Sesto appuntamento con la rubrica mensile atta a presentare i migliori anime degli ultimi anni secondo l'utenza di AnimeClick.it. Ogni notizia prenderà in esame un'annata dell'ultima decade a partire dal 2009 (per il 2010 invece è ancora troppo presto, è necessario far passare del tempo in modo da far accumulare un numero sufficiente di recensioni). A corredo della classifica dei primi 30 titoli verrà presentata una rassegna di recensioni di alcuni dei titoli della classifica, partendo dalle prime tre posizioni del podio e poi a scalare, cercando di evitare i grandi blockbuster che non hanno certo bisogno di pubblicità. In chiusura d'articolo verranno infine presentate brevemente le recensioni apparse in vetrina ad opera dello staff del sito.
Buona lettura!
* 50° posto assoluto
>>Tutti gli anime del 2004<<
- LE NOSTRE RECENSIONI
Pretty Cure: Recensione (Kotaro)
Buona lettura!
1 | Ghost in the Shell - Innocence* | 8,720 |
2 | Samurai Champloo | 8,687 |
3 | Il castello errante di Howl | 8,625 |
4 | Keroro Gunso | 8,611 |
5 | Gankutsuou - Il conte di Montecristo | 8,595 |
6 | Ghost in the Shell - Stand Alone Complex 2nd GIG | 8,462 |
7 | School Rumble | 8,459 |
8 | Kyou Kara Maou | 8,417 |
9 | Rozen Maiden | 8,406 |
10 | Beck - Mongolian Chop Squad | 8,355 |
11 | Monster | 8,348 |
12 | Mai-HiME | 8,344 |
13 | Bleach | 8,261 |
14 | Fantastic Children | 8,250 |
15 | Pretty Cure | 8,211 |
16 | Kakurenbo (Nascosti nel Buio) | 8,200 |
17 | Elfen Lied | 8,160 |
18 | Kurau - Phantom Memory | 8,133 |
19 | Beyond the Clouds - The Promised Place | 8,121 |
20 | Mind Game | 8,083 |
21 | Paranoia Agent | 8,029 |
22 | Initial D 4th Stage | 8,000 |
23 | Victorian Romance Emma | 7,909 |
24 | Midori no Hibi | 7,905 |
25 | Mobile Suit Gundam MS IGLOO: The Hidden One-Year War | 7,889 |
25 | Ragnarok - the Animation | 7,889 |
27 | Tsukuyomi - MOON PHASE | 7,875 |
28 | Appleseed 2004 | 7,867 |
29 | Maria-sama ga Miteru | 7,857 |
30 | Magical Girl Lyrical Nanoha | 7,800 |
* 50° posto assoluto
Ghost in the Shell - Innocence
10.0/10
Innocence
Mamoru Oshii torna a esplorare i meandri della futuristica megalopoli di New Port City a dieci anni di distanza dal primo lungometraggio ispirato al manga Ghost in the Shell. Le atmosfere cupe che caratterizzavano il primo film sono arricchite qui da elementi noir/hardboiled soprattutto nella parte iniziale, in cui la storia si sviluppa a partire dall'indagine su misteriosi omicidi. Questo approccio poliziesco ci consente di approfondire la conoscenza dei due protagonisti che, per seguire le indagini, intraprenderanno un viaggio allucinato e violento che li porterà a esplorare gli ambienti più malfamati della città a incontrare personaggi loschi e inquietanti alla ricerca della chiave per risolvere il caso.
Il regista orchestra con maestria scene d'azione e momenti più rilassati in cui il ritmo lento e le citazioni colte dei personaggi veicolano lo spettatore a oscure riflessioni socio-filosofiche. Il tema centrale del film è infatti l'analisi del dualismo uomo/macchina e dei confini che ne delimitano le identità, con tutte le implicazioni etiche del caso.
I fondali e le animazioni sono stupefacenti per ricchezza di dettaglio, grazie anche all'uso massivo della CG incorporato magistralmente alla tecnica tradizionale; il character design convincente e realistico ricalca quello del primo film.
La colonna sonora ancora una volta affidata a Kenji Kawai, a tratti ascetica e ipnotica come una nuvola d'incenso, a tratti incalzante e frenetica dai ritmi elettronici, risulta in perfetta simbiosi con le immagini.
I personaggi sono descritti magnificamente nei loro caratteri e nelle loro idiosincrasie; spiccano su tutti il protagonista Batou (i cui dilemmi interiori sembrano derivare direttamente dalle crisi esistenziali del maggiore Kusanagi nel primo film), e Togusa con le sue debolezze e il suo caratteraccio che lo rendono ancora più “imperfetto” nella sua umanità al 100%.
Si tratta di uno di quei film che travalicano la categoria di anime per entrare di diritto in un ambito di cinema in senso lato. D'altro canto lo stesso regista si è cimentato con la direzione di attori in carne ed ossa nel film Avalon (2001), sempre di ambientazione fantascientifica.
Per gli amanti del cyberpunk e post-cyberpunk questo film è un must assoluto dato che ridisegna i confini e detta i canoni estetici del genere.
A mio personale avviso è uno dei più bei film degli ultimi dieci anni. Da non perdere.
Mamoru Oshii torna a esplorare i meandri della futuristica megalopoli di New Port City a dieci anni di distanza dal primo lungometraggio ispirato al manga Ghost in the Shell. Le atmosfere cupe che caratterizzavano il primo film sono arricchite qui da elementi noir/hardboiled soprattutto nella parte iniziale, in cui la storia si sviluppa a partire dall'indagine su misteriosi omicidi. Questo approccio poliziesco ci consente di approfondire la conoscenza dei due protagonisti che, per seguire le indagini, intraprenderanno un viaggio allucinato e violento che li porterà a esplorare gli ambienti più malfamati della città a incontrare personaggi loschi e inquietanti alla ricerca della chiave per risolvere il caso.
Il regista orchestra con maestria scene d'azione e momenti più rilassati in cui il ritmo lento e le citazioni colte dei personaggi veicolano lo spettatore a oscure riflessioni socio-filosofiche. Il tema centrale del film è infatti l'analisi del dualismo uomo/macchina e dei confini che ne delimitano le identità, con tutte le implicazioni etiche del caso.
I fondali e le animazioni sono stupefacenti per ricchezza di dettaglio, grazie anche all'uso massivo della CG incorporato magistralmente alla tecnica tradizionale; il character design convincente e realistico ricalca quello del primo film.
La colonna sonora ancora una volta affidata a Kenji Kawai, a tratti ascetica e ipnotica come una nuvola d'incenso, a tratti incalzante e frenetica dai ritmi elettronici, risulta in perfetta simbiosi con le immagini.
I personaggi sono descritti magnificamente nei loro caratteri e nelle loro idiosincrasie; spiccano su tutti il protagonista Batou (i cui dilemmi interiori sembrano derivare direttamente dalle crisi esistenziali del maggiore Kusanagi nel primo film), e Togusa con le sue debolezze e il suo caratteraccio che lo rendono ancora più “imperfetto” nella sua umanità al 100%.
Si tratta di uno di quei film che travalicano la categoria di anime per entrare di diritto in un ambito di cinema in senso lato. D'altro canto lo stesso regista si è cimentato con la direzione di attori in carne ed ossa nel film Avalon (2001), sempre di ambientazione fantascientifica.
Per gli amanti del cyberpunk e post-cyberpunk questo film è un must assoluto dato che ridisegna i confini e detta i canoni estetici del genere.
A mio personale avviso è uno dei più bei film degli ultimi dieci anni. Da non perdere.
Samurai Champloo
9.0/10
Spesso mi chiedo quale sia la ragione per cui ad una persona possa piacere una serie animata. La trama, i personaggi, i disegni, le animazioni, oppure altro?
Davanti ad una serie come Samurai Champloo le domande sorgono spontanee in quanto la serie non presenta una trama collegata di episodio in episodio, se non per quanto riguarda il fattore che fa scatenare tutto. Cioè, la ricerca di un samurai che profuma di girasole.
Fuu, cameriera in un piccolo ristorante “ingaggia” un vagabondo, Mugen, molto abile con la spada e un ronin, Jin, altrettanto abile con la spada, per intraprendere il viaggio che da anni desidera fare. Già dal primo episodio abbiamo a che fare con alcune caratteristiche insolite della serie, soprattutto osservando i due spadaccini: Mugen combatte con uno stile che mescola la capoeira brasiliana e la breakdance, mentre Jin indossa un paio di occhiali che poco hanno a che fare con il periodo storico Edo - chiaramente influenzato dalla fantasia – in cui è ambientata la serie.
Sono ventisei gli episodi (18 + 8 per la precisione) in cui si svolge questo assurdo viaggio. Quindi c’è da chiedersi: cosa rende così bella questa serie? Prima di tutto io parlerei dei personaggi. Questi sono in realtà già molto definiti fin dal primo episodio, ma il lavoro che svolge la serie è quello di sviluppare le relazioni tra i protagonisti, fino a renderli quasi una famiglia. E l’avvicinamento avviene anche in modo fisico, nel senso che ogni episodio è una marchingegno drammaturgico quasi perfetto che in poco più di venti minuti allontana e riavvicina Fuu, Mugen e Jin e permette loro di continuare il viaggio. Meraviglioso! Le cause dell’allontanamento sono sempre la svogliatezza di stare insieme, soprattutto da parte dei due uomini che hanno giurato di ammazzarsi solo dopo la fine del viaggio, mentre le cause dei riavvicinamenti sono un susseguirsi di fatti e coincidenze che rasentano l’impossibile, ma che provocano un certo divertimento nello spettatore.
