Venerdì 31 ottobre, nell'ambito di Lucca Comics & Games 2014, AnimeClick.it ha avuto il piacere di ospitare Paolo La Marca (Università di Catania), che, assieme a Fabio 'Kyon' Palumbo della nostra redazione, ha intrattenuto il pubblico convenuto presso la sala incontri della Cappella Guinigi relazionando sul tema “Alle origini dello shōjo manga: un viaggio a ritroso, tra stilemi narrativi e iconografia”.
Lo shōjo manga è il fumetto giapponese rivolto prevalentemente (ma non esclusivamente) a ragazze pre-adolescenti, adolescenti e giovanissime. Il manga rivolto a giovani donne è invece noto come josei. È in genere serializzato su riviste specializzate; in origine le riviste erano dei contenitori non solo fumettistici, ma in seguito il manga prevalse sulle rubriche e i racconti. Antesignano dello shōjo fu proprio il romanzo illustrato, da cui mutuò in parte lo stile. La serialità episodica e il pathos narrativo lo rendono consono alla trasposizione in drama televisivi.
Contenuti dello shōjo: della donna e dell’amore
Lo shōjo manga mette a fuoco in via preferenziale il vissuto psicologico ed emotivo dei personaggi, incentrandosi sulle vicende sentimentali e private di questi ultimi. Al centro della storia vi è solitamente una figura femminile, la cui caratterizzazione è in parte legata agli stilemi tradizionali della letteratura di consumo e all’immagine della donna nella società nipponica, ma per altri versi si discosta da essi, proponendo nuovi modelli di ruolo, più poliedrici e sfaccettati rispetto allo stereotipo di genere.
Il plot tipico dello shōjo presenta una storia d’amore, la cui ambientazione (e declinazione) varia a seconda dello ‘spirito del tempo’, delle mode, del pubblico elettivo, delle scelte autoriali. La varietà dello shōjo in questo senso rispecchia quella del manga nel suo complesso. Così, a rappresentazioni esotiche dell’amore si succedono contesti più quotidiani, mentre visioni platoniche del sentimento fanno altrove posto a descrizioni più sensuali e realistiche.
Contesti dello shōjo: identificazioni lontane
Il canovaccio dello shōjo ha attinto per lungo tempo (e tuttora non disdegna di farlo) alla tradizione della fiaba classica europea, prospettando alle giovani lettrici possibilità di immedesimazione lontane nel tempo e nello spazio rispetto alle difficoltà del quotidiano e del contingente.
L’archetipo in questo senso è la Zaffiro di Tezuka, ma anche la Anmitsu-hime di Shōsuke Kurakane. Anmitsu-hime, opera originale del 1949, beneficiò di un restyling nel 1986 con design di Izumi Takemoto (vedi supra); la storia nello specifico offriva una visione di agiatezza zuccherina alle figlie delle privazioni del dopoguerra, nonché la cauta proiezione di una certa voglia di irriverenza e di vita fuori dagli schemi legata all’assimilazione culturale post-bellica. Con ben altra carica ‘provocatoria’, l’esotismo, spesso un’ambientazione fin de siècle romantica e/o decadente, si ritrova nei manga anni ’70 del Gruppo 24. Altra fortunata variante dello shōjo è quella che ripropone, seppur spesso in contesti occidentali, la virtù classica della temperanza (gaman): la «via femminile del combattimento» enfatizza, almeno in una certa produzione, la perseveranza contro il destino oltraggioso (si pensi alla Candy Candy della Yumiko Igarashi). I toni melodrammatici e il taglio à la Brönte testimoniano una certa oscillazione tra rivendicazioni ‘femministe’ e conformismo latente nello shōjo degli anni ‘70-’80 e non solo.
Contesti dello shōjo: storie del vicinato
Verso la fine degli anni ’70 il Giappone riscopre sé stesso e si rappropria di un’identità a lungo negata e in un certo senso perduta dopo la tragedia della guerra e il trauma della sconfitta. Al gusto mélo e all’escapismo verso destinazioni più o meno remote si sostituisce una riscoperta dello stile piano e minuto del quotidiano, della realtà scolastica e familiare. Lo shōjo si siede sui banchi di scuola accanto alle proprie lettrici, e ne esplora il vissuto, i rapporti umani e le vicende sentimentali. Se lo spirito di fondo dello shōjo viene mantenuto, cambiano i toni e la ‘geografia’ delle storie.
