, Hiraki no Densetsu (Hilary in Italia, quella della ginnastica artistica), Kimagure Orange Road, tanto per citarne alcuni.
Insomma, lo staff c’è, e che staff! La storia c’è. Cosa manca? Mancano gli anni ’80, e quella freschezza che le Pierjokko avevano in quel periodo. Eclissate da un nuovo standard di eroina (Sailor Moon) che si presenta come maho-shojo ma fa impazzire anche i maschietti, le Pierjokko hanno finito i loro tempi d’oro e sono relegate ad un immaginario collettivo passato, obsoleto sul finire del millenio, un muro di cemento contro il quale Studio Pierrot sbatte il grugno, riportando anche diverse ferite e decretando la fine delle sue majokko, per ora.
MANGA, OAV, SPINOFF, FANSERVICE E YEN A PALATE!
Succede a tutti nella vita di trovarsi di fronte parole sconosciute, quasi impenetrabili, criptiche, che lasciano un amaro in bocca duro da mandar via. E capita anche che queste parole non abbiano un vero e proprio significato, perché magari coniate da una cerchia ristretta di persone per indicare qualcosa che prima non aveva un nome. La prima volta che sentii la parola fanservice, ormai molti anni fa, anche io mi trovai spiazzato. Cosa vorrà mai dire questa strana parola? Un’analisi etimologica suggerisce di primo acchito un legame tra Fan e Servizio, ossia servizio reso ai fan. Ma è esatto? Non del tutto. Il termine non ha vera e propria denominazione in quanto non è riconosciuto da alcun dizionario o lingua al momento. Quindi la sua interpretazione è riconducibile al significato che la maggioranza dei suoi usufruitori gli attribuisce. Possiamo quindi definire il fanservice come quell’aggiunta di particolari superflui ai fini della trama che servono solo a sollazzare un determinato target di persone. Per capire meglio facciamo qualche esempio, e forse il più classico che si può fare è il fanservice nell' Ecchi. Un amante dell’Ecchi si aspetta, visionando un anime di questo tipo, un certo genere di inquadrature, espressioni, suoni, personaggi che vengono rappresentati al solo scopo di accontentarlo. Questo concetto è estendibile ad ogni branca dell’animazione nipponica ma attenzione, solo a quest’ultima! Il fanservice è un concetto squisitamente giapponese ed è intimamente legato al mondo di anime e manga. La vendita di magliette alo stadio, il poster gigante del cantate in voga nei settimanali per ragazzine, il calendario della maggiorata di turno allegato all’ennesimo settimanale che parla di palestra e motori non sono fanservice, anche se in pratica puntano allo stesso obbiettivo. Si può quindi parlare più generale di marketing, e si può dire che il fanservice è il motore che spinge avanti certe serie animate, ossia il suo marketing intrinseco. Quest’ampia premessa ci serve ad inquadrare quello che è stato il fattore chiave del successo di queste serie. Al di là della trama e della fruibilità dei contenuti infatti, ciò che realmente ha contribuito al boom del loro successo è stato una accurato planning di marketing invasivo, dettato da regole di mercato feroci.
In Creamy la figura di Toshio per esempio calza a pennello per delineare quello che è il vero e proprio fanservice di queste serie. Il ragazzo della porta accanto, bello ma irraggiungibile, che non si fila di striscio la piccola Yu, ora se ne innamora grazie all’uso della magia. Ciò che però colpisce è il fatto che la nostra protagonista non crea un filtro d’amore come avrebbero fatto le altre majokko sue antenate, è lei stessa a trasformarsi nella figura che Toshio brama. Il messaggio subliminale è forte: la piccola telespettatrice che si immedesima in Yu, ricalca istintivamente in Toshio la figura del ragazzino per il quale sospira. Ai fini della trama infatti la figura del ragazzo (come quelle di tutti gli altri nelle Pierjokko) è un mero contorno. Forse in Creamy, Toshio ricopre ancora un ruolo se non chiave, almeno di comparsa utile alla trama, col proseguire delle Pierjokko questa spalla maschile verrà sempre più relegata ad un surrogato al quale le giovani telespettatrici possono sovrapporre il volto del loro amato e nulla più. La scelta di questo character design è vincente, non solo al fine di far appassionare alla serie le bambine, ma anche per spingerle alla ricerca dell’oggetto che permette tale magia: il talismano magico. Il potere commerciale di questo oggetto è enorme. Innanzi tutto la scelta ricade sempre su un qualcosa di utile. Non è mai un ciondolo fine a se stesso, è braccialetto, cerchietto, specchio, insomma, qualcosa che alle bambine può servire davvero. Così che dovendo scegliere tra tanti cerchietti, quello che ricorda l’autore delle magie di Parsia sembra la scelta ovvia su cui ricadere. Ovviamente l’azienda detiene il controllo di questo tipo di merchandising creando veri e propri feticci di culto. Inoltre va detto che tuti questi oggetti magici sono comodamente trasportabili, anzi, sono accessori di cui una giovane donna non può certo fare a meno nel trantran della sua vita. Le ragazzine portando con se i ninnoli delle Pierjokko diventano quindi incosapevoli promoter, che spingono altre ragazzine ad acquistarli. Altro tassello fondamentale sono i folletti. Sottoforma di pupazzi o peluche il loro valore commerciale è altissimo perché facilmente fruibili. La differenza tra un action figure destinato ad una teca ed un peluche con il quale si può giocare è abissale. Come potete notare ogni scelta è dettata da rigidi imperativi commerciali. Sia chiaro, questo non sminuisce affatto le Pierjokko, anzi, ne aumenta il pregio dal punto di vista creativo.
La cannonata di Yen scaturita da questi successi ha prodotto anche un ovvio rinculo negativo. Sulla scia dorata del successo i produttori e lo stesso Studio Ghibli si sono lasciati prendere la mano. Manga, OAV, Spinoff di dubbia moralità e Crossover. Ogni Pierjokko ha portato con se una carrellata di eventi mediatici che si sono alimentati della linfa fresca creata dalla maghette. Il troppo, ovviamente, stroppia e ciò ha dato luogo ad aborti quali le puntate speciali in cui le nostre eroine combattono riunite contro un alieno tentacolare o peggio ancora lo special dove Creamy incontra Minky Momo, quasi a spregio delle tante voci sul possibile plagio. Ciò che resta oggi di queste maghette è una caterva di merchandising accatastato nelle teche dei collezionisti, un cospicuo rendiconto nelle casse dello Studio Pierrot (che tuttora sfrutta queste eroine d’altri tempi a scopo di marketing) e una nicchia nel cuore di tanti telespettatori, che si sono innamorati di queste serie.
LE PIERJOKKO IN ITALIA E LA MAGIA NERA DEL CENSORE
Non ci sono voluti molti anni perché anche il nostro paese guardasse con fare interessato alle Pierjokko. Prima di tutto perché quel marketing di facile diffusione e grande impatto faceva gola ai distributori nostrani, ma anche in virtù della possibilità di importare un ottimo prodotto, destinato a un pubblico prettamente femminile, con eroine di nuova foggia, bambine questa volta, bambine moderne, molto distanti dalle classiche Heidi, Georgie e Candy Candy. Bambine moderne e spensierate, che hanno problemi semplici, risolvibili agitando la bacchetta magica. Una rara possibilità questa in effetti per le emittenti nostrane, che avevano abituato le nostre bambine a storie si belle, ma sempre un po’ tristi, distanti da quella che è la spensieratezza dell’infanzia. Serviva qualcosa di fresco, di nuovo e coinvolgente, che avesse delle protagoniste nelle quali le piccole italiane potessero identificarsi. Protagoniste che sognano ad occhi aperti, come tutte le bambine del mondo, e che grazie ad un pizzico di magia potessero concretizzare in parte quei sogni tipici di un’infanzia che guarda ammirata il mondo dei “grandi”.
