Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. Alcune di noi erano cresciute solo a pappa di riso e avevano le gambe un po’ storte, e alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine. Alcune di noi venivano dalla città e portavano abiti cittadini all’ultima moda, ma molte di più venivano dalla campagna, e sulla nave portavano gli stessi vecchi kimono che avevano portato per anni – indumenti sbiaditi smessi dalle nostre sorelle, rammendati e tinti più volte. Alcune di noi venivano dalle montagne e non avevano mai visto il mare, tranne che in fotografia, e alcune di noi erano figlie di pescatori che conoscevano il mare da sempre.
Titolo: Venivamo Tutte per Mare
Titolo Originale: The Buddha in the Attic
Autrice: Julie Otsuka
Traduzione: di Silvia Pareschi
Prezzo: 13 Euro
pp: 133
Editore: Bollati Boringhieri editore
Questo è l'incipit di Venivamo Tutte dal Mare bel volume di Julie Otsuka. L'ex pittrice è già autrice di When the Emperor Was Divine (Quando l'Imperatore era Divino), storia di un Giapponese internato nei campi USA negli anni 40, di cui questo volume costituisce un'ideale preludio.
Il nuovo libro è la storia delle Picture Bride, le spose in fotografia, che sembrerebbe non appartenere al nostro tempo, dimenticata per anni nelle pieghe dei drammi delle guerre, nell'oscurità del secolo dell'Odio, una storia di emigrazione, una storia, che non ha protagoniste eroine spavalde ed ammaliatrici, feroci guerriere, ma migliaia e migliaia di donne giapponesi che come tantissime altre, di cento nazionalita, prima e dopo di loro si trovano catapultate in una realtà comletamente estranea alla loro, portate dal Giappone negli USA, per sposare dei perfetti sconosciuti, di cui non conoscono nè i modi, nè i gusti nè spesso le origini. Sulla Nave vi sono persone di ogni luogo e con mille storie, alcune fuggite da situazioni impossibili, altre semplicemente vendute. Per loro"l'Ammerica" potrebbe essere un luogo in cui ripartire, come ripetono coloro che le trasportano, un luogo dove "Voltare Pagina". "Voltare pagina", questo è ciò che dicono, ripetono, coloro che le trasportano verso gli Stati Uniti, verso questa nuova vita.
Il libro segue la strada di queste spose, la loro vita in questa terra, che per moltissime si è trasformata in luogo di sofferenza e violenza, di lavoro durissismo, accanto ad uomini mai amati, spesso incapaci di amare e figli indifferenti alla cultura di origine. Gli USA diventano luogo di incertezza ed alla fine di prigionia, con l'esplodere della II Guerra Mondiale. Si tratta di una storia che il tempo e la stessa memoria dell'emigrazione nipponica ha cercato di celare nelle molte umanissime menzogne, che si narrano ai parenti attraverso l'incerto filo delle lettere, che lega alla madrepatria. È una storia corale che l'autrice Julie Otsuka ricostruisce con tocco attento e con una prosa originalissima, come è stato sottolineato da molti critici.
Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l'oceano.
È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l'arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l'attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici.
Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall'autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua. Un altro scrittore avrebbe impiegato centinaia di pagine per raccontare le peripezie di un intero popolo di immigrati, avrebbe sprecato torrenti di parole per dire cos'è il razzismo. Julie Otsuka ci riesce con queste essenziali, preziose pagine.
È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l'arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l'attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici.
Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall'autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua. Un altro scrittore avrebbe impiegato centinaia di pagine per raccontare le peripezie di un intero popolo di immigrati, avrebbe sprecato torrenti di parole per dire cos'è il razzismo. Julie Otsuka ci riesce con queste essenziali, preziose pagine.
Al volume, finalista al National Book Award 2011, ha dedicato un lungo articolo - recensione Leonetta Bentivoglio sulle pagine di Repubblica.it
Un' idea di bellezza, impalpabile ma insinuante, sottilmente pervasiva, attraversa le pagine di Venivamo tutte per mare, dell' americana di origine nipponica Julie Otsuka (in uscita per Bollati Boringhieri). Come nella forma d' arte giapponese sumi-e, un genere magico di pittura a inchiostro, le sfumature sono fondamentali, così come la sobrietà e la spontaneità del segno. In questo libro è la parola a rivestire la medesima funzione.
È un romanzo leggerissimo, nel senso più incantatorio dell' aggettivo: anche nelle parti più malinconiche e amare, scorre come una folata di vento, toccando intimamente chi lo legge col suo descrivere la vita come un insieme di esistenze minute, ritratte mentre ci narrano una vicenda di destini sfaccettati e condivisi. È un incedere verbale analogo a quello del coro nella tragedia greca: le eroine procedono in massa sul sentiero della sopravvivenza, sospinte più dal fato che da scelte soggettive.