Il mondo frivolo e lezioso delle produzioni anni ’60 come Suteki na Koora di Hideko Mizuno, love comedy di stampo quasi hollywoodiano ambientata tra Parigi e New York, lascia il posto a vicende ispirate alla società giapponese contemporanea. Se anche le opere più recenti risultano spesso filtrate da una vena sentimentale dal tenue sapore di feuilleton, ciò che possono perdere in realismo lo guadagnano nella resa delle emozioni, più espressiva che teatrale, e nella capacità di identificazione proiettiva offerta alle lettrici (e ai lettori).
Canoni estetici dello shōjo: mondi fluttuanti e suggestioni déco
I precursori stilistici dello shōjo manga sono da rintracciarsi sia nella tradizione autoctona che nell’arte e nel gusto occidentali. Per quanto riguarda i primi, si segnala senz’altro la xilografia giapponese ukiyo-e (le immagini del mondo fluttuante) e, andando ancor più a ritroso, le pitture a rotolo decorative dei monologhi di Ise e Genji [Schodt, 1983]. La giustapposizione delle scene, il montaggio e l’impostazione del segno sono prettamente nipponici.
D’altro canto, gli antesignani grafici ed estetici di derivazione occidentale sono molteplici e non meno decisivi: Art Déco, stile Liberty, l’Art Nouveau (le CLAMP e le litografie di Mucha hanno molto in comune), iconografia pittorica e grafica del dandismo francese e inglese fin de siècle, illustrazione fiabesca di Sir Arthur Packman e Sir John Tenniel (Alice in Wonderland), i bozzetti per costumi di scena di Léon Bakst, direttore artistico dei Ballets Russes [Amitrano, 1990].
Ma non solo: l’estetica del kawaii consustanziale allo shōjo effettua un doppio movimento. Appropriazione culturale dell’elemento disneyano (gli occhi à la Bambi di Tezuka, veri specchi dell’anima) e ‘giapponesizzazione’ dello stile ‘grazioso’: l’iki (l’ideale tradizionale di grazia secondo Kuki Shūzo) diventa kawaii, conservando la dolcezza (amami) e rendendola vistosa (hade).
Canoni estetici dello shōjo: esprimere il piacere
Il legame tra bellezza e femminilità è centrale nello shōjo, tanto che sfogliare un tankōbon della Yazawa (Nana, Paradise Kiss) può essere un’esperienza assimilabile alla lettura di Vogue. E che dire delle suggestioni retrò? Tra le tavole si aggirano ‘ragazze alla moda’, capaci di interpretare al meglio i canoni cangianti del bello. È una bellezza onnicomprensiva, assoluta. Il kawaii è l’esplosione di un piacere femminile ed infantile, insieme innocente e seduttivo. La nuova femminilità proposta dallo shōjo fa il paio con un ideale di emancipazione, messo in scena attraverso la forma di espressione artistica del manga, insieme colta e popolare. Il kawaii interpreta l’aspirazione alla liberazione (gedatsu) dalle rigide convenzioni sociali attraverso il godimento del bello [Pellitteri, 2008]. I confini diventano labili, anche quelli tra generi, e la fluidità femminina invade la rigidità maschile, diventando androginia: il teatro e l’arte della dissimulazione danno vita al Takarazuka, a Versailles no Bara, a un ideale estetico superiore che si fa beffa delle distinzioni di genere e le attraversa provocatoriamente. Da questa costola transgender dello shōjo nasce lo shonen-ai. Tuttavia, la gioia della diversità (johin), la distinzione propria della bellezza graziosa, finisce spesso per essere riassorbita nel modello tradizionale: le attrici del Takarazuka diventano spose ambite. La ribellione è anche strumento d’integrazione.
Canoni estetici dello shōjo: espressione ed allusione
Le discriminanti grafiche dello shōjo sono in parte note al pubblico più generale dei lettori di manga, proprio per il loro carattere ‘vistoso’ ed espressivo, più o meno evidente nelle diverse autrici/autori. Meno conosciuto è forse quanto vi è invece di allusivo e indiretto nelle tavole, montate sapientemente e in molti casi con una regia di ispirazione cinematografica.
Stile sfarzoso accentuato da cornici floreali; personaggi in primo piano debordanti rispetto alla tavola per evidenziarne la centralità, e del personaggio messo a fuoco il volto, e del volto enfatizzati gli occhi, attraverso giochi di luce e ciglia folte, capelli fluenti, silhouette sottili, quasi eteree. Fin qui le fanciulle di Osamu Tezuka e di Makoto Takahashi. Quando lo shōjo passa in mano alle donne, la grazia esteriore si fa meno statica e più cinematografica, segnata da un vezzo grafico di estrema eleganza. Si pensi a Maki Miyako, il cui stile risente anche della pittura in ‘stile giapponese’ degli inizi del Novecento.