Inoltre, il fascino della serie sta anche nel riuscire a costruire molteplici situazioni rispettando uno stesso schema, ma senza che ce ne rendiamo conto. Penso a due episodi: “La via delle lettere e delle arti marziali” (18), improntata sul tipico schema shonen, però con al centro non le arti marziali, ma l’arte di scrivere sui muri. Oppure “In quella palla metterci l'anima” (23), improntata sul baseball (una delle più divertenti). Altri episodi sono molto drammatici, altri più seri, altri più assurdi e con un finale senza senso. Con uno “schema” così, è inevitabile ricordare la serie precedente di Shinichiro Watanabe: Cowboy Bebop. Come questa, in Samurai Champloo esiste una trama principale, ma viene seguita in cinque o sei episodi, con un finale degno di questo nome.
Per quanto riguarda i disegni, sicuramente siamo davanti ad un ottimo lavoro, anche se è evidente l’approccio di troupe diverse per alcuni episodi. Ma siamo comunque a livelli molto alti. Stessa cosa per le animazioni: sempre di alto livello, anche perché a Watanabe piacciono molto le scene di azione e gli presta sempre una cura maniacale, che non può che fare tutti contenti. Infine, le musiche. Ancora una volta il regista sceglie una vastissima lista di musiche e canzoni (sono quattro i cd della colonna sonora più varie canzoni, per un totale di più di ottanta brani) che, a differenza del blues della serie Cowboy Bebop, sceglie una variante hip-hop/lounge.
Insomma, al di là della trama non logicissima e il problema che molti personaggi secondari (praticamente tutti) vengano trattati solo per due o tre episodi, la serie merita molto.
Davanti ad una serie come Samurai Champloo le domande sorgono spontanee in quanto la serie non presenta una trama collegata di episodio in episodio, se non per quanto riguarda il fattore che fa scatenare tutto. Cioè, la ricerca di un samurai che profuma di girasole.
Fuu, cameriera in un piccolo ristorante “ingaggia” un vagabondo, Mugen, molto abile con la spada e un ronin, Jin, altrettanto abile con la spada, per intraprendere il viaggio che da anni desidera fare. Già dal primo episodio abbiamo a che fare con alcune caratteristiche insolite della serie, soprattutto osservando i due spadaccini: Mugen combatte con uno stile che mescola la capoeira brasiliana e la breakdance, mentre Jin indossa un paio di occhiali che poco hanno a che fare con il periodo storico Edo - chiaramente influenzato dalla fantasia – in cui è ambientata la serie.
Sono ventisei gli episodi (18 + 8 per la precisione) in cui si svolge questo assurdo viaggio. Quindi c’è da chiedersi: cosa rende così bella questa serie? Prima di tutto io parlerei dei personaggi. Questi sono in realtà già molto definiti fin dal primo episodio, ma il lavoro che svolge la serie è quello di sviluppare le relazioni tra i protagonisti, fino a renderli quasi una famiglia. E l’avvicinamento avviene anche in modo fisico, nel senso che ogni episodio è una marchingegno drammaturgico quasi perfetto che in poco più di venti minuti allontana e riavvicina Fuu, Mugen e Jin e permette loro di continuare il viaggio. Meraviglioso! Le cause dell’allontanamento sono sempre la svogliatezza di stare insieme, soprattutto da parte dei due uomini che hanno giurato di ammazzarsi solo dopo la fine del viaggio, mentre le cause dei riavvicinamenti sono un susseguirsi di fatti e coincidenze che rasentano l’impossibile, ma che provocano un certo divertimento nello spettatore.
Inoltre, il fascino della serie sta anche nel riuscire a costruire molteplici situazioni rispettando uno stesso schema, ma senza che ce ne rendiamo conto. Penso a due episodi: “La via delle lettere e delle arti marziali” (18), improntata sul tipico schema shonen, però con al centro non le arti marziali, ma l’arte di scrivere sui muri. Oppure “In quella palla metterci l'anima” (23), improntata sul baseball (una delle più divertenti). Altri episodi sono molto drammatici, altri più seri, altri più assurdi e con un finale senza senso. Con uno “schema” così, è inevitabile ricordare la serie precedente di Shinichiro Watanabe: Cowboy Bebop. Come questa, in Samurai Champloo esiste una trama principale, ma viene seguita in cinque o sei episodi, con un finale degno di questo nome.
Per quanto riguarda i disegni, sicuramente siamo davanti ad un ottimo lavoro, anche se è evidente l’approccio di troupe diverse per alcuni episodi. Ma siamo comunque a livelli molto alti. Stessa cosa per le animazioni: sempre di alto livello, anche perché a Watanabe piacciono molto le scene di azione e gli presta sempre una cura maniacale, che non può che fare tutti contenti. Infine, le musiche. Ancora una volta il regista sceglie una vastissima lista di musiche e canzoni (sono quattro i cd della colonna sonora più varie canzoni, per un totale di più di ottanta brani) che, a differenza del blues della serie Cowboy Bebop, sceglie una variante hip-hop/lounge.
Insomma, al di là della trama non logicissima e il problema che molti personaggi secondari (praticamente tutti) vengano trattati solo per due o tre episodi, la serie merita molto.
Il castello errante di Howl
7.0/10
Ad ora penultimo lungometraggio d’animazione di Hayao Miyazaki, presentato in concorso alla 61° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella quale proprio il regista ottenne il Leone d’oro alla carriera, e candidato all’Oscar 2006 come miglior film d’animazione, Il castello Errante di Howl traspone in anime l’omonimo romanzo originale di Diana Wynne Jones, non senza alcune licenze. Ciò in parte si nota, tuttavia, non conoscendo il testo, non so in che misura e, soprattutto, se questo sia un fattore positivo o meno, ma restando in ogni caso un’opera più che godibile il film risente di alcune sbavature addebitabili in parte alle inclinazioni dello stesso Miyazaki e in parte all’articolazione della trama e di alcuni suoi spunti.
Tralasciando il discorso sul primo motivo di critica, eccessivamente lungo e non inerente a questi luoghi, sul secondo versante è evidente che l’operazione di compattazione del romanzo nelle due ore di film ha portato a tagli e restringimenti di alcune sequenze narrative. Tuttavia, se l’adattamento della parola in immagine rimane un’impresa molto difficoltosa, e la traslazione fra linguaggi differenti obbliga sempre a compromessi e accorgimenti necessari, l’operazione compiuta dal maestro avrebbe potuto essere migliore. Mi riferisco sia alla trama, perché nella pellicola restano oscuri i motivi che innescano la prima maledizione imposta dalla Strega delle Lande a Sophie e, parimenti, alcuni quesiti riguardanti la caduta dei demoni e le cause della guerra (e soprattutto gli schieramenti e coloro che ne fanno parte), sia ai personaggi, perché i ruoli di alcuni di essi (lo spaventapasseri e madame Suliman) nell’economia della sceneggiatura risultano superflui o approssimativi, e lasciano pensare a delle caratterizzazioni più corpose che si è scelto di sforbiciare. Tutto ciò va a discapito della completezza degli sviluppi e del quadro generale della visione, che danno la sensazione di essere, se non tarlati, quantomeno non “pieni” in modo assoluto.
Le brillanti tinte che pitturano la consueta grande ricchezza immaginifica di Miyazaki rivelano tutta l’eredità del suo precedente lavoro, “La Città Incantata”, dal quale però Howl si differenzia per il sapore visivo complessivo, più europeo e venato da una nota steampunk, che però cede qualcosa al predecessore a livello di atmosfera, cromatismi e tonalità globale, che nel primo risultavano più avvolgenti e ispirati. Tuttavia la realizzazione tecnica si attesta su ottimi standard, e anche l’uso della computer grafica, modesto ma presente, è ben calibrato e attende ai suoi compiti con discrezione. Eccellente poi la consueta perizia dello Studio Ghibli nella resa del dettaglio di sfondi e ambientazioni limpidissimi e vari e nella creazione di animazioni fluide e precise.
Le musiche sono delicate, un accompagnamento partecipe ma non presenzialista che valorizza le immagini e le emozioni, mentre il character design ricalca il personale e sempre riconoscibile stile figurativo molto sobrio del maestro, e concretizza efficacemente il camaleontismo anagrafico di Sophie e le possibilità metamorfiche di Howl rendendo vivi e interessanti i diversi stati assunti dai due protagonisti, che nei loro mutamenti esigono tra l’altro la trasposizione di un particolare contenuto simbolico e non solo un semplice tratteggio caratteriale.
Entrambi i protagonisti presentano un buon grado di complessità e un grande carisma, reggono senza difficoltà la scena e assieme a tutti gli altri personaggi compongono un mosaico umano – e non soltanto – molto variegato, a tratti forse non troppo originale seppur comunque capace di mostrare una gamma di sfumature interiori anche antitetiche e combattute ma mai superficiali. Le relazioni che s’instaurano sono veri e propri legami d’interdipendenza, dei quali è visibile la crescita progressiva e nei quali è possibile apprezzare l’intimità di alcuni momenti di vita, di alcune circostanze comuni a molte persone; da esse traspare un grandissimo rispetto per la figura dell’anziano, per quella dell’ospite, e attraverso di esse ci viene mostrato con naturalezza l’umanità di chi accudisce coloro che ne hanno più bisogno, con dolcezza e spontaneità, con grande garbo. I contenuti veicolati dal film si allargano però pure al lato più drammatico di alcuni fenomeni, toccando la piaga sempre viva della guerra, sia quella che vede scontrarsi due schieramenti, sia quella interiore all’animo umano e fatta dunque di conflitti che nascono dai moti contraddittori dell’essere. Nonostante queste tematiche non siano esattamente sviscerate, né con originalità né fino alle loro profondità, si dimostrano comunque capaci di raggiungere momenti di un’intensità tragica elevatissima, a tratti parallela a una poesia visiva vivida.