Tuttavia in Italia la situazione non era delle più rosee e neppure la magia dell’amore, o chi per lei, poteva sciogliere il puritano cuore congelato del censore. Per spiegare il periodo a cavallo tra ‘85 e ‘95 anche a chi, per ragioni anagrafiche, non l’ha vissuto, bisogna partire da un discorso molto più generico, mettendo un attimo da parte gli anime e tuffandoci nell’atmosfera di quei tempi. Un esempio calzante della mentalità provinciale e molto chiusa di quegl’anni è dato da un semplice spot televisivo di una nota bibita analcolica, prodotto nel 1971 per gli States e importato nel nostro paese come spot natalizio negli anni ‘80.
Questa è la versione ufficiale del video, così come lo videro gli americani e mezza Europa:
Questa è invece la versione italiana, che viene riadattata per motivi di palinsesto (mancano 27 secondi) ed altre esigenze, non proprio politically correct.
Cosa è successo? Il motivetto resta orecchiabile e molto simile, l’albero c’è, i ragazzi che cantano anche. Eppure ne manca qualcuno. Si, perché dopo quella bella ragazza in primo piano, i volti sorridenti della ragazza asiatica e del ragazzo afroamericano spariscono, sostituiti da una visione d’insieme. E anche qui, dove prima c’erano un giovane dai lineamenti mediorientali, una ragazza in kimono e una bella ragazza di colore, anche loro vengono diciamo, cancellati dalla scena. Perché? Perché vigeva in quegl’anni la convinzione che tutto ciò che non fosse “bianco” non stesse bene in TV a meno che non fosse servo di qualcuno o americano. Come dimenticare il simpatico cameriere di colore del Dudi, il padre di Sharon ne “I ragazzi della terza C” che parlava come un cannibale delle barzellette ed era sempre in livrea? Ecco, tutto quello che era in Italia ma non italiano andava inquadrato così: in tenuta da paggetto e con tutti i verbi scombussolati. Così da far sorridere ed intenerire lo spettatore, che potesse commentare con la moglie “Ao! Anvedi che simpatico quer negro li!”. Ed è per questo che la “perfect armony” americana diventa “magica armonia” in Italia, già, magica, proprio come le magie che il censore indirizzò sulle Pierjokko. Le nostre eroine non erano violente ne ambigue (salvo una puntata di Evelyn dal titolo “Roby diventa una ragazza”, prontamente rimossa dallo scandalizzato censore!). Allora cosa ci sarebbe da censurare? Nulla, se non fosse che quelle ragazzine erano un po’ troppo giapponesi.
Oggi siamo abituati alla cultura nipponica. Molti di noi la adorano e quasi la idolatrano, ma va tenuto conto che più di vent’anni fa il Giappone per noi italiani era solo un altro stato asiatico che voleva copiarci la tecnologia di Olivetti, Pirelli e Fiat. Quindi era difficile per gli allora produttori e supervisori (leggasi signora Manera), adattare quegl’anime al nostro palato. Si sentiva l’esigenza di tagliuzzare, adattare, ammortizzare la cultura nipponica. Anzi, già che c’era la possibilità, perché non levarla del tutto? E così fu. Metterci oggi ad accusare quelle scelte è un gesto alquanto ipocrita. Molti le denigrano senza essere neppure nati in quegl’anni. Ciò che invece deve farci riflettere è che tutt’ora (dopo un quarto di secolo) nessuno si sia ancora preso la briga di correggere quegli adattamenti un po’ razzisti, riadattarli al clima più tollerante che si vive oggi in TV. Perché in Italia come in Giappone le majokko fecero strage di fan, vendendo, vendendo e vendendo. Fruttando milardi di lire alle nostre emittenti in pubblicità e gadget. Sarebbe quindi un gesto di rispetto, nei confronti degli ancora moltissimi fans italiani, riproporci quelle serie in TV, senza quell’ormai obsoleta censura, che puzza di fascio littorio nazional popolare.
Per maggiori informazioni sulla censura degli anime nel nostro paese leggete www.ilbazardimari.net o gli altri miei articoli su infoextra:
Meisaku
NOTE DELL'AUTORE
Purtroppo nessuno di noi nasce onnisciente, neanche io. Quindi è molto probabile che questo articolo presenti alcune imprecisioni e carenze. In tal caso per favore segnalatemele. Vi ringrazio per la cortese collaborazione.
Si ringrazia Monica del sito www.onlyshojo.com, dal quale sono state tratte molte informazioni e alcune rarissime immagini riprodotte in questo articolo, per sua gentile concessione e la sua collaborazione.
FONTI E BIBLIOGRAFIA:
www.wikipedia.org (sezioni: Italiano, Inglese, Francese, Giapponese)
Studio Pierrot
www.ilbazardimari.net
www.animenewsnetwork.com
www.anidb.com
www.cartonionline.com
www.onlyshojo.com
Ultimo aggiornamento: 03/10/2009
Il genere Maho-shojo non è una novità quando lo Studio Pierrot decide di creare una serie di maghette che non combattono, non hanno poteri megagalattici e non sono aliene. Sono bambine, normali bambine terresti, che ricevono poteri magici da fonti diverse. Questi poteri permettono loro di trasformarsi in adolescenti e di compiere una serie di avventure. Per lo studio, nato da pochi anni e già padre della fortunatissima Lamù, è un’impresa nuova e avvincente che sfida lo strapotere dell’allora guru del genere maho-shojo: Toei. Una scommessa sulla quale pochi avrebbero puntato, che permette però ai suoi realizzatori di godere di un successo forse davvero inatteso. Le Majokko dello Studio Pierrot possono definirsi tranquillamente (assieme a Lamù) il motore che ha lanciato nel firmamento dei grandi questa casa di produzione.
IL POTERE DI INCANTARE
Esiste, come in ogni concetto, una chiave di volta che regge l’imbastitura dell’intero discorso, ossia quel nome, aggettivo, suono o immagine che, una volta mostrata, svela agl’occhi dell’interlocutore, senza più ombra di dubbio, di cosa si sta parlando. Nel caso delle Majokko dello Strudio Pierrot [Da ora Pierjokko] questo ha un nome e un cognome: Akemi Takada. Classe 1952, un donnino compresso in un metro e mezzo di talento e capacità, la Takada è stata per queste serie la così detta scintilla che ha innescato l’incendio. Quello della Takada è un mestiere non semplice: la character designer. Si ma cosa fa questo “professionista dei personaggi”? Il Chara Designer o CD, come viene spesso abbreviato, ha il non semplice compito di sviluppare, assieme all’autore, disegni, forme, colori e psicologia dei personaggi che compongono una serie. Prima ancora di parlare di psicologia, il soggetto va creato attraverso una serie di prove dette settei nelle quali il CD si prodiga nel dare al suo soggetto il massimo di espressività col minimo di tratti. Questo processo creativo è di vitale importanza in quanto è a queste bozze grafiche che i disegnatori dovranno attenersi per la realizzazione dei personaggi nelle varie scene. In un secondo momento si passa alla caratterizzazione del movimento, ossia il disegno della postura, dell’atteggiamento, della mimica tutto per facilitare il compito ai key animator, ossia coloro che creano il movimento partendo proprio da queste basi. Infine i dettagli, quali acconciatura e abbigliamento. Tutto questo va svolto col benestare del creatore della serie che solitamente funge egli stesso da chara designer.