Per contro, l’elemento ambientale e lo sfondo viene sostituito ed eclissato, ridotto a pochi tratti, privato del realismo per diventare esso stesso espressivo, arricchito da elementi ornamentali minimalisti (foglie al vento) o tripudî floreali (piogge di petali). Sono vere e proprie tavole emozionali.
Evoluzione storica dello shōjo: la rivoluzione del Gruppo 24
Nella storia dello shōjo individuiamo senz’altro dei momenti di svolta, ‘passaggi epocali’ nell’evoluzione stilistica e di contenuti. Quello decisivo fu senz’altro segnato dalla produzione del Gruppo 24 (Hana no 24nen gumi), un manipolo di autrici nate intorno all’anno 24 dell’era Shōwa (1949), tra cui si annoverano Moto Hagio (Thomas no Shinzō), Yumiko Oshima (Gū-Gū Datte Neko de Aru), Keiko Takemiya (Kaze to ki no uta) e Riyoko Ikeda (Versailles no Bara). Le loro opere sono spesso ambientate in contesti esotici, magari un’affascinante e decadente Europa fin de siècle, all’interno di esclusivi collegi frequentati da delicati efebi, giovani coinvolti in amori totalizzanti e lascivi. Di converso i personaggi femminili delle loro opere sono caratterizzati secondo canoni trasgressivi rispetto all’identità tradizionale nipponica, di qui la necessità di uno ‘straniamento’ geografico e storico.
I personaggi maschili, dalla bellezza femminea, divengono invece potenti strumenti ‘proiettivi’, fornendo possibilità di immedesimazioni filtrate da una labile differenza di genere o di esperire nell’immaginario dimensioni dell’amore e della sessualità difficilmente attingibili in una realtà contrassegnata da sentimenti coartati e forti pressioni sociali.
Evoluzione storica dello shōjo: ritorno al passato
La tendenza all’esotimo si trova però a venire bilanciata da una riscoperta della tradizionale culturale e letteraria nipponica, che trova ampio spazio nel manga shōjo e josei. Un discorso molto ampio meriterebbe Asaki yumemishi (Non farò sogni effimeri) di Waki Yamato. Il superbo stile, la seraficità dei volti, effeminati, eleganti, malinconici, la vividezza delle capigliature, l’espressività dei gesti, l’atmosfera oniricamente raffinata della corte Fujiwara, sono la cifra di una rilettura lirica e vibrante del Genji Monogatari di Murasaki Shikibu, primo esempio di romanzo psicologico e capolavoro della letteratura giapponese dell’XI secolo.
Restando alla Yamato, la rivisitazione del passato si attesta anche su epoche meno remote, come in Haikarasan-ga Tōru (lett. Passa una ragazza alla moda), la cui protagonista, entusiasticamente sopra le righe, è una rivoluzionaria del costume del periodo Taisho (1912-1926), ribelle e anticonformista sia nei sentimenti che nelle scelte professionali.
Evoluzione storica dello shōjo: tenerezza e sensualità
Il modello di femminilità che si fa avanti attraverso le molteplici sfaccettature dello shōjo manga non può essere ridotto a un’unica istanza. La varietà autoriale e tra le opere riflette la differenza di gusti e il rapido avvicendarsi dei fenomeni di costume e degli orientamenti sociali. Un valore comune permane: una concezione romantica e passionale dell’amore, in cui il ren’ai (l’Eros come commistione di koi e ai) trova piena espressione, sia in contesti più platonici e sentimentali, come in Karuho Shiina (Kimi ni Todoke), sia attraverso sfumature più passionali e drammatiche (si pensi a Bokura ga ita della Obata o Sunadokei della Ashihara), arrivando così a fondersi per target e tematiche con il manga josei pubblicato su riviste come Flowers.
Nell’assunzione di ruoli e di maschere, non si può dimenticare la variante della bishōjo senshi (Sailor Moon), della mahou shōjo (Card Captor Sakura), della kaitō (Kaitō Saint Tail), in cui si fa strada una ‘femminilità combattente’ [Di Fratta, 2005]. L’azione audace e aggraziata, la conciliazione tra lotta e amore, tra poteri e tenerezza, fa da sfondo a queste storie.