Detto ciò, bisogna ammettere che Il castello Errante di Howl è in fondo una canonica fiaba con un antagonista non ben identificato, e il finale lietissimo che corona la storia d’amore che va in porto dopo l’ultima prova da superare rimarca, se ce ne fosse ancora bisogno, quale sia la natura del film. Va da sé che ricalcando gli stessi schemi di sempre, ricalcando in qualche modo se stesso e non riuscendo a scardinarsi, Miyazaki si avvolge in una cortina di buonismo e morali più o meno retoriche che, formalizzate in un determinato modo, possono sempre risultare piacevoli, ma non aggiungono niente né al genere né alla sua ricerca artistica, telefonando in anticipo sviluppi, conclusione e messaggi di un’opera appagante visivamente, e anche in determinati frangenti emotivamente, ma sterile e scontata – e a seconda di chi guarda stucchevole – nei suoi concetti.
Tralasciando il discorso sul primo motivo di critica, eccessivamente lungo e non inerente a questi luoghi, sul secondo versante è evidente che l’operazione di compattazione del romanzo nelle due ore di film ha portato a tagli e restringimenti di alcune sequenze narrative. Tuttavia, se l’adattamento della parola in immagine rimane un’impresa molto difficoltosa, e la traslazione fra linguaggi differenti obbliga sempre a compromessi e accorgimenti necessari, l’operazione compiuta dal maestro avrebbe potuto essere migliore. Mi riferisco sia alla trama, perché nella pellicola restano oscuri i motivi che innescano la prima maledizione imposta dalla Strega delle Lande a Sophie e, parimenti, alcuni quesiti riguardanti la caduta dei demoni e le cause della guerra (e soprattutto gli schieramenti e coloro che ne fanno parte), sia ai personaggi, perché i ruoli di alcuni di essi (lo spaventapasseri e madame Suliman) nell’economia della sceneggiatura risultano superflui o approssimativi, e lasciano pensare a delle caratterizzazioni più corpose che si è scelto di sforbiciare. Tutto ciò va a discapito della completezza degli sviluppi e del quadro generale della visione, che danno la sensazione di essere, se non tarlati, quantomeno non “pieni” in modo assoluto.
Le brillanti tinte che pitturano la consueta grande ricchezza immaginifica di Miyazaki rivelano tutta l’eredità del suo precedente lavoro, “La Città Incantata”, dal quale però Howl si differenzia per il sapore visivo complessivo, più europeo e venato da una nota steampunk, che però cede qualcosa al predecessore a livello di atmosfera, cromatismi e tonalità globale, che nel primo risultavano più avvolgenti e ispirati. Tuttavia la realizzazione tecnica si attesta su ottimi standard, e anche l’uso della computer grafica, modesto ma presente, è ben calibrato e attende ai suoi compiti con discrezione. Eccellente poi la consueta perizia dello Studio Ghibli nella resa del dettaglio di sfondi e ambientazioni limpidissimi e vari e nella creazione di animazioni fluide e precise.
Le musiche sono delicate, un accompagnamento partecipe ma non presenzialista che valorizza le immagini e le emozioni, mentre il character design ricalca il personale e sempre riconoscibile stile figurativo molto sobrio del maestro, e concretizza efficacemente il camaleontismo anagrafico di Sophie e le possibilità metamorfiche di Howl rendendo vivi e interessanti i diversi stati assunti dai due protagonisti, che nei loro mutamenti esigono tra l’altro la trasposizione di un particolare contenuto simbolico e non solo un semplice tratteggio caratteriale.
Entrambi i protagonisti presentano un buon grado di complessità e un grande carisma, reggono senza difficoltà la scena e assieme a tutti gli altri personaggi compongono un mosaico umano – e non soltanto – molto variegato, a tratti forse non troppo originale seppur comunque capace di mostrare una gamma di sfumature interiori anche antitetiche e combattute ma mai superficiali. Le relazioni che s’instaurano sono veri e propri legami d’interdipendenza, dei quali è visibile la crescita progressiva e nei quali è possibile apprezzare l’intimità di alcuni momenti di vita, di alcune circostanze comuni a molte persone; da esse traspare un grandissimo rispetto per la figura dell’anziano, per quella dell’ospite, e attraverso di esse ci viene mostrato con naturalezza l’umanità di chi accudisce coloro che ne hanno più bisogno, con dolcezza e spontaneità, con grande garbo. I contenuti veicolati dal film si allargano però pure al lato più drammatico di alcuni fenomeni, toccando la piaga sempre viva della guerra, sia quella che vede scontrarsi due schieramenti, sia quella interiore all’animo umano e fatta dunque di conflitti che nascono dai moti contraddittori dell’essere. Nonostante queste tematiche non siano esattamente sviscerate, né con originalità né fino alle loro profondità, si dimostrano comunque capaci di raggiungere momenti di un’intensità tragica elevatissima, a tratti parallela a una poesia visiva vivida.
Detto ciò, bisogna ammettere che Il castello Errante di Howl è in fondo una canonica fiaba con un antagonista non ben identificato, e il finale lietissimo che corona la storia d’amore che va in porto dopo l’ultima prova da superare rimarca, se ce ne fosse ancora bisogno, quale sia la natura del film. Va da sé che ricalcando gli stessi schemi di sempre, ricalcando in qualche modo se stesso e non riuscendo a scardinarsi, Miyazaki si avvolge in una cortina di buonismo e morali più o meno retoriche che, formalizzate in un determinato modo, possono sempre risultare piacevoli, ma non aggiungono niente né al genere né alla sua ricerca artistica, telefonando in anticipo sviluppi, conclusione e messaggi di un’opera appagante visivamente, e anche in determinati frangenti emotivamente, ma sterile e scontata – e a seconda di chi guarda stucchevole – nei suoi concetti.
Rozen Maiden
9.0/10
Rozen Maiden è un anime prodotto dallo studio Nomad e tratto dal manga realizzato dal duo PEACH-PIT, in totale ci sono due serie, di 12 episodi ciascuna, e un oav dedicato al rapporto tra Sugintou e Shinku.
La trama grosso modo segue due filoni, da una parte troviamo la storia riguardante le Rozen Maiden, “bambole” costruite dall'artigiano Rozen nel vano tentativo di realizzare la ragazza perfetta, i suoi tentativi si rivelano però un fallimento e proprio per raggiungere questo scopo alle Rozen non resta che cimentarsi nell'Alice game, l'unica via per raggiungere la tanto agognata perfezione e quindi rivedere il padre, ma allo stesso tempo un "gioco" estremamente crudele che costringe le “sorelle” a lottare tra di loro fino alla “morte”. Tema secondario invece è quello degli Hikikomori, Jun, il protagonista umano destinato a diventare il medium di Shinku, rientra perfettamente in questa categoria vivendo segregato in casa accudito solo dalla sorella maggiore Nori in un clima tutt’altro che sereno. Le autrici imprimono a questa problematica una particolare visione, la loro intenzione non è tanto quella di condannare la pratica in se quanto soffermarsi sulle ragioni che spingono Jun, e più in generale molti ragazzi giapponesi, all'auto segregazione, portando avanti in tal modo un discorso che sembra più che altro puntare il dito verso una società propensa a ripudiare tutto ciò che è "diverso". Le due storie viaggiano parallele intrecciandosi a vicenda in una sorta di parallelismo in cui da un lato troviamo le Rozen costrette a sfidarsi nell'Alice game dall’altro un Jun intento ad affrontare le sue paure, alternando momenti comici e tristi, ma in generale risulta evidente come ogni protagonista cambi nel corso della storia sforzandosi di affermare la propria individualità, Jun verso la società mentre le Rozen verso il loro destino che sembra esser vincolato al gioco di Alice.
L’anime non è esattamente un capolavoro quanto a realizzazione, forse il mio giudizio risente della lettura del manga, però, se in questo le autrici raggiungono punte incredibili con disegni splenditi e artistici, non altrettanto può dire dell’anime che nondimeno nel complesso appare più che dignitoso.
Pertanto consiglio vivamente la visione di questa serie, a dire il vero suggerisco ancor di più la lettura dello splendido manga edito in Italia dalla Flashbook, la storia in effetti sembra simile all’inizio ma dopo i primi volumi si assiste ad un sensibile divario che giunge ad una quasi totale divergenza in Traumend ( la seconda serie ), e, come di solito accade in questi casi, il manga risulta più coerente e completo a livello di trama.
La trama grosso modo segue due filoni, da una parte troviamo la storia riguardante le Rozen Maiden, “bambole” costruite dall'artigiano Rozen nel vano tentativo di realizzare la ragazza perfetta, i suoi tentativi si rivelano però un fallimento e proprio per raggiungere questo scopo alle Rozen non resta che cimentarsi nell'Alice game, l'unica via per raggiungere la tanto agognata perfezione e quindi rivedere il padre, ma allo stesso tempo un "gioco" estremamente crudele che costringe le “sorelle” a lottare tra di loro fino alla “morte”. Tema secondario invece è quello degli Hikikomori, Jun, il protagonista umano destinato a diventare il medium di Shinku, rientra perfettamente in questa categoria vivendo segregato in casa accudito solo dalla sorella maggiore Nori in un clima tutt’altro che sereno. Le autrici imprimono a questa problematica una particolare visione, la loro intenzione non è tanto quella di condannare la pratica in se quanto soffermarsi sulle ragioni che spingono Jun, e più in generale molti ragazzi giapponesi, all'auto segregazione, portando avanti in tal modo un discorso che sembra più che altro puntare il dito verso una società propensa a ripudiare tutto ciò che è "diverso". Le due storie viaggiano parallele intrecciandosi a vicenda in una sorta di parallelismo in cui da un lato troviamo le Rozen costrette a sfidarsi nell'Alice game dall’altro un Jun intento ad affrontare le sue paure, alternando momenti comici e tristi, ma in generale risulta evidente come ogni protagonista cambi nel corso della storia sforzandosi di affermare la propria individualità, Jun verso la società mentre le Rozen verso il loro destino che sembra esser vincolato al gioco di Alice.