In un manga il CD è solitamente anche l’autore del prodotto, nell’anime invece questa figura si discosta e diventa indipendente. Molti autori hanno fatto da CD per le loro opere, ma recentemente è sempre più accettata l’idea di rivolgersi a un vero professionista.
Le avventure delle Pierjokko iniziano da un'altra eroina, che è a sua volta una Majocco ma che si discosta da questo filone: Lamu. Creata da Rumiko Takahashi pochi anni prima l’eroina spaziale fu il primo grande successo dello Studio Pierrot. In quell’occasione fu proprio la Takada a curare il chara design e facendo tesoro di questa esperienza forgiò uno standard per le future eroine in produzione. La Takada lavorò solo alle prime due Pierjokko ma, come spesso accade, creò un filo conduttore che legò indissolubilmente queste produzioni. Collaborando con il regista Takashi Anno nella produzione di Persia (Evelyn in Italia) suggerì quello che era lo standard di disegno della serie successiva, nella quale la Takada non lavorò ma che confermò Anno alla regia.
Lo studio Pierrot, nella creazione di queste serie impose dei paletti non solo grafici, ma soprattutto sullo sviluppo della sceneggiatura. Le storie infatti hanno dei fattori comuni molto importanti che servono a distinguerle dalla altre Majokko degli anni ‘80.
Primo fra tutti la protagonista, perché ovviamente il perno delle vicende è femminile, è sempre una bambina umana (primo fattore). Questa riceve dei poteri con tempo limitato (secondo fattore) da alieni o spiritelli non appartenenti a questo mondo e che la accompagnano nelle sue avventure (terzo fattore). Questi poteri si azionano per mezzo di un oggetto magico (quarto fattore) che si trasforma anch’esso. Grazie a questo oggetto è in grado di trasformarsi in un’adolescente (quinto fattore) così da poter vivere un’esperienza adulta pur rimanendo una bambina nell’animo. Va sottolineato che questo aspetto psicologico delle nostre protagoniste è davvero importante. Tutte le Pierjokko sono in realtà bambine, anche se fanno girare la testa a molti adulti e cercano di comportarsi come tali.
La realizzazione grafica deve quindi essere molto curata, e qui torniamo alla Takada, poiché deve fornire un certo distacco tra le due figure protagoniste pur mantenendone gesti, somiglianze ed abitudini. Quindi la bambina ed il suo alter ego adulto devono agire e comportarsi all’unisono, e la traccia da seguire è quella del comportamento infantile della protagonista. Una altro fattore molto importante che caratterizza parecchio queste serie è l’assenza di un vero antagonista. Esistono elementi di disturbo, ossia personaggi che vogliono intralciare o scomodare l’eroina, ma senza affrontarla. Questo per due motivi ben distinti. In primis la protagonista non combatte. I suoi poteri sono mere trasformazioni della realtà che le servono per creare magie più o meno potenti ma (quasi) mai offensive. In secondo luogo l’obbiettivo finale della vicenda non è mai “sconfiggere il cattivo” ma comporta sempre una crescita emotiva del personaggio, una maturazione che la spinge ad aiutare questo o quell’altro ed a migliorare se stessa.
PAMPULO PIMPULO PARIM PAMPUM!
TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | SCHEDA |
Maho no tenshi Kurimi Mami | L’incantevole Creamy | 1983 | SI | LINK |
1983, il Giappone e molti altri paesi a traino si ingozzano di serie su maghette dolci e carine, streghe a volte, con poteri miracolosi, in grado di compiere grandi prodigi. La maggior parte di queste belle e magiche eroine proviene dalla stessa casa di produzione che a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha saputo dar loro vita, incantando il pubblico con le loro avventure. La casa è la Toei e i titoli sono tantissimi, di cui, probabilmente, la più famosa nell’immaginario collettivo resta Bia e la sfida della magia.
Ma facciamo un ulteriore passo indietro nella storia e fermiamoci al 1962, quando tre fratelli di Kyoto, Tatsuo, Kenji e Toyoharu Yoshida, fondano una piccola casa di produzione: la Tatsunoko. Pionieristica e realizzatrice di serie immortali quali Judo Boy, Demetan, Kyashan, Chobin, Yattaman, Hurrycane Polymar e molti altri, questa azienda ha un altro merito, ossia quello di aver formato due personaggi di estrema importanza per l’animazione nipponica: Yuji Nunokawa e Hisayu Toriumi. Si, a molti di noi, in effetti, questi nomi dicono davvero poco, tuttavia questi due giovani animatori nel 1979 hanno un’idea. Si licenziano dalla Tatsuoko e fondano il loro studio di animazione, lo Studio Pierrot. Oltre al distacco fisico dall’azienda formatrice c’è anche un distacco filosofico. La Tatsunoko produceva in quegl’anni principalmente due generi di anime ben distinti: supereroi alieni o robotici in formato shonen e meisaku in formato kodomo. Lo Studio Pierrot parte, volere della sorte, proprio con un Meisaku, producendo nel 1980 Nils no fushigi na tabi, di scarso valore e successo. Dopo il lancio di Lamu, del quale abbiamo già parlato, ai due produttori salta un po’ la mosca al naso e decidono di avventurarsi in un genere del tutto nuovo per loro: il maho-shojo. Riusciranno ben presto a strappare alla Toei il titolo di regina del maho-shojo e farsi incoronare nuovi re del genere.
Nel 1983 Ito Kazunori (famoso oggi per il suoi lavori con Patlabor e .hack\\) inizia a stendere quel canovaccio che sarà la base sulla quale si svilupperà la futura prima serie Pierjokko. La creazione dei disegni è affidata a Yuko Kitagawa, che disegnerà anche il manga abbinato alla serie e che purtroppo creerà solo questa produzione nella sua vita (fatta eccezione per lo screenplay in un film di Lupin nel ’78). Nasce Maho no tenshi Creamy Mami, un anime innovativo che viene proiettato dal primo luglio 1983 sulla rete televisiva Nippon Television e che affascina subito gli spettatori del Sol Levante. L’idea è di creare un maho-shojo alternativo, più concentrato sulla modernità della vita nipponica che sulla magia fine a se stessa. Da questo concetto ne scaturisce la dolce Creamy, primo alter ego magico delle Pierjokko. Gli elementi ci sono tutti e gli alieni in questione, sono due batuffoli di pelo: Posi e Nega. Cos’ha di tanto diverso Creamy rispetto alle altre majokko? Indubbiamente il fascino, Creamy è bella, alla moda, accessoriata, e non usa la magia per creare pozioni, lo fa per diventare una Idol. Il connubio magia-jetset pare un matrimonio morganatico tra la nobile arte degli antichi stregoni e il frivolo ambiente della mondanità moderna. La formula magica però è geniale e il successo lo dà ad intendere. Altra grande novità, sulla quale lo Studio Pierrot ha un fine olfatto è il mondo del merchandising e del fanservice. L’oggetto che Yu, la nostra piccola protagonista, usa per trasformarsi è duplice: da medaglione diventa bacchetta magica a suo piacimento. Questo “oggetto magico” non è affatto da sottovalutare. Il suo potere commerciale infatti è molto maggiore del suo millantato fattore magico. Presto le giovani telespettatrici (e non solo) inizieranno a desiderare il ciondolo e la bacchetta che Yu usa per trasformarsi, così da essere anche loro delle piccole Creamy.