Non solo shōjo
Lo shōjo è storicamente l’incubatrice per sottogeneri o macrogeneri, e i suoi confini risultano spesso incerti. Un caso interessante è quello dello shonen-ai, portato alla sua massima espressione dalle autrici del Gruppo 24. La rappresentazione dell’amore sviluppata in opere complesse e perturbanti come Thomas no Shinzō mette implicitamente in discussione il sistema tradizionale della coppia, basato spesso su matrimoni combinati (omiai) e unioni gerarchicamente sbilanciate (l’ideale retrivo della ryōsai kenbō). Le storie manga d’amore omoerotico si pongono accanto ai movimenti femministi e dei collettivi omosessuali dei paesi occidentali. Questi drammi sentimentali di raffinata decadenza, che vedono protagonisti giovani efebici di un’immaginaria Europa centrale, si pongono in doppia antitesi rispetto al maschilismo imperante nella società giapponese: contro l’istituzione scolastica e contro la sessualità contrastata. Al contrario, viene proposto un ideale di amore assoluto (zetsu ai), libero dai vincoli e dalle contingenze della riproduzione e della prole [Scrivo, 2009], sottratto alla natura e alla società e restituito all’Eros dei due amanti.
Più in generale, tematiche relazionali (di coppia, amicali e familiari) più complesse trovano una collocazione privilegiata nello shōjo e nei suoi ‘affini’.
II. Intervento del prof. La Marca: i primordi dello shōjo
Chi è una “shōjo”?
Cosa significa essere una shōjo?
Per scoprirlo, andiamo a ritroso rispetto al noto periodo seminale degli anni '50 e ancor più rispetto all'apice della resa artistica negli anni '70. Di seguito una linea del tempo che restituisce il senso cronologico di questo percorso. La freccia diretta a sinistra indica invece il periodo di tempo in cui si collocano le origini dello shōjo manga.
Vengono evidenziati nella relazione gli aspetti più rilevanti nella rappresentazione grafica della shōjo, rintracciabili attraverso l'opera di Takehisa Yumeiji (1884-1934),
e quella di Nakahara Jun’ichi (1913-1983):
Sono successivamente tracciati i tratti più rilevanti della natura comportamentale della shōjo (desunta attraverso l'analisi di riviste e narrativa).
Ma cosa significa letteralmente il termine “shōjo”?
Shōjo 少女
Analizzando i due sinogrammi ritroviamo:
少 = “piccolo/a”
女 = “donna”
Dunque le definizioni proposte sono:
1.“Giovane ragazza”, “ragazzina”, ma anche “bambina”, “bimba”, “fanciulla”;
2. Secondo il Ritsuryōsei (Codice Ritsuryō), “ragazza/fanciulla tra i 4 e i 16 anni”;
3. Termine umile per definire una “ragazza, fanciulla, bambina”.
Il lemma risale alla fine del XIX secolo. Esso rimarca la dicotomia shōnen – shōjo, e riflette la revisione del sistema educativo e scolastico nipponico operata attraverso il Chūtōgakkōrei (1887) e il Kōtōgakkōrei (1899). Per quanto concerne le fanciulle, l'ideale cui esse erano indirizzate era quello della ryōsai kenbo (brava moglie, saggia madre).
Quali sono le caratteristiche dell'iconografia della shōjo? Elegante, sessualmente immatura, restia al lavoro e allo sforzo fisico, immersa in un mondo di letture e svaghi (pittura, giochi di carte), dall'incarnato pallido.
Vediamo la descrizione stereotipica che ne fa Numata Rippō, primo editore capo della pioneristica rivista per ragazze Shōjo Kai (1903-1912)
“Far finta di leggere un libro che non potrai mai comprendere, far finta di conoscere ciò che in realtà non conosci, far finta di essere un’adulta quando non lo sei. Ecco cosa non dovresti fare. Questi atteggiamenti sono disdicevoli e ridicoli, piuttosto che amabili e apprezzati (…) Tu, shōjo, non devi essere né bambina né adulta. Devi essere amata per la tua gentilezza, innocenza e moralità”.
La cifra stilistica è quella dello jojō-ga (抒情画, disegno sentimentalmente espressivo). In questo senso si inseriscono Yoshiya Nobuko e lo shōjo shōsetsu (romanzi per fanciulle).
Sono stati infine presentati alcuni tra i primissimi shōjo manga del dopoguerra: Nakachan Yocchan (1948) di Minami Yoshirō, Miko-chan (1954) di Shiota Eiji, Hiyoko-chan (1951) di Iwata Hiyoko, Nakayoshi techō (1940-51) di Hasegawa Machiko e il già citato Anmitsu-hime (1949-1955) di Kurakane Shōsuke.