L’anime non è esattamente un capolavoro quanto a realizzazione, forse il mio giudizio risente della lettura del manga, però, se in questo le autrici raggiungono punte incredibili con disegni splenditi e artistici, non altrettanto può dire dell’anime che nondimeno nel complesso appare più che dignitoso.
Pertanto consiglio vivamente la visione di questa serie, a dire il vero suggerisco ancor di più la lettura dello splendido manga edito in Italia dalla Flashbook, la storia in effetti sembra simile all’inizio ma dopo i primi volumi si assiste ad un sensibile divario che giunge ad una quasi totale divergenza in Traumend ( la seconda serie ), e, come di solito accade in questi casi, il manga risulta più coerente e completo a livello di trama.
Monster
9.0/10
Recensione di joseph1111
-
Provare a racchiudere l’immenso Monster in un’unica recensione di poche righe è sostanzialmente un proposito irrealizzabile. Durante le settantaquattro puntate che compongono la serie vengono narrate le vicende di un promettentissimo e geniale neurochirurgo giapponese (ovviamente), il Dottor KenzoTenma, che durante una delle sue operazioni salva da morte quasi certa Johan, un bambino ferito gravemente alla testa da un proiettile. Attorno al bambino e a sua sorella gemella nasce e cresce nel tempo però un alone sempre più scuro di mistero dopo la scoperta che i due gemelli sono in realtà sopravvissuti al massacro, terminato con l’uccisione di entrambe i genitori avvenuto nella loro casa. Il mistero s’infittisce ancor più nel corso del tempo: i due gemelli erano stati in realtà adottati e pian piano si scopre che legati a loro sono inspiegabilmente anche altri delitti. Il Dottor Tenma scopre di aver salvato probabilmente un mostro, da cui il titolo del manga/anime. Non avrebbe senso proseguire nel racconto della trama perché come già detto essa è veramente densa, intrecciata e degna di essere vissuta in prima persona. Bisogna invece sottolineare come la storia sia in tutto e per tutto adulta e drammatica con ben pochi momenti di svago e spensieratezza. Come si può ben immaginare, più di settanta episodi richiedono un impegno non indifferente da parte dello spettatore per una storia a puntate e non a episodi, soprattutto per la complessità della trama, ma per chi non si spaventa davanti a storie del genere Monster ripagherà in tutto e per tutto la fiducia riposta. Devo ammettere che a volte certe circostanze mi sono sembrate forzate e irreali, ma basterebbe guardare un qualsiasi telegiornale per comprendere come spesso la realtà sorprenda più della fantasia. Il disegno è ben realizzato per quanto riguarda i personaggi riuscendo sempre a comunicare le emozioni del momento. I colori si adattano alla drammaticità della storia rimanendo sempre su tonalità scure e comunque mai accese o vivaci. Soprattutto verso gli ultimi episodi questo senso di oscurità si amplifica fino a risultare opprimente, ma penso che l’effetto sia voluto e comunque consono alla trama. Ciò che più mi ha impressionato in Monster è la profondità dei personaggi e la loro caratterizzazione sfaccettata e originale e in particolare il modo in cui viene descritta la crescita interiore di Kenzo che da medico promettente, ma allo stesso tempo ingenuo manichino in mano al padre della fidanzata, costruisce a fatica ma costantemente un Io forte, coerente e coraggioso, capace di oltrepassare i propri limiti e le proprie paure per fini superiori e del bene del prossimo più che di se stesso. In un certo senso, un esempio per tutti noi, anche se proveniente da un anime.
Volendo trovare dei lati negativi in Monster sottolineerei la tendenza, comune però alla stragrande maggioranza dei manga/anime giapponesi, di creare personaggi che vogliano (o sembra che vogliano) distruggere la Terra e l’Universo intero. Capisco che i due regalini lanciati dagli americani nel ’45 non abbiano aiutato le nuove generazioni giapponesi ad avere una visione idilliaca della vita, ma penso ormai che sia passato il tempo necessario per un ritorno alla normalità. Monster secondo il mio modesto parere avrebbe reso molto di più se il personaggio di Johan non fosse stato caricato di tanto mistero diabolico, quasi soprannaturale e fosse stato reso più umano, con tutte le sue debolezze e incertezze. In ogni caso consiglio vivamente la visione di Monster a tutti quelli che siano in cerca di una storia non banale, adulta, profonda e, soprattutto, emozionante.
Volendo trovare dei lati negativi in Monster sottolineerei la tendenza, comune però alla stragrande maggioranza dei manga/anime giapponesi, di creare personaggi che vogliano (o sembra che vogliano) distruggere la Terra e l’Universo intero. Capisco che i due regalini lanciati dagli americani nel ’45 non abbiano aiutato le nuove generazioni giapponesi ad avere una visione idilliaca della vita, ma penso ormai che sia passato il tempo necessario per un ritorno alla normalità. Monster secondo il mio modesto parere avrebbe reso molto di più se il personaggio di Johan non fosse stato caricato di tanto mistero diabolico, quasi soprannaturale e fosse stato reso più umano, con tutte le sue debolezze e incertezze. In ogni caso consiglio vivamente la visione di Monster a tutti quelli che siano in cerca di una storia non banale, adulta, profonda e, soprattutto, emozionante.
Davvero niente male, questo corto. E con una atmosfera decisamente inquietante che cattura al primo sguardo. Mai visto un nascondino (Kakurenbo) così pauroso, ambientato fra i vicoli strettissimi e i palazzi diroccati di una città claustrofobica, illuminata da neon che danno un tocco di colore a una location che più cupa non si può, sempre curatissima in ogni particolare. Piuttosto ben sfruttata la computer graphic, anche se qualche dubbio resta sempre nell'usarla sui personaggi, coperti intelligentemente (oltre che per motivi narrativi) da delle maschere che evitano imbarazzanti espressioni facciali. Aggiungeteci pure le musiche che fanno molta suggestione horror, con le percussioni tradizionali giapponesi e i suoni sospiranti che mettono angoscia e tutto il resto, e una storia che – per quello che può essere in venti minuti – è ben congegnata e ben messa in scena, con i richiami al mondo demoniaco molto riusciti e gli Oni assolutamente mostruosi. Certo non c'è chissà quale profondità o messaggio fra le righe, ma di horror così paranoici e ben fatti non ce ne sono molti, e la storia non è banale e soprattutto non cade nel clichè della solita roba che sa di già visto – e scusatemi se è poco!
KenzoTenmaFRNSGLRadicchio
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<b>[ATTENZIONE! SPOILER!]</b>
Tradotto letteralmente "Oltre le nuvole, il luogo della promessa", questo piacevole lungometraggio animato della durata di poco più di un'ora e mezza, è figlio dello stesso regista e ideatore del brevissimo "Kanojo to kanojo no neko" (di cui per altro condivide alcune linee guida, in ambito narrativo), ovvero Shinkai Makoto.
Premetto che non è di facile visione, sia per il modo di raccontare del regista, che alterna scene abbastanza lente ad altre che scorrono tranquillamente senza appesantire la narrazione, sia per la fissità (lo stesso discorso che ho fatto altrove per "Lei ed il suo gatto", in relazione all'importanza delle inquadrature, degli oggetti e dei silenzi -cose che possono condizionare il giudizio sul film). Io stesso ho dovuto vederlo due volte, perché alcune cose che sfuggono la prima volta (soprattutto il concetto dei sogni e dei mondi paralleli alla base della storia) diventano più chiare (il rapporto tra il finale ed il principio poi si è rivelato amaro).
Molti particolari, a livello narrativo, richiamano un altro bell'anime come Last Exile (il conflitto, l'aereo e la visione di un altro mondo) e mi hanno fatto pensare a certe peculiarità presenti nei manga di Inio Asano (la commistione tra realtà e sogno, forse perché l'ho letto poco fa, mi ha ricordato Nijigahara Holograph -che però è di due anni posteriore al film in questione, del 2004). Quella che sembra una storia comune di ragazzi che considerano un sogno, o meglio una promessa, come la cosa più importante che esista al mondo, si va lentamente delineando come un'eco della storia reale, dei conflitti che la caratterizzano (o l'hanno caratterizzata) e del vuoto che la riassume (è lo stato delle cose che genera la separazione tra i protagonisti). Il passaggio dalla prima fase alla seconda avviene in maniera brusca, amara, come se il sogno assurdo di un mondo che non accetta la realtà divorasse il sogno normale, quasi ingenuo, dei tre giovani protagonisti.
Quello che ci introduce alle origini della storia è lo sguardo postumo (ai fatti, non alla vita) di Fujisawa Hiroki: attraverso le sue parole apprendiamo che c'è stata una guerra, a seguito della quale il territorio separato di Ezo (Hokkaido) si è ricongiunto al resto del Giappone, e che qualcosa di importante si è perso a causa di ciò (ricorda le parole dette da una ragazza). Ritornando nei luoghi dell'adolescenza, assistiamo alle tappe dell'evoluzione culturale (in riferimento agli interessi ed ai propositi per il futuro), ma anche sentimentale, dei tre ragazzi: Fujisawa Hiroki, Shirakawa Takuya e Sawatari Sayuri. I due ragazzi sono grandi amici, condividono un interesse comune, che è poi la cosa che li lega a Sayuri (oltre ad un sano innamoramento tra Hiroki e la ragazza -cosa che di solito non può mancare): raggiungere, con un aereo interamente costruito da loro, la torre che si erge al di là dello stretto di Tsugaru, nel territorio di Ezo (Hokkaido, politicamente definito Union, in contrapposizione all'Alliance del sud).