Ho accennato la parola fanservice. Avremo modo di chiarire più avanti di cosa si tratta in quanto è giusto spiegare, una volta per tutte, il significato di questo termine, sbandierato da molti, capito da pochi ed usato spesso a sproposito. Per ora prendete per vero che per il successo di Creamy il fanservice gioca un ruolo chiave. La caratterizzazione della figura di Toshio da parte della nostra Akemi Takada sarà una tassello indispensabile al lancio della prima majokko targata Studio Pierrot.
Tutto questo contorno non sarebbe comunque riuscito a decollare senza una storia credibile, avvincente ed un’ottima regia. Osamu Kobayashi è un regista ancora in erba quando prende le redini di questo anime. Ricordiamo per doveri editoriali le sue collaborazioni nella realizzazione di serie molto amate in Giappone e poco conosciute all’estero come Makoto-Chan e Gambare! Tabuchi-Kun!, due yonkoma manga adattati a film per il grande schermo negli anni ’70. Ora è indubbiamente entrato nel firmamento dell’animazione grazie ai suoi titoli di punta come Kimagure Orange Road e BECK, ma ai tempi di Creamy il suo debutto era un altro azzardo per lo Studio Pierrot.
La storia si incentra su Yu Morisawa, e sulla sua dote appunto di trasformarsi nell’avvenente cantante Creamy. Come abbiamo già detto Yu è una bambina normalissima, che riceve i suoi poteri da fonti esterne. Questo crea in lei e per osmosi nei suoi telespettatori, una duplice intesa. Yu ha un segreto e lo custodisce gelosamente. A parte lei solo lo spettatore ne è al corrente e questo crea un legame molto intenso con l’eroina (basti pensare che molti format di soap opera famose si basano su questo feeling). Inoltre Yu vive un sogno magico nel quale si forma un triangolo utopico con soli due lati: ossia lei ama Toshio, ma lui ama Creamy, che altri non è se non la stessa Yu.
Ovviamente Yu non può parlare del suo segreto neppure a lui e questo crea infinite situazioni comiche e romantiche sulle quali gli sceneggiatori hanno il loro bel da fare nello sbizzarrirsi. Entrambi questi fattori verranno ripresi (chi più chi meno) nelle successive produzioni, ma è fuori discussione che sia stata Creamy a gettare le basi di un nuovo tipo di maho-shojo che avrebbe coinvolto il pubblico in modo molto differente dal classico e già ben collaudato filone.
EVELYN, IL SOGNO D'AMORE E L'INCUBO DEL PLAGIO
TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | SCHEDA |
Mahou no yousei Perushya | Evelyn e la magia di un sogno d’amore | 1984 | SI | LINK |
Appena terminate le avventure di Creamy lo Studio Pierrot lancia subito una nuova eroina, in linea con il nuovo format confezionato dalla Takada e da Kobayashi; nasce, nel 1984 Mahou no yousei Perushya, o come sarà poi nota in Italia: Evelyn e la magia di un sogno d’amore. Il cast vede alcuni cambiamenti sostanziali. Osamu Kobayashi lascia per sempre le Pierjokko e così con lui anche Kozunori Ito e Yuuko Kitagawa, i due soggettisti che avevano dato vita a Creamy vengono sostituiti da Takako Aonuma, mentre al posto di Kobayashi subentra un altro futuro grande regista: Takeshi Anno (Maison Ikkoku, È un po' magia per Terry e Maggie). Resta salda alla guida del Chara Design Akemi Takada, questa volta però affiancata da Yoshiyuki Kishi, un allievo promettente, come vedremo in seguito.
La trama in breve. L’aereo che deve riportare Parsia Hayami in Giappone dopo il suo lungo soggiorno in Africa, collide con una strana turbolenza che lo trasporta in un universo parallelo. Qua la ragazzina incontra tre piccoli Kappa, che prontamente le illustrano il grave problema che attanaglia il Lovely Dream (il loro mondo, appunto): creato dai sogni degli umani, Lovely Dream sta sempre più sprofondando in un inverno gelido ed eterno, solo la magia dell’amore può risollevare le sorti di un universo che sembrerebbe spacciato e che si sta allontanarsi dal nostro, inesorabilmente. Parsia riceve quindi la sua missione e gli strumenti per metterla in atto. Grazie a un cerchietto magico può ora contare su una vasta gamma di poteri magici, ma soprattutto sulla possibilità di trasformarsi in un’avvenente diciassettenne. Grazie alla magia dell’amore ora Parsia è l’unica in grado di salvare il Lovely Dream da un destino crudele.
Gli elementi ci sono tutti, eppure leggendo anche solo questa seppur breve introduzione a molti salta subito all’occhio che Parsia pare il clone di un’altra majokko apparsa solo due anni prima sul teleschermo: Minky Momo.
Entrambe le majokko hanno praticamente la stessa missione: salvare il Mondo dei Sogni da una brutta fine. Perché lo Studio Pierrot dovrebbe aver plagiato un anime prodotto due anni prima da Ashi e che stava ancora andando in onda in quel periodo, in quanto, di Minky Momo ne furono trasmesse due serie a palinsesto annuale? La risposta si perde nei meandri degli studi di produzione nipponici. Il cast delle due serie sono completamente indipendenti l’uno dall’altro. Nessun artista che ha lavorato a Minky Momo ha poi disertato verso lo Studio Pierrot per dedicarsi a Persia. Le congetture negli anni si sono sprecate. Ho consultato parecchie fonti che trattano l’argomento. Chi sostiene che sia una mera coincidenza, chi che sia un plagio bello e buono. Eppure nessuno fornisce prove che validino l’una o l’altra ipotesi. Certo, credere alla coincidenza è davvero un azzardo. Le assonanze tra le due serie sono tantissime, ma un aspetto importante deve farci riflettere sul fatto che forse non si trattò di plagio, bensì di reinterpretazione. Il confine tra queste due parole è labile, ma analizzando la trama delle due serie nel dettaglio si scopre che Persia è strutturata in modo molto più leggero della sua ipotetica genitrice. Si può dire che le vicende della nostra majokko siano salienti in circa 12 puntate: quelle iniziali, un paio centrali e quelle finali. Tutto il resto è mero contorno che nulla aggiunge alla trama e che concentra le energie di Persia su personaggi secondari che arricchiscono la serie ma non la storia in se (oggi diremmo che sono filler). Minky Momo, Gigì in Italia, ha invece una trama molto più lineare che non lascia spazio a episodi filler. La majokko della Ashi è infatti perennemente impegnata nella sua missione. Va inoltre aggiunto che, nonostante le somiglianze iniziali, poi le due serie si discostano parecchio l’una dall’altra. La trama di Parsia infatti, dopo un incipit che lascia presagire plagi e vergognose scopiazzature, non ha nulla a che spartire con lo svolgimento della missione di Gigì. Anche se i due universi per i quali le due eroine lottano sono simili, l’intreccio e lo svolgimento sono assai discordanti. Per farla breve sarebbe un po’ come chiedersi se Mila Azuki sia un plagio di Mimì Ayuhara, visto che entrambe giocano a pallavolo e vogliono andare alle olimpiadi. La risposta sembra palesemente negativa.