Animeclick.it ringrazia ancora il prof. La Marca per la gentile collaborazione e la consulenza.
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I. Introduzione di Fabio 'キョン' PalumboLo shōjo manga è il fumetto giapponese rivolto prevalentemente (ma non esclusivamente) a ragazze pre-adolescenti, adolescenti e giovanissime. Il manga rivolto a giovani donne è invece noto come josei. È in genere serializzato su riviste specializzate; in origine le riviste erano dei contenitori non solo fumettistici, ma in seguito il manga prevalse sulle rubriche e i racconti. Antesignano dello shōjo fu proprio il romanzo illustrato, da cui mutuò in parte lo stile. La serialità episodica e il pathos narrativo lo rendono consono alla trasposizione in drama televisivi.
Contenuti dello shōjo: della donna e dell’amore
Lo shōjo manga mette a fuoco in via preferenziale il vissuto psicologico ed emotivo dei personaggi, incentrandosi sulle vicende sentimentali e private di questi ultimi. Al centro della storia vi è solitamente una figura femminile, la cui caratterizzazione è in parte legata agli stilemi tradizionali della letteratura di consumo e all’immagine della donna nella società nipponica, ma per altri versi si discosta da essi, proponendo nuovi modelli di ruolo, più poliedrici e sfaccettati rispetto allo stereotipo di genere.
Il plot tipico dello shōjo presenta una storia d’amore, la cui ambientazione (e declinazione) varia a seconda dello ‘spirito del tempo’, delle mode, del pubblico elettivo, delle scelte autoriali. La varietà dello shōjo in questo senso rispecchia quella del manga nel suo complesso. Così, a rappresentazioni esotiche dell’amore si succedono contesti più quotidiani, mentre visioni platoniche del sentimento fanno altrove posto a descrizioni più sensuali e realistiche.
Contesti dello shōjo: identificazioni lontane
Il canovaccio dello shōjo ha attinto per lungo tempo (e tuttora non disdegna di farlo) alla tradizione della fiaba classica europea, prospettando alle giovani lettrici possibilità di immedesimazione lontane nel tempo e nello spazio rispetto alle difficoltà del quotidiano e del contingente.
L’archetipo in questo senso è la Zaffiro di Tezuka, ma anche la Anmitsu-hime di Shōsuke Kurakane. Anmitsu-hime, opera originale del 1949, beneficiò di un restyling nel 1986 con design di Izumi Takemoto (vedi supra); la storia nello specifico offriva una visione di agiatezza zuccherina alle figlie delle privazioni del dopoguerra, nonché la cauta proiezione di una certa voglia di irriverenza e di vita fuori dagli schemi legata all’assimilazione culturale post-bellica. Con ben altra carica ‘provocatoria’, l’esotismo, spesso un’ambientazione fin de siècle romantica e/o decadente, si ritrova nei manga anni ’70 del Gruppo 24. Altra fortunata variante dello shōjo è quella che ripropone, seppur spesso in contesti occidentali, la virtù classica della temperanza (gaman): la «via femminile del combattimento» enfatizza, almeno in una certa produzione, la perseveranza contro il destino oltraggioso (si pensi alla Candy Candy della Yumiko Igarashi). I toni melodrammatici e il taglio à la Brönte testimoniano una certa oscillazione tra rivendicazioni ‘femministe’ e conformismo latente nello shōjo degli anni ‘70-’80 e non solo.
Contesti dello shōjo: storie del vicinato
Verso la fine degli anni ’70 il Giappone riscopre sé stesso e si rappropria di un’identità a lungo negata e in un certo senso perduta dopo la tragedia della guerra e il trauma della sconfitta. Al gusto mélo e all’escapismo verso destinazioni più o meno remote si sostituisce una riscoperta dello stile piano e minuto del quotidiano, della realtà scolastica e familiare. Lo shōjo si siede sui banchi di scuola accanto alle proprie lettrici, e ne esplora il vissuto, i rapporti umani e le vicende sentimentali. Se lo spirito di fondo dello shōjo viene mantenuto, cambiano i toni e la ‘geografia’ delle storie.
Il mondo frivolo e lezioso delle produzioni anni ’60 come Suteki na Koora di Hideko Mizuno, love comedy di stampo quasi hollywoodiano ambientata tra Parigi e New York, lascia il posto a vicende ispirate alla società giapponese contemporanea. Se anche le opere più recenti risultano spesso filtrate da una vena sentimentale dal tenue sapore di feuilleton, ciò che possono perdere in realismo lo guadagnano nella resa delle emozioni, più espressiva che teatrale, e nella capacità di identificazione proiettiva offerta alle lettrici (e ai lettori).