La torre, altissima, tanto da non vederne la sommità: simbolo di uno stato, della guerra, della disperazione e dell'ammirazione (queste le parole di un altro personaggio). Uno strumento di separazione tra un mondo e l'altro (sia a livello geopolitico, tecnologico, sia a livello metafisico, come chiave tra i mondi possibili -in questo senso nella doppia valenza di muro e ponte), tra una realtà che si vorrebbe cambiare leggendo nel complesso di infinite realtà alternative (che poi, ripresentano la stessa situazione -a livello logico si possono cambiare le modalità attraverso le quali si manifesta un evento ma non l'evento in sé) ed un desiderio che si vorrebbe realizzare. Il destino di questo elemento, che attrae (nella monumentalità) come anche respinge (visto come simbolo di separazione), è legato indissolubilmente a quello di Sayuri: i sogni di lei sono una proiezione di un futuro possibile, generati dal contrasto con il funzionamento della torre. Proprio in uno di questi sogni vede un aereo bianco, che la libera da una realtà (come la definisce lei stessa) dalla quale non saprebbe uscire, la realtà di un mondo vuoto, in rovina, che manifesta la sua solitudine.
Molto bella la composizione dei momenti che i tre trascorrono assieme: il dialogo sul treno tra Hiroki e Sayuri; quello in un giorno di pioggia tra Sayuri e Takuya; l'incontro con Okabe (il meccanico presso il quale i due ragazzi lavorano in cambio di parti meccaniche per completare Bella Cielo, il loro aereo); la performance di Sayuri con il violino; le giornate passate nel capannone di una vecchia stazione abbandonata (il loro rifugio). Di questi momenti Hiroki vorrebbe arrestare il tempo, renderli infiniti, ben sapendo che il mondo che li circonda è soggetto inevitabilmente al cambiamento.
La seconda parte del film si svolge tre anni dopo: c'è stata una separazione, le amicizie si sono sgretolate assieme alla promessa fatta a Sayuri. Allo stesso modo la situazione politica va degenerando. Ci vengono spiegati alcuni particolari, tra i quali l'esistenza di una sorta di progetto di armamento (si possono vedere in questo modo i tentativi del laboratorio della US NSA di Aomori di comprendere i meccanismi di funzionamento della torre di Ezo) dell'Alliance (il Giappone americano), in vista di un conflitto con la Union (il Giappone sovietico, suppongo). Ritroviamo Takuya impegnato nel progetto di costruzione di una torre simile a quella di Ezo (ideata dal nonno di Sayuri, Ekusun Tsukinoe), progetto condotto dal professor Tomizawa.
Interessanti, in questo frangente di storia, le brevi spiegazioni sulla dinamica degli studi condotti parallelamente tra il sogno umano (nella combinazione delle informazioni ricevuto dall'esterno) e lo scambio di informazioni tra i mondi come manifestazione del sogno dell'universo. I due campi entrano in contatto nel momento in cui questo scambio di informazioni diviene precognizione degli eventi, ovvero quando la torre interagisce con determinati elementi (Sayuri in questo caso).
La scena si sposta a Tokyo, seguendo gli spostamenti del professor Tomizawa, in visita all'ospedale in cui è ricoverata Sayuri (in stato narcolettico): qui si ricollegano i destini dei tre protagonisti, attraverso una lettera scritta dalla ragazza ed indirizzata ad Okabe (e di conseguenza ai due amici), nella quale parla del suo sogno ricorrente. Lo stesso sogno di un mondo vuoto, di un banco luminoso lega Sayuri ad Hiroki. Lui si è trasferito a Tokyo, pensando che da un luogo così distante la torre, simbolo della promessa infranta, sarebbe sparita alla sua vista: invece la medesima visione, associata ai suoi sogni, rende la sua vita disperata. I momenti passati alla stazione ad aspettare, la constatazione che tra milioni di persone che abitano la città non ce n'è una che vorrebbe vedere, con cui vorrebbe parlare ("Sono il solo/la sola rimasto/a al mondo" dicono i due -solitudine sociale quella di lui, onirica quella di lei). Per lui, in un mondo che non vuole accettare (in quanto mancante di lei), il sogno diventa più reale della realtà. Per lei, prigioniera di un mondo che comprende solo lei, i ricordi diventano più effimeri del sogno, pur rimanendo il suo unico contatto con la realtà.
Nella terza parte del film assistiamo ad un incontro nel sogno tra Hiroki e Sayuri, con la reiterazione della promessa (più la postilla del proteggerla per sempre), e al ricordo della confidenza che Sayuri aveva fatto a Takuya (ferito in un letto d'ospedale a seguito di una fuga che non sto qui a raccontare): la visione dei mondi paralleli, rappresentati dalle rovine di infinite torri (tranne una) ed un aereo bianco.
Hiroki e Takuya si ritrovano ad Aomori, luogo di quei ricordi condivisi, e, nella bella scena notturna nel capannone, entrano in contrasto (a cazzotti) per una questione di principio: salvare la vita di Sayuri o quella del mondo (essendo il funzionamento massimo della torre legato allo stato di Sayuri, se lei si risvegliasse il mondo alternativo si sovrapporebbe a quello esistente riscrivendo la realtà).
Naturalmente non vi racconto il seguito.
A livello tecnico questo lavoro lungo di Shinkai supera decisamente "Lei ed il suo gatto" (di cui comunque si notano citazioni -il gatto Chobi- e sequenze molto simili -la stanza di Hiroki). Buone animazioni, con parti disegnate alternate, presumibilmente, a paesaggi ripresi. Molto positivo il mio giudizio sul realismo delle situazioni comuni (cosa che potrebbe non piacere o annoiare altri) e sulla musica (la stessa suonata col violino da Sayuri prima, da Hiroki poi). Belle anche le scene digitali (detto da me è già qualcosa), soprattutto il viaggio finale sull'aereo e la scena dell'esplosione.
Come ho detto non è leggero da vedere, bisogna avere pazienza anche nei confronti di un sentimentalismo eccessivo, a volte. Rivedendolo l'ho trovato molto più piacevole e con dialoghi ben fatti. Sull'originalità della storia non ho niente da aggiungere: accanto a cose già viste (però raccontate così sembrano altra cosa), ci sono passaggi di punti di vista, salti temporali volti a non facilitare la comprensione (è anche per questo che andrebbe visto due volte almeno). Nel complesso supera la prova: non ho sbadigliato mai (nonostante il bis), la storia è bella, i personaggi sono buoni.
Tradotto letteralmente "Oltre le nuvole, il luogo della promessa", questo piacevole lungometraggio animato della durata di poco più di un'ora e mezza, è figlio dello stesso regista e ideatore del brevissimo "Kanojo to kanojo no neko" (di cui per altro condivide alcune linee guida, in ambito narrativo), ovvero Shinkai Makoto.
Premetto che non è di facile visione, sia per il modo di raccontare del regista, che alterna scene abbastanza lente ad altre che scorrono tranquillamente senza appesantire la narrazione, sia per la fissità (lo stesso discorso che ho fatto altrove per "Lei ed il suo gatto", in relazione all'importanza delle inquadrature, degli oggetti e dei silenzi -cose che possono condizionare il giudizio sul film). Io stesso ho dovuto vederlo due volte, perché alcune cose che sfuggono la prima volta (soprattutto il concetto dei sogni e dei mondi paralleli alla base della storia) diventano più chiare (il rapporto tra il finale ed il principio poi si è rivelato amaro).
Molti particolari, a livello narrativo, richiamano un altro bell'anime come Last Exile (il conflitto, l'aereo e la visione di un altro mondo) e mi hanno fatto pensare a certe peculiarità presenti nei manga di Inio Asano (la commistione tra realtà e sogno, forse perché l'ho letto poco fa, mi ha ricordato Nijigahara Holograph -che però è di due anni posteriore al film in questione, del 2004). Quella che sembra una storia comune di ragazzi che considerano un sogno, o meglio una promessa, come la cosa più importante che esista al mondo, si va lentamente delineando come un'eco della storia reale, dei conflitti che la caratterizzano (o l'hanno caratterizzata) e del vuoto che la riassume (è lo stato delle cose che genera la separazione tra i protagonisti). Il passaggio dalla prima fase alla seconda avviene in maniera brusca, amara, come se il sogno assurdo di un mondo che non accetta la realtà divorasse il sogno normale, quasi ingenuo, dei tre giovani protagonisti.
Quello che ci introduce alle origini della storia è lo sguardo postumo (ai fatti, non alla vita) di Fujisawa Hiroki: attraverso le sue parole apprendiamo che c'è stata una guerra, a seguito della quale il territorio separato di Ezo (Hokkaido) si è ricongiunto al resto del Giappone, e che qualcosa di importante si è perso a causa di ciò (ricorda le parole dette da una ragazza). Ritornando nei luoghi dell'adolescenza, assistiamo alle tappe dell'evoluzione culturale (in riferimento agli interessi ed ai propositi per il futuro), ma anche sentimentale, dei tre ragazzi: Fujisawa Hiroki, Shirakawa Takuya e Sawatari Sayuri. I due ragazzi sono grandi amici, condividono un interesse comune, che è poi la cosa che li lega a Sayuri (oltre ad un sano innamoramento tra Hiroki e la ragazza -cosa che di solito non può mancare): raggiungere, con un aereo interamente costruito da loro, la torre che si erge al di là dello stretto di Tsugaru, nel territorio di Ezo (Hokkaido, politicamente definito Union, in contrapposizione all'Alliance del sud).