Viene però naturale domandarsi quanto Minky Momo, che si trasforma in adulta con un oggetto magico anche lei, abbia influenzato non solo questa serie, ma l’intera produzione delle Pierjokko. Rispondere a questa domanda ci farebbe cadere in una serie di supposizioni tendenziose, che creerebbero solo confusione. Mettiamo quindi da parte quelle che sono le contese tra Ashi e Studio Pierrot e limitiamoci a parlare di anime e delle nostre majokko, continuando con quella che sicuramente rappresenta la maturità completa per questo filone: Emi.
È QUASI MAGIA... EMI!
TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | SCHEDA |
Mahou no Star Majikaru Emi | Magica magica Emi | 1985 | SI | LINK |
Anno 1985. Lo Studio Pierrot sbanca il botteghino, conquistando la vetta più alta dello share e l’intero pubblico, prima nipponico, poi internazionale. Lo fa con un anime che, assieme a Creamy, sarà per sempre catalogato come il cavallo di battaglia di questo filone: Mahou no Star Majikaru Emi, noto a noi italiani come Magica magica Emi. Anche qua, come accadde con Parsia lo staff viene avvicendato, ma non completamente. Takeshi Anno resta saldo alla regia. La Takada lascia le Pierjokko, ma in buone mani. Le subentra infatti Koshiyuki Kishi, affiancato da Kouji Motoyama.
La trama. Mai Kazuki è una ragazzina appassionata di prestidigitazione e figlia d’arte. La madre era una maga e lo sono i nonni, a capo di una compagnia di prestigiatori: la Magical-Art. Durante un trasloco Mai si imbatte in uno strano globo di luce, che oscilla a mezz’aria. La strana luce sembra visibile solo a lei e dopo un breve inseguimento si rifugia all’interno di uno specchio. Mai nota subito che, attraverso l’oggetto, la sua immagine non viene riflessa, bensì compare una sorta di amalgama luminosa. Dallo specchio scaturisce ben presto un braccialetto magico e la sfera di luce si trasferisce all’interno di un peluche a forma di scoiattolo volante. L’esserino illustra a Mai i suoi nuovi poteri dando così il via alla nascita di Emi.
Alcune considerazioni preliminari vanno fatte prima di approfondire il discorso su questa serie. Emi è considerata, a buon titolo, l’opera più matura e meglio riuscita tra le Pierjokko. Questo sostanzialmente per due motivi. Prima di tutto Emi non usa i suoi poteri a seconda dei casi, ma lo fa per esaudire un suo sogno: quello di diventare una prestigiatrice. In questo suo maturare rapidamente per poter sperimentare il futuro Emi incarna perfettamente quell’indole fanciullesca del voler bruciare un po’ le tappe, per sperimentare la vita in tutte le sue salse. Chiaramente la ragazzina non si lascia mai andare ad eventi edonistici o discutibili, tuttavia tra le varie Majokko, è sicuramente la più sincera. Emi costruisce nel corso delle puntate un ragionamento e una morale tutti suoi, ossia cresce come individuo, sperimentando, grazie alla magia di Topo (il folletto del globo di luce), l’ebbrezza del vivere due realtà parallele. In una è Mai, una bambina dolce, gentile, simpatica. Nell’altra è Emi, l’adulta che Mai vuole diventare. È una piccola rivoluzione per il genere. Infatti Creamy e Parsia non si identificavano così strettamente nel loro alterego, il quale per loro non rappresentava certo un’aspirazione per il futuro così certa e calcata.
In secondo luogo la scelta finale di Emi è diversa dalle altre Pierjokko. A lei non viene concesso un tempo limite per i suoi poteri, è lei a scegliere come e quando rinunciarvi. Ed è questa rinuncia, questo gesto di maturità, a commuovere gli spettatori, i quali possono constatare quanto la piccola Mai sia cresciuta come persona nel corso delle puntate.
Sulla scelta di Mai va detto che la ragazzina non la pondera sin dall’inizio. Quando riceve i poteri, Mai è ben contenta di essere al centro dell’attenzione nella sua nuova forma. Tuttavia, verso la metà della serie, Mai inizia quel lungo percorso psicologico che la spingerà, pian piano, a prendere coscienza di se, accettandosi per quello che è: una bambina. Questo comportamento è un perno essenziale della trama. All’apparenza frivola e scherzosa ci trascina in un’introspezione accurata di quelli che sono i sentimenti di una comune ragazzina giapponese di quegl’anni, con i suoi dubbi, le sue perplessità, che tanto coinvolgono il pubblico delle sue coetanee nelle quali Mai si riflette alla perfezione. Sembra paradossale che, probabilmente il più riuscito dei personaggi Pierjokko, sia nato senza la Takada, va detto che però l’influenza della character designer è decisamente preponderante su quest’opera.
Esaminando invece la serie da un punto di vista tecnico balza all’occhio immediatamente una considerazione importante. Le movenze e l’animazione in se sono notevolmente migliorati da quel che fu Creamy. Sono passati appena due anni eppure dalla statica cantante che ondeggia sul palco abbiamo una prestigiatrice che incanta e stupisce con giochi di luce, gesti e fluidità non paragonabili ai suoi predecessori. È difficile stimare come e perché ciò sia accaduto, ma molto probabilmente anche lo Studio Pierrot venne travolto da quella che fu la grande rivoluzione informatica di quegl’anni, abbandonando così in parte la tecnica della camera in movimento sul disegno. Anche i personaggi non attivi sulla scena, infatti, spesso si muovono. Questo particolare, che sembra un’inezia, dona all’opera un approccio tanto fluido da farla apparire immensamente superiore a quelle precedenti. L’uso de “L’effetto steady” su un disegno statico, viene in parte ridimensionato. Ed anche gli sfondi assumono sempre meno elementi lasciando spazio al dettaglio dinamico. Un concetto importante quello degli elementi dinamici che merita un piccolo approfondimento.
Immaginiamo una sequenza nella quale viene inquadrato un bosco. Nel sottobosco ci sono tantissimi cespugli. Da uno di questi salta fuori qualcosa. Eppure tutti, inconsciamente potremmo giurare, guardando la scena, che il soggetto dinamico poteva spuntare solo li, perché? Per creare questa scena è stato disegnato uno sfondo, sul quale è stata fatta scorrere la camera per creare un certo effetto di movimento, anche se il fotogramma è uno solo. Successivamente è stato aggiunto un cespuglio, che ha un colore leggermente diverso. Questo cespuglio sarà l’unico elemento dinamico dell’intera scena, ossia l’unico che si muoverà davvero. Questa tecnica, oggi obsoleta ed utilizzata solo in anime di serie B, era uno standard importante negli anni '80. Ebbene nella produzione di Emi, se ne fa un uso sempre più ridotto, preferendo un’animazione fluida, con uno sfondo minimale, dove vengono concentrati molti elementi dinamici. È chiaro che senza l’ausilio dell’informatica questa scelta sarebbe risultata davvero onerosa per i realizzatori della serie, che avrebbero dovuto disegnare tanti oggetti e personaggi in movimento per ogni scena. Il computer da ai produttori la possibilità di “salvare” alcuni frammenti di fotogramma, per poterli così riproporre in parecchie scene successive. Per esempio si può far passare un gabbiano in volo in molte sequenze, prima da destra, poi da sinistra, cambiando angolazione, ma il gabbiano è sempre lo stesso. Questi piccoli dettagli “riciclati” che all’apparenza paiono insignificanti, donano una fluidità e una dinamicità alla scena mai sperimentare prima in Giappone aprendo le porte a un nuovo concetto di animazione. Emi è quindi un anime importante non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche per l'approccio tecnico col quale viene realizzato. Resta il fatto che la nostra eroina è sicuramente la meglio riuscita tra le Pierjokko, che dopo di lei si avvieranno ad un rapido declino.