Canoni estetici dello shōjo: mondi fluttuanti e suggestioni déco
I precursori stilistici dello shōjo manga sono da rintracciarsi sia nella tradizione autoctona che nell’arte e nel gusto occidentali. Per quanto riguarda i primi, si segnala senz’altro la xilografia giapponese ukiyo-e (le immagini del mondo fluttuante) e, andando ancor più a ritroso, le pitture a rotolo decorative dei monologhi di Ise e Genji [Schodt, 1983]. La giustapposizione delle scene, il montaggio e l’impostazione del segno sono prettamente nipponici.
D’altro canto, gli antesignani grafici ed estetici di derivazione occidentale sono molteplici e non meno decisivi: Art Déco, stile Liberty, l’Art Nouveau (le CLAMP e le litografie di Mucha hanno molto in comune), iconografia pittorica e grafica del dandismo francese e inglese fin de siècle, illustrazione fiabesca di Sir Arthur Packman e Sir John Tenniel (Alice in Wonderland), i bozzetti per costumi di scena di Léon Bakst, direttore artistico dei Ballets Russes [Amitrano, 1990].
Ma non solo: l’estetica del kawaii consustanziale allo shōjo effettua un doppio movimento. Appropriazione culturale dell’elemento disneyano (gli occhi à la Bambi di Tezuka, veri specchi dell’anima) e ‘giapponesizzazione’ dello stile ‘grazioso’: l’iki (l’ideale tradizionale di grazia secondo Kuki Shūzo) diventa kawaii, conservando la dolcezza (amami) e rendendola vistosa (hade).
Canoni estetici dello shōjo: esprimere il piacere
Il legame tra bellezza e femminilità è centrale nello shōjo, tanto che sfogliare un tankōbon della Yazawa (Nana, Paradise Kiss) può essere un’esperienza assimilabile alla lettura di Vogue. E che dire delle suggestioni retrò? Tra le tavole si aggirano ‘ragazze alla moda’, capaci di interpretare al meglio i canoni cangianti del bello. È una bellezza onnicomprensiva, assoluta. Il kawaii è l’esplosione di un piacere femminile ed infantile, insieme innocente e seduttivo. La nuova femminilità proposta dallo shōjo fa il paio con un ideale di emancipazione, messo in scena attraverso la forma di espressione artistica del manga, insieme colta e popolare. Il kawaii interpreta l’aspirazione alla liberazione (gedatsu) dalle rigide convenzioni sociali attraverso il godimento del bello [Pellitteri, 2008]. I confini diventano labili, anche quelli tra generi, e la fluidità femminina invade la rigidità maschile, diventando androginia: il teatro e l’arte della dissimulazione danno vita al Takarazuka, a Versailles no Bara, a un ideale estetico superiore che si fa beffa delle distinzioni di genere e le attraversa provocatoriamente. Da questa costola transgender dello shōjo nasce lo shonen-ai. Tuttavia, la gioia della diversità (johin), la distinzione propria della bellezza graziosa, finisce spesso per essere riassorbita nel modello tradizionale: le attrici del Takarazuka diventano spose ambite. La ribellione è anche strumento d’integrazione.
Canoni estetici dello shōjo: espressione ed allusione
Le discriminanti grafiche dello shōjo sono in parte note al pubblico più generale dei lettori di manga, proprio per il loro carattere ‘vistoso’ ed espressivo, più o meno evidente nelle diverse autrici/autori. Meno conosciuto è forse quanto vi è invece di allusivo e indiretto nelle tavole, montate sapientemente e in molti casi con una regia di ispirazione cinematografica.
Stile sfarzoso accentuato da cornici floreali; personaggi in primo piano debordanti rispetto alla tavola per evidenziarne la centralità, e del personaggio messo a fuoco il volto, e del volto enfatizzati gli occhi, attraverso giochi di luce e ciglia folte, capelli fluenti, silhouette sottili, quasi eteree. Fin qui le fanciulle di Osamu Tezuka e di Makoto Takahashi. Quando lo shōjo passa in mano alle donne, la grazia esteriore si fa meno statica e più cinematografica, segnata da un vezzo grafico di estrema eleganza. Si pensi a Maki Miyako, il cui stile risente anche della pittura in ‘stile giapponese’ degli inizi del Novecento.