La torre, altissima, tanto da non vederne la sommità: simbolo di uno stato, della guerra, della disperazione e dell'ammirazione (queste le parole di un altro personaggio). Uno strumento di separazione tra un mondo e l'altro (sia a livello geopolitico, tecnologico, sia a livello metafisico, come chiave tra i mondi possibili -in questo senso nella doppia valenza di muro e ponte), tra una realtà che si vorrebbe cambiare leggendo nel complesso di infinite realtà alternative (che poi, ripresentano la stessa situazione -a livello logico si possono cambiare le modalità attraverso le quali si manifesta un evento ma non l'evento in sé) ed un desiderio che si vorrebbe realizzare. Il destino di questo elemento, che attrae (nella monumentalità) come anche respinge (visto come simbolo di separazione), è legato indissolubilmente a quello di Sayuri: i sogni di lei sono una proiezione di un futuro possibile, generati dal contrasto con il funzionamento della torre. Proprio in uno di questi sogni vede un aereo bianco, che la libera da una realtà (come la definisce lei stessa) dalla quale non saprebbe uscire, la realtà di un mondo vuoto, in rovina, che manifesta la sua solitudine.
Molto bella la composizione dei momenti che i tre trascorrono assieme: il dialogo sul treno tra Hiroki e Sayuri; quello in un giorno di pioggia tra Sayuri e Takuya; l'incontro con Okabe (il meccanico presso il quale i due ragazzi lavorano in cambio di parti meccaniche per completare Bella Cielo, il loro aereo); la performance di Sayuri con il violino; le giornate passate nel capannone di una vecchia stazione abbandonata (il loro rifugio). Di questi momenti Hiroki vorrebbe arrestare il tempo, renderli infiniti, ben sapendo che il mondo che li circonda è soggetto inevitabilmente al cambiamento.
La seconda parte del film si svolge tre anni dopo: c'è stata una separazione, le amicizie si sono sgretolate assieme alla promessa fatta a Sayuri. Allo stesso modo la situazione politica va degenerando. Ci vengono spiegati alcuni particolari, tra i quali l'esistenza di una sorta di progetto di armamento (si possono vedere in questo modo i tentativi del laboratorio della US NSA di Aomori di comprendere i meccanismi di funzionamento della torre di Ezo) dell'Alliance (il Giappone americano), in vista di un conflitto con la Union (il Giappone sovietico, suppongo). Ritroviamo Takuya impegnato nel progetto di costruzione di una torre simile a quella di Ezo (ideata dal nonno di Sayuri, Ekusun Tsukinoe), progetto condotto dal professor Tomizawa.
Interessanti, in questo frangente di storia, le brevi spiegazioni sulla dinamica degli studi condotti parallelamente tra il sogno umano (nella combinazione delle informazioni ricevuto dall'esterno) e lo scambio di informazioni tra i mondi come manifestazione del sogno dell'universo. I due campi entrano in contatto nel momento in cui questo scambio di informazioni diviene precognizione degli eventi, ovvero quando la torre interagisce con determinati elementi (Sayuri in questo caso).
La scena si sposta a Tokyo, seguendo gli spostamenti del professor Tomizawa, in visita all'ospedale in cui è ricoverata Sayuri (in stato narcolettico): qui si ricollegano i destini dei tre protagonisti, attraverso una lettera scritta dalla ragazza ed indirizzata ad Okabe (e di conseguenza ai due amici), nella quale parla del suo sogno ricorrente. Lo stesso sogno di un mondo vuoto, di un banco luminoso lega Sayuri ad Hiroki. Lui si è trasferito a Tokyo, pensando che da un luogo così distante la torre, simbolo della promessa infranta, sarebbe sparita alla sua vista: invece la medesima visione, associata ai suoi sogni, rende la sua vita disperata. I momenti passati alla stazione ad aspettare, la constatazione che tra milioni di persone che abitano la città non ce n'è una che vorrebbe vedere, con cui vorrebbe parlare ("Sono il solo/la sola rimasto/a al mondo" dicono i due -solitudine sociale quella di lui, onirica quella di lei). Per lui, in un mondo che non vuole accettare (in quanto mancante di lei), il sogno diventa più reale della realtà. Per lei, prigioniera di un mondo che comprende solo lei, i ricordi diventano più effimeri del sogno, pur rimanendo il suo unico contatto con la realtà.
Nella terza parte del film assistiamo ad un incontro nel sogno tra Hiroki e Sayuri, con la reiterazione della promessa (più la postilla del proteggerla per sempre), e al ricordo della confidenza che Sayuri aveva fatto a Takuya (ferito in un letto d'ospedale a seguito di una fuga che non sto qui a raccontare): la visione dei mondi paralleli, rappresentati dalle rovine di infinite torri (tranne una) ed un aereo bianco.
Hiroki e Takuya si ritrovano ad Aomori, luogo di quei ricordi condivisi, e, nella bella scena notturna nel capannone, entrano in contrasto (a cazzotti) per una questione di principio: salvare la vita di Sayuri o quella del mondo (essendo il funzionamento massimo della torre legato allo stato di Sayuri, se lei si risvegliasse il mondo alternativo si sovrapporebbe a quello esistente riscrivendo la realtà).
Naturalmente non vi racconto il seguito.
A livello tecnico questo lavoro lungo di Shinkai supera decisamente "Lei ed il suo gatto" (di cui comunque si notano citazioni -il gatto Chobi- e sequenze molto simili -la stanza di Hiroki). Buone animazioni, con parti disegnate alternate, presumibilmente, a paesaggi ripresi. Molto positivo il mio giudizio sul realismo delle situazioni comuni (cosa che potrebbe non piacere o annoiare altri) e sulla musica (la stessa suonata col violino da Sayuri prima, da Hiroki poi). Belle anche le scene digitali (detto da me è già qualcosa), soprattutto il viaggio finale sull'aereo e la scena dell'esplosione.
Come ho detto non è leggero da vedere, bisogna avere pazienza anche nei confronti di un sentimentalismo eccessivo, a volte. Rivedendolo l'ho trovato molto più piacevole e con dialoghi ben fatti. Sull'originalità della storia non ho niente da aggiungere: accanto a cose già viste (però raccontate così sembrano altra cosa), ci sono passaggi di punti di vista, salti temporali volti a non facilitare la comprensione (è anche per questo che andrebbe visto due volte almeno). Nel complesso supera la prova: non ho sbadigliato mai (nonostante il bis), la storia è bella, i personaggi sono buoni.
Mind Game
9.0/10
Utente5795
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Se avete amato <i>FLCL</i>, lo stravagante OAV della Gainax che faceva della sperimentazione più ostentata e del ritmo più sconnesso ed incalzante la sua bandiera, troverete pane per i vostri denti in <i>Mind Game</i>: assurdo, complesso e strabiliante come solo le opere sperimentali possono essere. Non c'era da aspettarsi altro, visto che dietro a questo progetto c'è il prestigioso Studio 4°C, una delle case di animazioni nipponiche più fresche e talentuose degli ultimi anni, le cui altre opere più note sono <i>Animatrix</i>, <i>Tekkonkinkrett</i> e <i>Memories</i>.
È proprio lo stile registico coniato dallo Studio il fulcro di tutto il film: la trama è spezzettata, sconnessa, piena di flashback e anticipazioni che disorientano lo spettatore (ma la coerenza non manca), entrambi resi in maniera a dir poco perfetta grazie al portentoso gioco di inquadrature dinamiche e mutevoli; i disegni e le animazioni possono sembrare a prima vista rudimentali, ma in realtà racchiudono in loro tutta la misteriosa potenza dell'avanguardia visiva e il tono schietto, ironico e senza compromessi del minimalismo più asciutto e geometrico. Dall'unione di questi due fattori nasce un gioco di immagini e azione a dir poco scatenato, con tantissime scene davvero memorabili. Ovviamente questo modus operandi così particolare può non piacere a chi chiedeva qualcosa di più sobrio e tradizionale, in più la presenza di momenti un po' forti rende il tutto abbastanza off-limits ai più giovani - ma vi assicuro che <i>Mind Game</i> vale la pena di essere visto, anche perché lascia trasparire temi sempre validi e attuali, su tutti la crescita, qui idealmente teorizzata come volontà di vivere, di fare le proprie esperienze fuori dal proprio guscio, ma senza perdere di vista le proprie responsabilità e il senso della misura: per trovare la felicità bisogna saper camminare sulle proprie gambe, ma senza correre, per evitare di storcersi inutilmente un piede nei sassi sul nostro sentiero (cioè le difficoltà della vita), e riuscire a vedere le persone che stanno avanzando al tuo fianco.
Un titolo stralunato, senza briglie, ma incredibilmente maturo e coinvolgente: questo è <i>Mind Game</i>, forse uno dei migliori lungometraggi di stampo sperimentale della storia degli anime, e un perentorio esempio di cosa abbia di buono da dire lo Studio 4°C. Consigliato a tutti, se poi l'onanismo mentale è il vostro forte, potreste adorarlo alla follia!
È proprio lo stile registico coniato dallo Studio il fulcro di tutto il film: la trama è spezzettata, sconnessa, piena di flashback e anticipazioni che disorientano lo spettatore (ma la coerenza non manca), entrambi resi in maniera a dir poco perfetta grazie al portentoso gioco di inquadrature dinamiche e mutevoli; i disegni e le animazioni possono sembrare a prima vista rudimentali, ma in realtà racchiudono in loro tutta la misteriosa potenza dell'avanguardia visiva e il tono schietto, ironico e senza compromessi del minimalismo più asciutto e geometrico. Dall'unione di questi due fattori nasce un gioco di immagini e azione a dir poco scatenato, con tantissime scene davvero memorabili. Ovviamente questo modus operandi così particolare può non piacere a chi chiedeva qualcosa di più sobrio e tradizionale, in più la presenza di momenti un po' forti rende il tutto abbastanza off-limits ai più giovani - ma vi assicuro che <i>Mind Game</i> vale la pena di essere visto, anche perché lascia trasparire temi sempre validi e attuali, su tutti la crescita, qui idealmente teorizzata come volontà di vivere, di fare le proprie esperienze fuori dal proprio guscio, ma senza perdere di vista le proprie responsabilità e il senso della misura: per trovare la felicità bisogna saper camminare sulle proprie gambe, ma senza correre, per evitare di storcersi inutilmente un piede nei sassi sul nostro sentiero (cioè le difficoltà della vita), e riuscire a vedere le persone che stanno avanzando al tuo fianco.
