I ragazzi che hanno vissuto fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 hanno in qualche modo subito una forte invasione mediatica che ha donato loro numerose opere di una fantascienza pop, ricca di contaminazioni e di idee innovative. Film e telefilm di enorme successo provenienti dagli Stati Uniti si incontravano con le serie a cartoni animati giapponesi, popolate di razze aliene, mostri giganti, scienziati e invincibili eroi che pilotavano enormi e potenti robot.
Cosa comportò l'invasione di questi prodotti esteri per il fumetto popolare, allora un forte mezzo d'intrattenimento per i ragazzi del nostro paese?
Ce lo racconta il fumettista Alberico Motta nel suo Big Robot, di cui Kappalab ha recentemente ristampato in due volumi il primo ciclo di storie a fumetti, la "saga di Orkus".
L'opera è stata originariamente pubblicata fra il 1980 e il 1981 dalle Edizioni Bianconi e torna in una nuova edizione ricca di editoriali e con dei ritocchi alle tavole e alla storia (ad esempio, il finale è differente rispetto alla prima pubblicazione).
Quella di Big Robot è una storia che pesca a piene mani dall'immaginario dei cartoni animati giapponesi di genere robotico, in particolare è molto forte il segno lasciato dalle serie di Go Nagai come Goldrake (Grendizer), Mazinga o Jeeg Robot d'Acciaio.
In un mondo devastato da una catastrofe nucleare, l'ultimo avamposto dell'umanità è la Base Union guidata dal comandante Horion. La base ha accolto a sé Alya, una misteriosa bambina aliena che non parla ma è dotata di poteri straordinari e salvifici. Orkus, un'oscura ed enigmatica entità aliena, vuole impedire ad ogni costo che la bimba salvi l'umanità che egli intende soggiogare e perciò, con l'aiuto del suo sottoposto Fuher, attacca ripetutamente la Terra.
Ultima speranza dell'umanità, il gigantesco e invincibile Big Robot, guidato dall'intrepido e giovane eroe Antares.
I debiti che Big Robot ha nei confronti delle serie di Nagai (o, perlomeno, delle loro versioni animate che all'epoca impazzavano sulle tv italiane) sono immediatamente evidenti: dal robot componibile che si assembla ad ogni avventura per andare in battaglia ai (forse non proprio casuali) nomi di stelle e costellazioni dati ai personaggi, passando per la base e il suo burbero comandante, il giovane eroe protagonista, il cattivo mascherato dal carattere tormentato.
Non mancano, tuttavia, anche rimandi alla saga di Guerre Stellari: i buffi robot Luno e Trone che militano alla Base Union sono chiaramente ispirati, per il ruolo e/o il design, ai più celebri C3PO e R2D2; così come il mascherato Fuher, sottoposto di un leader misterioso e inquietante le cui vere fattezze sono sempre celate, sia a lui che al lettore, non può non far pensare a Darth Vader e all'Imperatore Palpatine.
Impossibile, del resto, creare fantascienza in quel periodo senza venire influenzati, anche in minima parte, dalle numerose, indovinatissime, intuizioni che la saga cinematografica di George Lucas aveva creato, facendo scuola in opere provenienti da tutto il mondo.
C'è però, in Big Robot, anche un'anima decisamente più personale, che lo affranca dall'essere soltanto
una sterile copia di cartoni animati e film provenienti da altri paesi, ed è il suo essere una storia a fumetti realizzata in Italia.
Gli elementi della fantascienza, del dramma, della storia a racconti autoconclusivi legati però da una continuità di fondo, si uniscono e si compenetrano con quella che è la scuola fumettistica italiana. Alberico Motta, in precedenza, aveva lavorato a storie prettamente comiche come Geppo, Soldino o Tiramolla. Prese Big Robot come una sfida, assimilando e cercando di far suoi, rendendoli affascinanti e adatti alla dimensione del fumetto italiano, gli elementi tipici dell'animazione nipponica. Ecco, dunque, che, di tanto in tanto, Big Robot ci ricorda il suo appartenere alla scuola italiana, e l'austero e barbuto comandante Horion si trasforma ogni tanto in un personaggio bonario e divertente, più simile ad un Bruto di Braccio di Ferro che ad un'inflessibile e serissimo leader da cartone animato giapponese.
La lettura di Big Robot è un'esperienza molto affascinante, in virtù di questo continuo interscambio di culture e stili diversi che caratterizza il fumetto: a volte è avventuroso, a volte più riflessivo, a volte è spensierato e sognante, a volte toccante e drammatico, a volte è Go Nagai, a volte è Braccio di Ferro, a volte è Guerre Stellari, ma ad ogni pagina non manca di incantare, con una narrazione sempre un po' sognante e misteriosa, ricca di interessanti suggestioni più mature.
I numerosi ed interessantissimi editoriali in chiusura dei volumi ci proiettano con la memoria e con la mente a un mondo di tanti anni fa, raccontandoci di cosa significasse fare fumetti nell'Italia di quel periodo, di cosa ha significato per i fumettisti l'avvento dei grandi robot giapponesi, di come han fatto fronte a questa invasione, di dove finisce il fumettista e inizia l'uomo, e viceversa.
Una di queste postfazioni ci offre una nuova chiave di lettura dell'opera, che si tinge così di interessanti implicazioni religiose, in cui il bene e il male incarnati dalla dolce Alya e dall'impalpabile, oscuro, Orkus, assumono i connotati, misteriosi ed affascinanti, di un Salvatore e di un Male ben noti a noi Italiani...
E' un fumetto molto particolare, Big Robot, la cui esistenza forse si perde nelle pieghe nostalgiche di un tempo ormai lontano, ma che è un piacere (ri)scoprire con occhi più adulti.