Per contro, l’elemento ambientale e lo sfondo viene sostituito ed eclissato, ridotto a pochi tratti, privato del realismo per diventare esso stesso espressivo, arricchito da elementi ornamentali minimalisti (foglie al vento) o tripudî floreali (piogge di petali). Sono vere e proprie tavole emozionali.
Evoluzione storica dello shōjo: la rivoluzione del Gruppo 24
Nella storia dello shōjo individuiamo senz’altro dei momenti di svolta, ‘passaggi epocali’ nell’evoluzione stilistica e di contenuti. Quello decisivo fu senz’altro segnato dalla produzione del Gruppo 24 (Hana no 24nen gumi), un manipolo di autrici nate intorno all’anno 24 dell’era Shōwa (1949), tra cui si annoverano Moto Hagio (Thomas no Shinzō), Yumiko Oshima (Gū-Gū Datte Neko de Aru), Keiko Takemiya (Kaze to ki no uta) e Riyoko Ikeda (Versailles no Bara). Le loro opere sono spesso ambientate in contesti esotici, magari un’affascinante e decadente Europa fin de siècle, all’interno di esclusivi collegi frequentati da delicati efebi, giovani coinvolti in amori totalizzanti e lascivi. Di converso i personaggi femminili delle loro opere sono caratterizzati secondo canoni trasgressivi rispetto all’identità tradizionale nipponica, di qui la necessità di uno ‘straniamento’ geografico e storico.
I personaggi maschili, dalla bellezza femminea, divengono invece potenti strumenti ‘proiettivi’, fornendo possibilità di immedesimazioni filtrate da una labile differenza di genere o di esperire nell’immaginario dimensioni dell’amore e della sessualità difficilmente attingibili in una realtà contrassegnata da sentimenti coartati e forti pressioni sociali.
Evoluzione storica dello shōjo: ritorno al passato
La tendenza all’esotimo si trova però a venire bilanciata da una riscoperta della tradizionale culturale e letteraria nipponica, che trova ampio spazio nel manga shōjo e josei. Un discorso molto ampio meriterebbe Asaki yumemishi (Non farò sogni effimeri) di Waki Yamato. Il superbo stile, la seraficità dei volti, effeminati, eleganti, malinconici, la vividezza delle capigliature, l’espressività dei gesti, l’atmosfera oniricamente raffinata della corte Fujiwara, sono la cifra di una rilettura lirica e vibrante del Genji Monogatari di Murasaki Shikibu, primo esempio di romanzo psicologico e capolavoro della letteratura giapponese dell’XI secolo.
Restando alla Yamato, la rivisitazione del passato si attesta anche su epoche meno remote, come in Haikarasan-ga Tōru (lett. Passa una ragazza alla moda), la cui protagonista, entusiasticamente sopra le righe, è una rivoluzionaria del costume del periodo Taisho (1912-1926), ribelle e anticonformista sia nei sentimenti che nelle scelte professionali.
Evoluzione storica dello shōjo: tenerezza e sensualità
Il modello di femminilità che si fa avanti attraverso le molteplici sfaccettature dello shōjo manga non può essere ridotto a un’unica istanza. La varietà autoriale e tra le opere riflette la differenza di gusti e il rapido avvicendarsi dei fenomeni di costume e degli orientamenti sociali. Un valore comune permane: una concezione romantica e passionale dell’amore, in cui il ren’ai (l’Eros come commistione di koi e ai) trova piena espressione, sia in contesti più platonici e sentimentali, come in Karuho Shiina (Kimi ni Todoke), sia attraverso sfumature più passionali e drammatiche (si pensi a Bokura ga ita della Obata o Sunadokei della Ashihara), arrivando così a fondersi per target e tematiche con il manga josei pubblicato su riviste come Flowers.
Nell’assunzione di ruoli e di maschere, non si può dimenticare la variante della bishōjo senshi (Sailor Moon), della mahou shōjo (Card Captor Sakura), della kaitō (Kaitō Saint Tail), in cui si fa strada una ‘femminilità combattente’ [Di Fratta, 2005]. L’azione audace e aggraziata, la conciliazione tra lotta e amore, tra poteri e tenerezza, fa da sfondo a queste storie.