Un titolo stralunato, senza briglie, ma incredibilmente maturo e coinvolgente: questo è <i>Mind Game</i>, forse uno dei migliori lungometraggi di stampo sperimentale della storia degli anime, e un perentorio esempio di cosa abbia di buono da dire lo Studio 4°C. Consigliato a tutti, se poi l'onanismo mentale è il vostro forte, potreste adorarlo alla follia!
Paranoia Agent
8.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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Inizio subito col dire che, dopo aver visionato <i>Paranoia Agent</i>, il rammarico per aver perduto il grande Kon si è reso ancor più insostenibile. Il Maestro ci ha lasciati sempre a bocca aperta con i suoi lungometraggi, e una volta cimentatosi con una serie televisiva, non ha affatto deluso le aspettative, dimostrandosi invece brillante come sempre.
I tredici episodi che compongono questa perla animata del 2004 garantiscono un'esperienza unica e sensazionale, costituiscono una fonte di diletto e contemporaneamente invitano a riflettere. L'autore sceglie una storia che spazia dal poliziesco, al thriller, al drammatico, alla commedia, perfino al fantasy, incanalandovi fiumi di satira che saggiamente vanno a lambire gli aspetti più ostici di una società consumista e capitalista come quella giapponese. Dopo circa quattro episodi, che delineano i contorni di una trama tinta di giallo, la serie cambia decisamente rotta narrativa, incentrandosi primariamente sugli sviluppi psicologici dei tanti, ed eccellentemente caratterizzati, personaggi in gioco, e fornendo, in base alle situazioni di questi ultimi, validi spunti di riflessione, che spesso in tono scherzoso e disinteressato vanno a toccare problematiche reali quali alienazione, solitudine, suicidio, e così via. La determinata voglia di evadere dalla realtà stressante ed iperproduttivista del Sol Levante rivela allo stesso tempo l'estrema fragilità della mente umana sotto gli effetti dell'autocolpevolizzazione, generata da quello stesso "trasgressivo" desiderio di fuga. E così si tende a fare buon viso a cattivo gioco, accontentandosi di mascherare il malessere con l'esaltazione di icone raggianti, radiose, "bambinesche" (vedi il peluche rosa di nome Maromi), e al contempo con l'evocazione di una qualche figura "espiatoria", che possa rimettere tutto a posto con la forza di far dimenticare i mali della vita (vedi Shounen Bat, il ragazzino con pattini a rotelle e mazza da baseball piegata).
Ottimamente curata nel reparto tecnico - Madhouse colpisce ancora - la serie non si presenta in modo unitario nemmeno dal punto di vista grafico. Gli ottimi mezzi, uniti ad ottime idee, permettono anche di sperimentare diversi stili in una volta, mai affossando la regolare qualità delle animazioni. Il character design di Masashi Ando è di tutto rispetto e ricorda vagamente il tratto di Satoshi Kon stesso. Susumu Hirasawa, già al lavoro su <i>Berserk</i> e <i>Millennium Actress</i>, si occupa invece di comporre la colonna sonora, che impreziosisce e completa un lavoro complessivamente pregevole. Molto buono il doppiaggio italiano.
Prima e - purtroppo - ultima serie televisiva del grande Satoshi Kon, pertanto, imperdibile.
I tredici episodi che compongono questa perla animata del 2004 garantiscono un'esperienza unica e sensazionale, costituiscono una fonte di diletto e contemporaneamente invitano a riflettere. L'autore sceglie una storia che spazia dal poliziesco, al thriller, al drammatico, alla commedia, perfino al fantasy, incanalandovi fiumi di satira che saggiamente vanno a lambire gli aspetti più ostici di una società consumista e capitalista come quella giapponese. Dopo circa quattro episodi, che delineano i contorni di una trama tinta di giallo, la serie cambia decisamente rotta narrativa, incentrandosi primariamente sugli sviluppi psicologici dei tanti, ed eccellentemente caratterizzati, personaggi in gioco, e fornendo, in base alle situazioni di questi ultimi, validi spunti di riflessione, che spesso in tono scherzoso e disinteressato vanno a toccare problematiche reali quali alienazione, solitudine, suicidio, e così via. La determinata voglia di evadere dalla realtà stressante ed iperproduttivista del Sol Levante rivela allo stesso tempo l'estrema fragilità della mente umana sotto gli effetti dell'autocolpevolizzazione, generata da quello stesso "trasgressivo" desiderio di fuga. E così si tende a fare buon viso a cattivo gioco, accontentandosi di mascherare il malessere con l'esaltazione di icone raggianti, radiose, "bambinesche" (vedi il peluche rosa di nome Maromi), e al contempo con l'evocazione di una qualche figura "espiatoria", che possa rimettere tutto a posto con la forza di far dimenticare i mali della vita (vedi Shounen Bat, il ragazzino con pattini a rotelle e mazza da baseball piegata).
Ottimamente curata nel reparto tecnico - Madhouse colpisce ancora - la serie non si presenta in modo unitario nemmeno dal punto di vista grafico. Gli ottimi mezzi, uniti ad ottime idee, permettono anche di sperimentare diversi stili in una volta, mai affossando la regolare qualità delle animazioni. Il character design di Masashi Ando è di tutto rispetto e ricorda vagamente il tratto di Satoshi Kon stesso. Susumu Hirasawa, già al lavoro su <i>Berserk</i> e <i>Millennium Actress</i>, si occupa invece di comporre la colonna sonora, che impreziosisce e completa un lavoro complessivamente pregevole. Molto buono il doppiaggio italiano.
Prima e - purtroppo - ultima serie televisiva del grande Satoshi Kon, pertanto, imperdibile.
Midori no Hibi
9.0/10
Da tempo aspettavo di guardarmi questo anime, ma non sono mai riuscito a trovarlo. Poi per puro caso ecco che mi imbatto nel fansub e le porte di questo mondo mi si schiudono davanti.
Il manga di Kazurou Inoue viene animato niente meno che dal prestigioso Studio Pierrot e trasmette una storia carica di dolcezza e di sentimenti ben amalgamanti tra ilarità e poesia, creando un mix davvero interessante che affascina lo spettatore fin dalle prima puntate. La storia in se ha davvero dell'assurdo e non si può collocare in nessun filone perchè questo prodotto fa dell'originalità una punta di diamante. Midori è una dolce e timida ragazza giapponese, innamorata da anni di un truzzo teppista al quale non trova il coraggio di confessare il suo amore. Il tamarro di periferia si chiama Sawamura Seiji e tra una rissa e una scazzottata è riuscito anche a collezionare 20 rifiuti amorosi nell'arco dei suoi 17 anni. Tutto sembrerebbe molto ordinario se non fosse che un bel giorno Midori si sveglia e scopre con orrore di essere diventata la mano destra di Seiji. Da qui il demenziale si intreccia col romanticismo in modo davvero ben orchestrato. Sono state fatte parecchi speculazioni sul fatto che questo Shonen sia in realtà un Ecchi ma sono del tutto infondate. Rimane il fatto concreto che le scene di nudo (integrale) ci sono ma non per questo possiamo parlare di un prodotto dedicato a maniaci pervertiti. Midori no Hibi è prima di tutto una bella storia, divertente, romantica e che sa affascinare il pubblico con la dolcezza e la tenerezza della protagonista. Midori risveglia infatti più che i sensi un soffuso istinto paterno e di protezione, apparendo più bambina che donna (probabilmente come chiaro intento della mangaka).
Il disegno non è male, curato in certe scene ma un po' trascurante sugli sfondi e i dettagli. Non è diciamo un prodotto di alta qualità ma sa farsi apprezzare anche per il tratto decisamente singolare col quale la Kazunou disegna i vari personaggi, tutti molto differenti. Le musiche si incastrano bene nella trama, senza eccedere o pretendere nulla. Nel complesso Midori no Hibi è uno shonen divertente, che riesce anche a farti ridere a crepapelle in certe scene, spostando poi l'attenzione dello spettatore verso tematiche sentimentali e romantiche, ma sempre comunque frivole, che non appesantiscono l'aria gioviale che permea questa produzione. Direi un nove pieno.
Il manga di Kazurou Inoue viene animato niente meno che dal prestigioso Studio Pierrot e trasmette una storia carica di dolcezza e di sentimenti ben amalgamanti tra ilarità e poesia, creando un mix davvero interessante che affascina lo spettatore fin dalle prima puntate. La storia in se ha davvero dell'assurdo e non si può collocare in nessun filone perchè questo prodotto fa dell'originalità una punta di diamante. Midori è una dolce e timida ragazza giapponese, innamorata da anni di un truzzo teppista al quale non trova il coraggio di confessare il suo amore. Il tamarro di periferia si chiama Sawamura Seiji e tra una rissa e una scazzottata è riuscito anche a collezionare 20 rifiuti amorosi nell'arco dei suoi 17 anni. Tutto sembrerebbe molto ordinario se non fosse che un bel giorno Midori si sveglia e scopre con orrore di essere diventata la mano destra di Seiji. Da qui il demenziale si intreccia col romanticismo in modo davvero ben orchestrato. Sono state fatte parecchi speculazioni sul fatto che questo Shonen sia in realtà un Ecchi ma sono del tutto infondate. Rimane il fatto concreto che le scene di nudo (integrale) ci sono ma non per questo possiamo parlare di un prodotto dedicato a maniaci pervertiti. Midori no Hibi è prima di tutto una bella storia, divertente, romantica e che sa affascinare il pubblico con la dolcezza e la tenerezza della protagonista. Midori risveglia infatti più che i sensi un soffuso istinto paterno e di protezione, apparendo più bambina che donna (probabilmente come chiaro intento della mangaka).