I MILLE COLORI DI SANDY
TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | SCHEDA |
Maho no idol Pastel Yumi | Sandy dai Mille Colori | 1986 | SI | LINK |
Eccoci all’ultima puntata, l’ultima serie prima del silenzio di 12 anni. Lo Studio Pierrot non lascia questo anime con la stessa convinzione dei precedenti, lo fa molto in sordina, realizzando un opera che, come contenuti e disegni, risulta davvero mediocre se rapportata alle altre tre. Un prodotto molto più commerciale, che sfrutta la scia dorata lasciata da Creamy ed Emi, senza aprire però la strada ad un ipotetico successore. Nel 1986 nasceva Maho no Idol Pastel Yumi, subito importata in Italia con il titolo Sandy dai Mille Colori.
Sandy riprende un po’ il tema di Parsia, anche lei infatti ha una missione, quella di salvare il mondo da un’inspiegabile morsa di gelo. Anche se al posto dei sogni ci sono fiori e disegni. Gli elementi classici si sono tutti, l’oggetto magico duale c’è, i folletti anche, ma ne manca uno fondamentale: Sandy non sa trasformarsi in un’adulta. Perché? Se ne sono dette parecchie su questa scelta dello Studio Pierrot, forse la più attendibile viene non dai fan ma dai detrattori della serie. Spieghiamo nei particolari questa vicenda: dopo tre anni di format collaudato e solido, Sandy sembrava essere il trampolino di lancio per due scelte importanti, eliminare l’alterego e contrarre la serie in un palinsesto semestrale. Due scelte che valgono da esperimento per gli sceneggiatori ed i creatori di questa serie, che ne determineranno probabilmente il flop (in Giappone,) ma che spianerà la strada a un nuovo genere di anime, più breve, che permette di concentrare storie un po’ frivole, come quella della nostra simpatica Yumi, in meno di un’anno. La scelta di contrarre questa serie nelle stagioni primavera-estate è dettata anche da un imperativo scenografico. Le Pierjokko erano “sincronizzate” con il tempo giapponese. Se un episodio andava in onda a Natale allora era natalizio, se andava in onda d’estate parlava di mare e vacanze. Questa sincronia venne poi adottata da molte produzioni a lunga scadenza (si pensi ai filler di Bleach ambientati in inverno o estate a seconda della data di rilascio). Ovviamente Sandy, parlando di fiori, non poteva certo avere una stagione invernale.
Lo staff di produzione viene quasi stravolto rispetto alle precedenti serie. L’unico caposaldo rimane quel Kouji Motoyama, allievo della Takada, che saprà donare un character design conforme alla norma anche rispetto alla bassa qualità narrativa della trama, occupandosi anche di parte della sceneggiatura. Questa viene sviluppata dal canovaccio di Shouji Imai, un tizio che non ha fatto parlare molto di se dopo questa serie, così come il regista Ryo Tachiba, che dopo Sandy dirigerà episodi sparsi di serie dallo scarso impatto. La sceneggiatura è invece affidata ad un'ignota ed appunto a Kuoji Motoyama. Non è chiaro il perché lo Studio Pierrot abbia concentrato tanti nomi così inesperti per proseguire il suo format allora più seguito. Forse si stava cercando una nuova sperimentazione, come successe quattro anni prima con Creamy, ma il risultato fù assai più discutibile. Dopo Sandy il silenzio. Molti OAV, grandi commercialate e Spinoff, ma niente più Pierjokko, fino al 1998.
1998: PIERROT E LA NUOVA MAGHETTA
TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | SCHEDA |
Mahou no Stage Fancy Lala | Fancy Lala | 1998 | SI | LINK |
Chi è questa nuova Pierjokko? Perché il rinomato Studio decide, dopo 12 anni, di riproporre un format che aveva riscosso si grande successo, ma che era anche miseramente naufragato con Sandy? Cominciamo col dire che Fancy Lala , non nasce nel 1998, ma dieci anni prima. Eroina di un OAV dello Studio Pierrot lanciato l’11 marzo 1988 e diretto da quel Motosuke Takahashi, già art director di Lamù. Quell’unico episodio, Harbor Light Monogatari - Fashion Lala Yori, sarà fonte di ispirazione per i produttori del ’98 che creeranno l’ultima, anacronistica Pierjokko: Mahou no Stage Fancy Lala.
Fancy Lala è una scelta audace per lo Studio Pierrot, che in quegl’anni deve combattere con mostri sacri degli anime, da una parte i Pokèmon, dall’altra Sailor Moon, che rilancia il Maho Shojo su un piano quasi Shonen, e poi ancora le nuove leve dell’anime, che creano prodotti rivoluzionari come Cowboy Bebop e Excel Saga. Come rilanciare le sorti del Pierrot? Riproponendo un classico, con la solita struttura ma con una trama che compatta il meglio delle Pierjokko precedenti in una sola, con un pizzico di filosofia e morale in più. Il prodotto è di per se di buona fattura, ma non regge l’impatto con il presente. Il format, un tempo perfetto, mostra le sue rughe, e dopo tanti anni di stop rilanciarlo è un’impresa che non sembra attuabile. Fancy Lala resta quindi l’ennesimo esperimento, riuscito in parte dello Studio Pierrot.
Come già accennato le intenzioni sono davvero buone. La nostra nuova Pierjokko si trasforma in una bella adolescente (evitando di ripetere l’errore di Sandy), che canta proprio come Creamy, che dialoga coi suoi folletti sulla moralità dei suoi poteri, proprio come Emi e che disegna come Sandy. Insomma, un guazzabuglio di idee reimpastate in questa ricetta che vuole rinnovarsi usando il vecchio.
La perdita dei poteri di Fancy Lala è l’unica anomalia. Tra tutte le Piejokko è l’unica a mostrare egoismo verso il dono ricevuto e quando per un banale incidente di percorso smarrisce il prezioso oggetto magico, il lato infantile (e reale) della protagonista scaturisce come un fiume in piena. Miho, questo è il nome della bambina, punta i piedi disperata e rivuole a tutti i costi tornare ad essere Fancy Lala. Per farlo sacrificherà molto più che se stessa. Il finale racchiude in se una grande morale e un connotato prettamente Kitch. Da una parte la ragazzina si rende conto, guidata da Mr. Mistero di non poter più ottenere i suoi poteri, accettando quindi la realtà per quella che è, e quindi, di conseguenza, accettandosi. Dall’altra la mistica profezia del suo parrucchiere, che come una sacra visione rivela a Miho il futuro, sminuendo un finale che poteva essere davvero godibile.
Per realizzare la serie che voleva rilanciare le Pierjokko, lo Studio non bada a spese ed ingaggia forse il regista più eclettico e completo in commercio Takahiro Omori. L’unico a saper mischiare con maestria maho shojo a seinen psicologici. Ricordiamo infatti che il maestro è stato direttore di serie leggere e fresche come Super Milk-Chan, grandi opere come Baccano! e psicodrammi seinen come Koi Kaze. Insomma, un regista a tutto tondo. Al suo fianco un piccolo esercito di sceneggiatori, tra cui lo stesso creatore della serie, Tomomi Mochizuki, già regista di Ranma ½ e grande esperto di Shojo in generale, tanto che il suo palmares conta titoli come Princess Nine, Hiraki no Densetsu (Hilary in Italia, quella della ginnastica artistica), Kimagure Orange Road, tanto per citarne alcuni.