Non solo shōjo
Lo shōjo è storicamente l’incubatrice per sottogeneri o macrogeneri, e i suoi confini risultano spesso incerti. Un caso interessante è quello dello shonen-ai, portato alla sua massima espressione dalle autrici del Gruppo 24. La rappresentazione dell’amore sviluppata in opere complesse e perturbanti come Thomas no Shinzō mette implicitamente in discussione il sistema tradizionale della coppia, basato spesso su matrimoni combinati (omiai) e unioni gerarchicamente sbilanciate (l’ideale retrivo della ryōsai kenbō). Le storie manga d’amore omoerotico si pongono accanto ai movimenti femministi e dei collettivi omosessuali dei paesi occidentali. Questi drammi sentimentali di raffinata decadenza, che vedono protagonisti giovani efebici di un’immaginaria Europa centrale, si pongono in doppia antitesi rispetto al maschilismo imperante nella società giapponese: contro l’istituzione scolastica e contro la sessualità contrastata. Al contrario, viene proposto un ideale di amore assoluto (zetsu ai), libero dai vincoli e dalle contingenze della riproduzione e della prole [Scrivo, 2009], sottratto alla natura e alla società e restituito all’Eros dei due amanti.
Più in generale, tematiche relazionali (di coppia, amicali e familiari) più complesse trovano una collocazione privilegiata nello shōjo e nei suoi ‘affini’.
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II. Intervento del prof. La Marca: i primordi dello shōjo
Chi è una “shōjo”?
Cosa significa essere una shōjo?
Per scoprirlo, andiamo a ritroso rispetto al noto periodo seminale degli anni '50 e ancor più rispetto all'apice della resa artistica negli anni '70. Di seguito una linea del tempo che restituisce il senso cronologico di questo percorso. La freccia diretta a sinistra indica invece il periodo di tempo in cui si collocano le origini dello shōjo manga.
Vengono evidenziati nella relazione gli aspetti più rilevanti nella rappresentazione grafica della shōjo, rintracciabili attraverso l'opera di Takehisa Yumeiji (1884-1934),
e quella di Nakahara Jun’ichi (1913-1983):
Sono successivamente tracciati i tratti più rilevanti della natura comportamentale della shōjo (desunta attraverso l'analisi di riviste e narrativa).
Ma cosa significa letteralmente il termine “shōjo”?
Shōjo 少女
Analizzando i due sinogrammi ritroviamo:
少 = “piccolo/a”
女 = “donna”
Dunque le definizioni proposte sono:
1.“Giovane ragazza”, “ragazzina”, ma anche “bambina”, “bimba”, “fanciulla”;
2. Secondo il Ritsuryōsei (Codice Ritsuryō), “ragazza/fanciulla tra i 4 e i 16 anni”;
3. Termine umile per definire una “ragazza, fanciulla, bambina”.
Il lemma risale alla fine del XIX secolo. Esso rimarca la dicotomia shōnen – shōjo, e riflette la revisione del sistema educativo e scolastico nipponico operata attraverso il Chūtōgakkōrei (1887) e il Kōtōgakkōrei (1899). Per quanto concerne le fanciulle, l'ideale cui esse erano indirizzate era quello della ryōsai kenbo (brava moglie, saggia madre).
Quali sono le caratteristiche dell'iconografia della shōjo? Elegante, sessualmente immatura, restia al lavoro e allo sforzo fisico, immersa in un mondo di letture e svaghi (pittura, giochi di carte), dall'incarnato pallido.
Vediamo la descrizione stereotipica che ne fa Numata Rippō, primo editore capo della pioneristica rivista per ragazze Shōjo Kai (1903-1912)
“Far finta di leggere un libro che non potrai mai comprendere, far finta di conoscere ciò che in realtà non conosci, far finta di essere un’adulta quando non lo sei. Ecco cosa non dovresti fare. Questi atteggiamenti sono disdicevoli e ridicoli, piuttosto che amabili e apprezzati (…) Tu, shōjo, non devi essere né bambina né adulta. Devi essere amata per la tua gentilezza, innocenza e moralità”.
La cifra stilistica è quella dello jojō-ga (抒情画, disegno sentimentalmente espressivo). In questo senso si inseriscono Yoshiya Nobuko e lo shōjo shōsetsu (romanzi per fanciulle).
Sono stati infine presentati alcuni tra i primissimi shōjo manga del dopoguerra: Nakachan Yocchan (1948) di Minami Yoshirō, Miko-chan (1954) di Shiota Eiji, Hiyoko-chan (1951) di Iwata Hiyoko, Nakayoshi techō (1940-51) di Hasegawa Machiko e il già citato Anmitsu-hime (1949-1955) di Kurakane Shōsuke.
Animeclick.it ringrazia ancora il prof. La Marca per la gentile collaborazione e la consulenza.
>>>Scarica qui il PowerPoint della prima parte della conferenza<<<
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Bella, se pubblicate il video ancora meglio
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