Il disegno non è male, curato in certe scene ma un po' trascurante sugli sfondi e i dettagli. Non è diciamo un prodotto di alta qualità ma sa farsi apprezzare anche per il tratto decisamente singolare col quale la Kazunou disegna i vari personaggi, tutti molto differenti. Le musiche si incastrano bene nella trama, senza eccedere o pretendere nulla. Nel complesso Midori no Hibi è uno shonen divertente, che riesce anche a farti ridere a crepapelle in certe scene, spostando poi l'attenzione dello spettatore verso tematiche sentimentali e romantiche, ma sempre comunque frivole, che non appesantiscono l'aria gioviale che permea questa produzione. Direi un nove pieno.
Maria-sama ga miteru
8.0/10
L'istituto femminile Lillian è una scuola cattolica di elevato prestigio fondata nel 1902 Cardine dell'insegnamento è la grande attenzione all'educazione e all'osservanza delle buone maniere. Dopo l'iscrizione al primo anno del liceo le studentesse sono divise in tre famiglie: Rose rosse, gialle e bianche, a capo delle quali ci sono tre studentesse principali che hanno il titolo rispettivamente di “Rosa” Chinensis, Foetida e Gigantea.
Altra tradizione dell'istituto, anche se non obbligatoria, è quella di stabilire tra due studentesse un legame formale di “sorellanza”. In sostanza una studentessa del secondo o terzo anno si può così legare a una del primo attraverso il dono del proprio rosario. Nel caso che la più giovane accetti le due divengono così “soeurs” (sorelle in francese). Da quel momento la maggiore accoglie la minore sotto la sua ala e la guida durante la vita scolastica nell'osservanza delle regole e dello spirito dell'istituto mentre la minore la sosterrà nelle difficoltà e la aiuterà in eventuali mansioni.
Il tutto non è di secondaria importanza in quanto le soeurs delle tre rose sono destinate a succedere a queste ultime (in realtà per ottenere il ruolo di Rosa si tengono annualmente delle elezioni ma queste appaiono piuttosto “bulgare”).
Le Rose, le relative soeurs (dette boutons, boccioli) e le soeurs dei boutons compongono il consiglio studentesco, lo Yamayurikai.
Yumi Fukuzawa è una ragazza come tante iscritta al primo anno della Lillian già contenta anche solo per essere stata ammessa. Il primo giorno incontra, senza sapere chi sia, la studentessa forse più in vista dell'istituto: Sachiko Ogasawara, una ragazza particolarmente bella, dai modi aristocratici e che eccelle nelle arti. Tra l'altro Sachiko è anche Rosa Chinensis en bouton.
Gli eventi faranno si che Sachiko proponga a Yumi di diventare sua soeur ma questa, non sentendosi affatto all'altezza, rifiuta. Tuttavia Sachiko non vuole, e non può, arrendersi così facilmente...
Yumi inizia così a frequentare il consiglio studentesco e i membri che ne fanno parte...
Maria-Sama ga miteru è un anime molto particolare. La storia non prosegue seguendo una trama in modo “classico” piuttosto si svolge in modo episodico focalizzando l'attenzione di volta in volta sui vari personaggi ma mantenendo come filo conduttore la loro crescita caratteriale e psicologica. Dunque, sebbene Yumi e Sachiko possano essere considerate le protagoniste, abbiamo una certa coralità d'insieme con un un buono spazio riservato per quasi tutti i personaggi.
Un altro elemento di distinzione è l'atmosfera generale che si respira: calma, cordialità e tranquillità contribuiscono a creare un ambiente quasi aulico che riflette in pieno gli ideali di insegnamento dell'istituto Lillian.
La quasi assenza di personaggi maschili, i molteplici riferimenti floreali, la delicatezza d'insieme rendono Maria-Sama uno shojo tendente allo yuri. Sguardi languidi e sorrisi maliziosi non mancano anche se alla fine esempi veri e propri li abbiamo solo nella storia di Sei alias Rosa Gigantea.
Cosa mi è piaciuto di più di questo anime?
Indubbiamente il character design, un po' spigoloso ma al contempo delicato e dettagliato. I personaggi, particolari e ben caratterizzati nonché ottimamente resi grazie a un ottimo doppiaggio. La storia che nel suo non frettoloso sviluppo sa appassionare e coinvolgere anche grazie all'inserimento di momenti prettamente umoristici.
Alla serie si accompagnano inoltre dei mini episodi (omake) parodistici e realizzati in stile deformed, simpatici con alcuni molto divertenti.
Qualche nota stonata è comunque presente. Poca varietà nelle ambientazioni, del resto la maggior parte della storia si svolge nell'istituto e l'unica variazione dell'ambiente è quella data dall'alternarsi delle stagioni e infine, pur convenendo che in un opera sentimentale di lacrime ce ne possano stare, ritengo che a volte “queste ragazze” facciano una tragedia per un nonnulla...
A chi predilige storie dinamiche, intricate e incalzanti dico che Maria-Sama ga miteru non fa per voi. Agli altri, appassionati di shojo ma anche no (come me...), ma specialmente a che cerca qualcosa di diverso nel panorama dell'animazione nipponica consiglio di dargli un occhiata. Potrebbe sorprendervi.
Altra tradizione dell'istituto, anche se non obbligatoria, è quella di stabilire tra due studentesse un legame formale di “sorellanza”. In sostanza una studentessa del secondo o terzo anno si può così legare a una del primo attraverso il dono del proprio rosario. Nel caso che la più giovane accetti le due divengono così “soeurs” (sorelle in francese). Da quel momento la maggiore accoglie la minore sotto la sua ala e la guida durante la vita scolastica nell'osservanza delle regole e dello spirito dell'istituto mentre la minore la sosterrà nelle difficoltà e la aiuterà in eventuali mansioni.
Il tutto non è di secondaria importanza in quanto le soeurs delle tre rose sono destinate a succedere a queste ultime (in realtà per ottenere il ruolo di Rosa si tengono annualmente delle elezioni ma queste appaiono piuttosto “bulgare”).
Le Rose, le relative soeurs (dette boutons, boccioli) e le soeurs dei boutons compongono il consiglio studentesco, lo Yamayurikai.
Yumi Fukuzawa è una ragazza come tante iscritta al primo anno della Lillian già contenta anche solo per essere stata ammessa. Il primo giorno incontra, senza sapere chi sia, la studentessa forse più in vista dell'istituto: Sachiko Ogasawara, una ragazza particolarmente bella, dai modi aristocratici e che eccelle nelle arti. Tra l'altro Sachiko è anche Rosa Chinensis en bouton.
Gli eventi faranno si che Sachiko proponga a Yumi di diventare sua soeur ma questa, non sentendosi affatto all'altezza, rifiuta. Tuttavia Sachiko non vuole, e non può, arrendersi così facilmente...
Yumi inizia così a frequentare il consiglio studentesco e i membri che ne fanno parte...
Maria-Sama ga miteru è un anime molto particolare. La storia non prosegue seguendo una trama in modo “classico” piuttosto si svolge in modo episodico focalizzando l'attenzione di volta in volta sui vari personaggi ma mantenendo come filo conduttore la loro crescita caratteriale e psicologica. Dunque, sebbene Yumi e Sachiko possano essere considerate le protagoniste, abbiamo una certa coralità d'insieme con un un buono spazio riservato per quasi tutti i personaggi.
Un altro elemento di distinzione è l'atmosfera generale che si respira: calma, cordialità e tranquillità contribuiscono a creare un ambiente quasi aulico che riflette in pieno gli ideali di insegnamento dell'istituto Lillian.
La quasi assenza di personaggi maschili, i molteplici riferimenti floreali, la delicatezza d'insieme rendono Maria-Sama uno shojo tendente allo yuri. Sguardi languidi e sorrisi maliziosi non mancano anche se alla fine esempi veri e propri li abbiamo solo nella storia di Sei alias Rosa Gigantea.
Cosa mi è piaciuto di più di questo anime?
Indubbiamente il character design, un po' spigoloso ma al contempo delicato e dettagliato. I personaggi, particolari e ben caratterizzati nonché ottimamente resi grazie a un ottimo doppiaggio. La storia che nel suo non frettoloso sviluppo sa appassionare e coinvolgere anche grazie all'inserimento di momenti prettamente umoristici.
Alla serie si accompagnano inoltre dei mini episodi (omake) parodistici e realizzati in stile deformed, simpatici con alcuni molto divertenti.
Qualche nota stonata è comunque presente. Poca varietà nelle ambientazioni, del resto la maggior parte della storia si svolge nell'istituto e l'unica variazione dell'ambiente è quella data dall'alternarsi delle stagioni e infine, pur convenendo che in un opera sentimentale di lacrime ce ne possano stare, ritengo che a volte “queste ragazze” facciano una tragedia per un nonnulla...
A chi predilige storie dinamiche, intricate e incalzanti dico che Maria-Sama ga miteru non fa per voi. Agli altri, appassionati di shojo ma anche no (come me...), ma specialmente a che cerca qualcosa di diverso nel panorama dell'animazione nipponica consiglio di dargli un occhiata. Potrebbe sorprendervi.
- LE NOSTRE RECENSIONI
Pretty Cure: Recensione (Kotaro)
per il primo posto GITS non è affatto il mio genere (ho visto i film su rai 4 tempo fa).. anzi a saperlo gli davo un'insufficienza per fare calare la media.. scherzo ovviamente
Di quelle in classifica ho visto solo Mai-HiME e sto vedendo Bleach.
Visti anche Girls Bravo e Genshiken che non sono niente di imperdibile.
Quello che è veramente imperdibile è l'ottavo film di Conan. Veramente molto bello.
Ghost in the Shell invece ho visto i film su rai 4 ma non è il mio genere... non mi piace proprio, lo trovo noioso anche se innovativo
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