È anche una sinfonia di voci, un saliscendi musicale ipnotico nell' andirivieni tra il diluirsi e l' intensificarsi della sonorità espressiva. E l' acuta facoltà di tradurre in un vivido spettacolo una fetta di Storia (intesa come cronaca di eventi collettivi), imprimendole un passo di attualità grazie al ritmo da accadimento in fieri (teatrale, appunto), ha un effetto seduttivo sul lettore. Questo testo premiatissimo (selezionato per il National Book Award e inserito dal New York Times tra i titoli migliori del 2011) non contempla personaggi singoli. Il protagonista è uno solo, ed è lo sterminato ensemble che espone l' avventura. Sta qui, nel pluralismo della voce narrante, la geniale invenzione dell' autrice. Verrebbe da supporre che un flusso narrativo declinato per intero con il "noi" produca un distacco, una mancanza d' adesione emotiva. Invece no: il "noi" di Otsuka, in virtù del suo stile nitido e umanissimo, rende costantemente pregnante quel plurale. Qualcosa di tenero ci avvolge subito nell' incipit dell' arazzo di voci, che tale resterà (cioè compatto e corale) fino alla conclusione. «Sulla nave eravamo quasi tutte vergini». Qualche fanciulla non lo è più, ma tutte paiono squisitamente innocenti.
Piccole, un po' meno piccole, a volte adolescenti, abbigliate in logori kimoni. Tengono strette al seno le foto di promessi sposi mai incontrati. Attendono benessere, vestiti, cibo, amore, accoglienza. Hanno paure, ossessioni, nostalgie, ricordi. Sono ragazze fuggite dalle risaie, o dalle case per geishe a cui le aveva vendute il padre. Misere, tremanti, colme di speranze, sono manodopera consegnata ai futuri mariti per essere sfruttate e dare loro una famiglia. Quello ripercorso, in sostanza, è un episodio storico documentato. A inizio Novecento, migliaia di donne giapponesi - le "spose in fotografia" - furono acquistate per corrispondenza e spedite negli Stati Uniti per congiungersi a connazionali immigrati, i quali le volevano giovani e disponibili a nozze repentine. Fu una deportazione di vittime consenzienti, che quando scoppiò la guerra divenne un massacro.
In seguito all' attacco di Pearl Harbour infatti, Franklyn D. Roosvelt decise di considerare tutti i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici, condannandoli alla reclusione. Nell' odissea femminile del romanzo, seguita dall' intelligenza di uno sguardo "femminista" (nel significato più puro di questo termine), Otsuka parte registrando, con minuziosa puntualità visiva (è anche pittrice), il viaggio transoceanico delle giapponesi. L' anno è il 1919, la destinazione è San Francisco.
Osserva abitudini e movenze, ricama frammenti di sensazioni e pensieri, lega con nessi di estrema concretezza (niente d' intellettuale né di sentimentale inquina la sua prosa) la memoria delle radicie la trepidazione per l' avvenire in cui stanno per lanciarsi: un' altra terra, un popolo di sconosciuti, una lingua misteriosa, coniugi ignoti. Seguono, cadenzate in segmenti, le tappe che succedono all' approdo in California: la prima notte di matrimonio, quasi sempre cattiva, bestiale, deludente; il lavoro sfibrante, come operaie o contadine o serve o prostitute; l'incomprensibilità degli stili di vita americani; i parti spesso cruenti e le maternità spesso indesiderate. Poi l' internamento. Otsuka conosce questa realtà per resoconti familiari: suo nonno fu arrestato come sospetto di spionaggio; sua nonna, sua madre e sua zia passarono tre anni in un campo di concentramento nello Utah. La brutalità ci investe a metà romanzo, quando ci siamo affezionati all' esercito muliebre, alla loro grazia inafferrabile, alle loro meticolose confessioni. Di queste giapponesi ormai sappiamo molto. Le abbiamo sentite respirare tra incombenze e desideri.
L'intreccio delle loro voci ci ha cullato in una melodia di affetti, fantasie, dolori e sottomissioni allo straniero. Ed è qui che Otsuka, spietata, infierisce sul lettore. Quando ce le sottraggono per condurle nei "centri di raccolta" (simili ai luoghi in cui si convogliano le odierne folle di clandestini che sbarcano disperatamente sulle coste italiane); quando vengono umiliate nei cosiddetti "posti sicuri"; quando scompare la delicatezza del loro passo sulla nostra terra, la commozione, per chi legge, è uno sbocco inevitabile. Pochi altri romanzi hanno affrontato con altrettanta cruda lucentezza temi difficili e abusati come l' immigrazione e il razzismo. E forse nessuno ha saputo farlo dalla parte delle donne in modo tanto perturbante e originale.
È un romanzo leggerissimo, nel senso più incantatorio dell' aggettivo: anche nelle parti più malinconiche e amare, scorre come una folata di vento, toccando intimamente chi lo legge col suo descrivere la vita come un insieme di esistenze minute, ritratte mentre ci narrano una vicenda di destini sfaccettati e condivisi. È un incedere verbale analogo a quello del coro nella tragedia greca: le eroine procedono in massa sul sentiero della sopravvivenza, sospinte più dal fato che da scelte soggettive.