Insomma, lo staff c’è, e che staff! La storia c’è. Cosa manca? Mancano gli anni ’80, e quella freschezza che le Pierjokko avevano in quel periodo. Eclissate da un nuovo standard di eroina (Sailor Moon) che si presenta come maho-shojo ma fa impazzire anche i maschietti, le Pierjokko hanno finito i loro tempi d’oro e sono relegate ad un immaginario collettivo passato, obsoleto sul finire del millenio, un muro di cemento contro il quale Studio Pierrot sbatte il grugno, riportando anche diverse ferite e decretando la fine delle sue majokko, per ora.
MANGA, OAV, SPINOFF, FANSERVICE E YEN A PALATE!
PERSONAGGI | TITOLO | TITOLO ITALIANO | ANNO | Tradotto in italiano? | TIPOLOGIA | SCHEDA |
Creamy | Maho no tenshi Creamy Mami | Creamy Mami | 1984 | SI | Manga | LINK |
Creamy | Eien no once more | Il ritorno di Creamy | 1984 | SI | OAV | LINK |
Creamy | Lovely Serenade | - | 1984 | NO | Spinoff Musicale | LINK |
Evelyn | Pelsia ga suki! | - | 1984 | NO | Manga | LINK |
Creamy | Long Goodbye | Il Lungo Addio | 1985 | SI | OAV | - |
Emi | Mahou no Star Majikaru Emi | - | 1985 | NO | Manga | LINK |
Creamy | Curtain Call | - | 1986 | NO | Spinoff Musicale | LINK |
Emi | Semishigure | Pioggerella - La rinuncia ai poteri - Il gioco del filo e L'arcobaleno | 1986 | SI | OAV | - |
Creamy, Evelyn, Emi | Adesugata Mahou no Sannin Musume | - | 1986 | NO | Spinoff | LINK |
Sandy | Maho no Idol Pastel Yumi | - | 1986 | NO | Manga | LINK |
Evelyn | Kaiten Mokuba | - | 1987 | NO | OAV | - |
Creamy, Evelyn, Emi, Sandy | Majokko Club Yoningumi - A Kuukan Kara no Alien X | - | 1987 | NO | Spinoff | LINK |
Fancy Lala | Harbor Light Monogatari - Fashion Lala Yori | - | 1988 | NO | OAV | - |
Creamy | Minky Momo vs Creamy Mami | - | 1995 | NO | Special | LINK |
Fancy Lala | Mahou no Stage Fancy Lala | - | 1998 | NO | Manga | LINK |
Creamy | Zutto, kitto, motto! | - | ???? | NO | Spinoff | LINK |
Evelyn | Escape | - | ???? | NO | Special | LINK |
Emi | Kaze no Invitation | - | ???? | NO | Special | LINK |
Sandy | Chapter True Love | - | ???? | NO | Special | LINK |
Evelyn | "Il Mondo della Magia Poji Poji" | - | ???? | NO | Special | LINK |
Succede a tutti nella vita di trovarsi di fronte parole sconosciute, quasi impenetrabili, criptiche, che lasciano un amaro in bocca duro da mandar via. E capita anche che queste parole non abbiano un vero e proprio significato, perché magari coniate da una cerchia ristretta di persone per indicare qualcosa che prima non aveva un nome. La prima volta che sentii la parola fanservice, ormai molti anni fa, anche io mi trovai spiazzato. Cosa vorrà mai dire questa strana parola? Un’analisi etimologica suggerisce di primo acchito un legame tra Fan e Servizio, ossia servizio reso ai fan. Ma è esatto? Non del tutto. Il termine non ha vera e propria denominazione in quanto non è riconosciuto da alcun dizionario o lingua al momento. Quindi la sua interpretazione è riconducibile al significato che la maggioranza dei suoi usufruitori gli attribuisce. Possiamo quindi definire il fanservice come quell’aggiunta di particolari superflui ai fini della trama che servono solo a sollazzare un determinato target di persone. Per capire meglio facciamo qualche esempio, e forse il più classico che si può fare è il fanservice nell' Ecchi. Un amante dell’Ecchi si aspetta, visionando un anime di questo tipo, un certo genere di inquadrature, espressioni, suoni, personaggi che vengono rappresentati al solo scopo di accontentarlo. Questo concetto è estendibile ad ogni branca dell’animazione nipponica ma attenzione, solo a quest’ultima! Il fanservice è un concetto squisitamente giapponese ed è intimamente legato al mondo di anime e manga. La vendita di magliette alo stadio, il poster gigante del cantate in voga nei settimanali per ragazzine, il calendario della maggiorata di turno allegato all’ennesimo settimanale che parla di palestra e motori non sono fanservice, anche se in pratica puntano allo stesso obbiettivo. Si può quindi parlare più generale di marketing, e si può dire che il fanservice è il motore che spinge avanti certe serie animate, ossia il suo marketing intrinseco. Quest’ampia premessa ci serve ad inquadrare quello che è stato il fattore chiave del successo di queste serie. Al di là della trama e della fruibilità dei contenuti infatti, ciò che realmente ha contribuito al boom del loro successo è stato una accurato planning di marketing invasivo, dettato da regole di mercato feroci.
In Creamy la figura di Toshio per esempio calza a pennello per delineare quello che è il vero e proprio fanservice di queste serie. Il ragazzo della porta accanto, bello ma irraggiungibile, che non si fila di striscio la piccola Yu, ora se ne innamora grazie all’uso della magia. Ciò che però colpisce è il fatto che la nostra protagonista non crea un filtro d’amore come avrebbero fatto le altre majokko sue antenate, è lei stessa a trasformarsi nella figura che Toshio brama. Il messaggio subliminale è forte: la piccola telespettatrice che si immedesima in Yu, ricalca istintivamente in Toshio la figura del ragazzino per il quale sospira. Ai fini della trama infatti la figura del ragazzo (come quelle di tutti gli altri nelle Pierjokko) è un mero contorno. Forse in Creamy, Toshio ricopre ancora un ruolo se non chiave, almeno di comparsa utile alla trama, col proseguire delle Pierjokko questa spalla maschile verrà sempre più relegata ad un surrogato al quale le giovani telespettatrici possono sovrapporre il volto del loro amato e nulla più. La scelta di questo character design è vincente, non solo al fine di far appassionare alla serie le bambine, ma anche per spingerle alla ricerca dell’oggetto che permette tale magia: il talismano magico. Il potere commerciale di questo oggetto è enorme. Innanzi tutto la scelta ricade sempre su un qualcosa di utile. Non è mai un ciondolo fine a se stesso, è braccialetto, cerchietto, specchio, insomma, qualcosa che alle bambine può servire davvero. Così che dovendo scegliere tra tanti cerchietti, quello che ricorda l’autore delle magie di Parsia sembra la scelta ovvia su cui ricadere. Ovviamente l’azienda detiene il controllo di questo tipo di merchandising creando veri e propri feticci di culto. Inoltre va detto che tuti questi oggetti magici sono comodamente trasportabili, anzi, sono accessori di cui una giovane donna non può certo fare a meno nel trantran della sua vita. Le ragazzine portando con se i ninnoli delle Pierjokko diventano quindi incosapevoli promoter, che spingono altre ragazzine ad acquistarli. Altro tassello fondamentale sono i folletti. Sottoforma di pupazzi o peluche il loro valore commerciale è altissimo perché facilmente fruibili. La differenza tra un action figure destinato ad una teca ed un peluche con il quale si può giocare è abissale. Come potete notare ogni scelta è dettata da rigidi imperativi commerciali. Sia chiaro, questo non sminuisce affatto le Pierjokko, anzi, ne aumenta il pregio dal punto di vista creativo.