È anche una sinfonia di voci, un saliscendi musicale ipnotico nell' andirivieni tra il diluirsi e l' intensificarsi della sonorità espressiva. E l' acuta facoltà di tradurre in un vivido spettacolo una fetta di Storia (intesa come cronaca di eventi collettivi), imprimendole un passo di attualità grazie al ritmo da accadimento in fieri (teatrale, appunto), ha un effetto seduttivo sul lettore. Questo testo premiatissimo (selezionato per il National Book Award e inserito dal New York Times tra i titoli migliori del 2011) non contempla personaggi singoli. Il protagonista è uno solo, ed è lo sterminato ensemble che espone l' avventura. Sta qui, nel pluralismo della voce narrante, la geniale invenzione dell' autrice. Verrebbe da supporre che un flusso narrativo declinato per intero con il "noi" produca un distacco, una mancanza d' adesione emotiva. Invece no: il "noi" di Otsuka, in virtù del suo stile nitido e umanissimo, rende costantemente pregnante quel plurale. Qualcosa di tenero ci avvolge subito nell' incipit dell' arazzo di voci, che tale resterà (cioè compatto e corale) fino alla conclusione. «Sulla nave eravamo quasi tutte vergini». Qualche fanciulla non lo è più, ma tutte paiono squisitamente innocenti.
Piccole, un po' meno piccole, a volte adolescenti, abbigliate in logori kimoni. Tengono strette al seno le foto di promessi sposi mai incontrati. Attendono benessere, vestiti, cibo, amore, accoglienza. Hanno paure, ossessioni, nostalgie, ricordi. Sono ragazze fuggite dalle risaie, o dalle case per geishe a cui le aveva vendute il padre. Misere, tremanti, colme di speranze, sono manodopera consegnata ai futuri mariti per essere sfruttate e dare loro una famiglia. Quello ripercorso, in sostanza, è un episodio storico documentato. A inizio Novecento, migliaia di donne giapponesi - le "spose in fotografia" - furono acquistate per corrispondenza e spedite negli Stati Uniti per congiungersi a connazionali immigrati, i quali le volevano giovani e disponibili a nozze repentine. Fu una deportazione di vittime consenzienti, che quando scoppiò la guerra divenne un massacro.
In seguito all' attacco di Pearl Harbour infatti, Franklyn D. Roosvelt decise di considerare tutti i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici, condannandoli alla reclusione. Nell' odissea femminile del romanzo, seguita dall' intelligenza di uno sguardo "femminista" (nel significato più puro di questo termine), Otsuka parte registrando, con minuziosa puntualità visiva (è anche pittrice), il viaggio transoceanico delle giapponesi. L' anno è il 1919, la destinazione è San Francisco.
Osserva abitudini e movenze, ricama frammenti di sensazioni e pensieri, lega con nessi di estrema concretezza (niente d' intellettuale né di sentimentale inquina la sua prosa) la memoria delle radicie la trepidazione per l' avvenire in cui stanno per lanciarsi: un' altra terra, un popolo di sconosciuti, una lingua misteriosa, coniugi ignoti. Seguono, cadenzate in segmenti, le tappe che succedono all' approdo in California: la prima notte di matrimonio, quasi sempre cattiva, bestiale, deludente; il lavoro sfibrante, come operaie o contadine o serve o prostitute; l'incomprensibilità degli stili di vita americani; i parti spesso cruenti e le maternità spesso indesiderate. Poi l' internamento. Otsuka conosce questa realtà per resoconti familiari: suo nonno fu arrestato come sospetto di spionaggio; sua nonna, sua madre e sua zia passarono tre anni in un campo di concentramento nello Utah. La brutalità ci investe a metà romanzo, quando ci siamo affezionati all' esercito muliebre, alla loro grazia inafferrabile, alle loro meticolose confessioni. Di queste giapponesi ormai sappiamo molto. Le abbiamo sentite respirare tra incombenze e desideri.
L'intreccio delle loro voci ci ha cullato in una melodia di affetti, fantasie, dolori e sottomissioni allo straniero. Ed è qui che Otsuka, spietata, infierisce sul lettore. Quando ce le sottraggono per condurle nei "centri di raccolta" (simili ai luoghi in cui si convogliano le odierne folle di clandestini che sbarcano disperatamente sulle coste italiane); quando vengono umiliate nei cosiddetti "posti sicuri"; quando scompare la delicatezza del loro passo sulla nostra terra, la commozione, per chi legge, è uno sbocco inevitabile. Pochi altri romanzi hanno affrontato con altrettanta cruda lucentezza temi difficili e abusati come l' immigrazione e il razzismo. E forse nessuno ha saputo farlo dalla parte delle donne in modo tanto perturbante e originale.
Per leggere le prime pagine del Volume basta clikkare Qui
Fonti Consultate:
Biblioteca Giapponese
Repubblica.it
p.s. Il link nell'articolo non funziona, per leggere le prime pagine andate a http://www.illibraio.it/generi/letteratura/venivamo_tutte_per_mare_9788833922751.php
@Ren
Non avevo mai valutato prima d'ora un libro dal rapporto Euro x Pagine. Interessante.
@Ren da quando 143 pagine per te equivalgono a 10??
La matematica nn è un'opinione?
Cmq grazie per il link dell'anteprima;
Però l'anteprima on-line non è visibile...
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