La cannonata di Yen scaturita da questi successi ha prodotto anche un ovvio rinculo negativo. Sulla scia dorata del successo i produttori e lo stesso Studio Ghibli si sono lasciati prendere la mano. Manga, OAV, Spinoff di dubbia moralità e Crossover. Ogni Pierjokko ha portato con se una carrellata di eventi mediatici che si sono alimentati della linfa fresca creata dalla maghette. Il troppo, ovviamente, stroppia e ciò ha dato luogo ad aborti quali le puntate speciali in cui le nostre eroine combattono riunite contro un alieno tentacolare o peggio ancora lo special dove Creamy incontra Minky Momo, quasi a spregio delle tante voci sul possibile plagio. Ciò che resta oggi di queste maghette è una caterva di merchandising accatastato nelle teche dei collezionisti, un cospicuo rendiconto nelle casse dello Studio Pierrot (che tuttora sfrutta queste eroine d’altri tempi a scopo di marketing) e una nicchia nel cuore di tanti telespettatori, che si sono innamorati di queste serie.
LE PIERJOKKO IN ITALIA E LA MAGIA NERA DEL CENSORE
Non ci sono voluti molti anni perché anche il nostro paese guardasse con fare interessato alle Pierjokko. Prima di tutto perché quel marketing di facile diffusione e grande impatto faceva gola ai distributori nostrani, ma anche in virtù della possibilità di importare un ottimo prodotto, destinato a un pubblico prettamente femminile, con eroine di nuova foggia, bambine questa volta, bambine moderne, molto distanti dalle classiche Heidi, Georgie e Candy Candy. Bambine moderne e spensierate, che hanno problemi semplici, risolvibili agitando la bacchetta magica. Una rara possibilità questa in effetti per le emittenti nostrane, che avevano abituato le nostre bambine a storie si belle, ma sempre un po’ tristi, distanti da quella che è la spensieratezza dell’infanzia. Serviva qualcosa di fresco, di nuovo e coinvolgente, che avesse delle protagoniste nelle quali le piccole italiane potessero identificarsi. Protagoniste che sognano ad occhi aperti, come tutte le bambine del mondo, e che grazie ad un pizzico di magia potessero concretizzare in parte quei sogni tipici di un’infanzia che guarda ammirata il mondo dei “grandi”.
Tuttavia in Italia la situazione non era delle più rosee e neppure la magia dell’amore, o chi per lei, poteva sciogliere il puritano cuore congelato del censore. Per spiegare il periodo a cavallo tra ‘85 e ‘95 anche a chi, per ragioni anagrafiche, non l’ha vissuto, bisogna partire da un discorso molto più generico, mettendo un attimo da parte gli anime e tuffandoci nell’atmosfera di quei tempi. Un esempio calzante della mentalità provinciale e molto chiusa di quegl’anni è dato da un semplice spot televisivo di una nota bibita analcolica, prodotto nel 1971 per gli States e importato nel nostro paese come spot natalizio negli anni ‘80.
Questa è la versione ufficiale del video, così come lo videro gli americani e mezza Europa:
Questa è invece la versione italiana, che viene riadattata per motivi di palinsesto (mancano 27 secondi) ed altre esigenze, non proprio politically correct.
Cosa è successo? Il motivetto resta orecchiabile e molto simile, l’albero c’è, i ragazzi che cantano anche. Eppure ne manca qualcuno. Si, perché dopo quella bella ragazza in primo piano, i volti sorridenti della ragazza asiatica e del ragazzo afroamericano spariscono, sostituiti da una visione d’insieme. E anche qui, dove prima c’erano un giovane dai lineamenti mediorientali, una ragazza in kimono e una bella ragazza di colore, anche loro vengono diciamo, cancellati dalla scena. Perché? Perché vigeva in quegl’anni la convinzione che tutto ciò che non fosse “bianco” non stesse bene in TV a meno che non fosse servo di qualcuno o americano. Come dimenticare il simpatico cameriere di colore del Dudi, il padre di Sharon ne “I ragazzi della terza C” che parlava come un cannibale delle barzellette ed era sempre in livrea? Ecco, tutto quello che era in Italia ma non italiano andava inquadrato così: in tenuta da paggetto e con tutti i verbi scombussolati. Così da far sorridere ed intenerire lo spettatore, che potesse commentare con la moglie “Ao! Anvedi che simpatico quer negro li!”. Ed è per questo che la “perfect armony” americana diventa “magica armonia” in Italia, già, magica, proprio come le magie che il censore indirizzò sulle Pierjokko. Le nostre eroine non erano violente ne ambigue (salvo una puntata di Evelyn dal titolo “Roby diventa una ragazza”, prontamente rimossa dallo scandalizzato censore!). Allora cosa ci sarebbe da censurare? Nulla, se non fosse che quelle ragazzine erano un po’ troppo giapponesi.
Oggi siamo abituati alla cultura nipponica. Molti di noi la adorano e quasi la idolatrano, ma va tenuto conto che più di vent’anni fa il Giappone per noi italiani era solo un altro stato asiatico che voleva copiarci la tecnologia di Olivetti, Pirelli e Fiat. Quindi era difficile per gli allora produttori e supervisori (leggasi signora Manera), adattare quegl’anime al nostro palato. Si sentiva l’esigenza di tagliuzzare, adattare, ammortizzare la cultura nipponica. Anzi, già che c’era la possibilità, perché non levarla del tutto? E così fu. Metterci oggi ad accusare quelle scelte è un gesto alquanto ipocrita. Molti le denigrano senza essere neppure nati in quegl’anni. Ciò che invece deve farci riflettere è che tutt’ora (dopo un quarto di secolo) nessuno si sia ancora preso la briga di correggere quegli adattamenti un po’ razzisti, riadattarli al clima più tollerante che si vive oggi in TV. Perché in Italia come in Giappone le majokko fecero strage di fan, vendendo, vendendo e vendendo. Fruttando milardi di lire alle nostre emittenti in pubblicità e gadget. Sarebbe quindi un gesto di rispetto, nei confronti degli ancora moltissimi fans italiani, riproporci quelle serie in TV, senza quell’ormai obsoleta censura, che puzza di fascio littorio nazional popolare.
Per maggiori informazioni sulla censura degli anime nel nostro paese leggete www.ilbazardimari.net o gli altri miei articoli su infoextra:
Meisaku
NOTE DELL'AUTORE
Purtroppo nessuno di noi nasce onnisciente, neanche io. Quindi è molto probabile che questo articolo presenti alcune imprecisioni e carenze. In tal caso per favore segnalatemele. Vi ringrazio per la cortese collaborazione.
Si ringrazia Monica del sito www.onlyshojo.com, dal quale sono state tratte molte informazioni e alcune rarissime immagini riprodotte in questo articolo, per sua gentile concessione e la sua collaborazione.
FONTI E BIBLIOGRAFIA:
www.wikipedia.org (sezioni: Italiano, Inglese, Francese, Giapponese)
Studio Pierrot
www.ilbazardimari.net
www.animenewsnetwork.com
www.anidb.com
www.cartonionline.com
www.onlyshojo.com
Ultimo aggiornamento: 03/10/2009
Autore: D. A. Aduskiev