E' l'affascinante documento storico di un'epoca, che però riesce ancora oggi ad incantare con interessanti spunti e personaggi meno scontati di quel che sembrano. Quasi si finisce per parteggiare un po' per i cattivi, che acquisiscono sfumature man mano che la vicenda va avanti, e dietro l'ingenuità di alcune storie, dietro la patina da innocuo fumetto per ragazzi, si riesce a percepire più di uno spunto di riflessione.
C'è l'avventura, ci sono le emozioni, c'è la riflessione, c'è il divertimento e, soprattutto, ci sono i sogni, quelli spensierati che caratterizzavano i giochi dei bambini/ragazzi dell'epoca e quelli avveniristici di un autore alle prese con un importante giro di boa per il mondo dell'intrattenimento popolare.
Circa trent'anni dopo, cos'è rimasto di quei sogni? Forse, guardando con un retrogusto un po' dolceamaro alle avventure di questo insolito robot gigante made in Italy potremo ritrovarli e pensarci un po' su, in modo da farne tesoro, chissà...
Cosa comportò l'invasione di questi prodotti esteri per il fumetto popolare, allora un forte mezzo d'intrattenimento per i ragazzi del nostro paese?
Ce lo racconta il fumettista Alberico Motta nel suo Big Robot, di cui Kappalab ha recentemente ristampato in due volumi il primo ciclo di storie a fumetti, la "saga di Orkus".
L'opera è stata originariamente pubblicata fra il 1980 e il 1981 dalle Edizioni Bianconi e torna in una nuova edizione ricca di editoriali e con dei ritocchi alle tavole e alla storia (ad esempio, il finale è differente rispetto alla prima pubblicazione).
Quella di Big Robot è una storia che pesca a piene mani dall'immaginario dei cartoni animati giapponesi di genere robotico, in particolare è molto forte il segno lasciato dalle serie di Go Nagai come Goldrake (Grendizer), Mazinga o Jeeg Robot d'Acciaio.
In un mondo devastato da una catastrofe nucleare, l'ultimo avamposto dell'umanità è la Base Union guidata dal comandante Horion. La base ha accolto a sé Alya, una misteriosa bambina aliena che non parla ma è dotata di poteri straordinari e salvifici. Orkus, un'oscura ed enigmatica entità aliena, vuole impedire ad ogni costo che la bimba salvi l'umanità che egli intende soggiogare e perciò, con l'aiuto del suo sottoposto Fuher, attacca ripetutamente la Terra.
Ultima speranza dell'umanità, il gigantesco e invincibile Big Robot, guidato dall'intrepido e giovane eroe Antares.
I debiti che Big Robot ha nei confronti delle serie di Nagai (o, perlomeno, delle loro versioni animate che all'epoca impazzavano sulle tv italiane) sono immediatamente evidenti: dal robot componibile che si assembla ad ogni avventura per andare in battaglia ai (forse non proprio casuali) nomi di stelle e costellazioni dati ai personaggi, passando per la base e il suo burbero comandante, il giovane eroe protagonista, il cattivo mascherato dal carattere tormentato.
Non mancano, tuttavia, anche rimandi alla saga di Guerre Stellari: i buffi robot Luno e Trone che militano alla Base Union sono chiaramente ispirati, per il ruolo e/o il design, ai più celebri C3PO e R2D2; così come il mascherato Fuher, sottoposto di un leader misterioso e inquietante le cui vere fattezze sono sempre celate, sia a lui che al lettore, non può non far pensare a Darth Vader e all'Imperatore Palpatine.
Impossibile, del resto, creare fantascienza in quel periodo senza venire influenzati, anche in minima parte, dalle numerose, indovinatissime, intuizioni che la saga cinematografica di George Lucas aveva creato, facendo scuola in opere provenienti da tutto il mondo.
C'è però, in Big Robot, anche un'anima decisamente più personale, che lo affranca dall'essere soltanto
una sterile copia di cartoni animati e film provenienti da altri paesi, ed è il suo essere una storia a fumetti realizzata in Italia.
Gli elementi della fantascienza, del dramma, della storia a racconti autoconclusivi legati però da una continuità di fondo, si uniscono e si compenetrano con quella che è la scuola fumettistica italiana. Alberico Motta, in precedenza, aveva lavorato a storie prettamente comiche come Geppo, Soldino o Tiramolla. Prese Big Robot come una sfida, assimilando e cercando di far suoi, rendendoli affascinanti e adatti alla dimensione del fumetto italiano, gli elementi tipici dell'animazione nipponica. Ecco, dunque, che, di tanto in tanto, Big Robot ci ricorda il suo appartenere alla scuola italiana, e l'austero e barbuto comandante Horion si trasforma ogni tanto in un personaggio bonario e divertente, più simile ad un Bruto di Braccio di Ferro che ad un'inflessibile e serissimo leader da cartone animato giapponese.
La lettura di Big Robot è un'esperienza molto affascinante, in virtù di questo continuo interscambio di culture e stili diversi che caratterizza il fumetto: a volte è avventuroso, a volte più riflessivo, a volte è spensierato e sognante, a volte toccante e drammatico, a volte è Go Nagai, a volte è Braccio di Ferro, a volte è Guerre Stellari, ma ad ogni pagina non manca di incantare, con una narrazione sempre un po' sognante e misteriosa, ricca di interessanti suggestioni più mature.
I numerosi ed interessantissimi editoriali in chiusura dei volumi ci proiettano con la memoria e con la mente a un mondo di tanti anni fa, raccontandoci di cosa significasse fare fumetti nell'Italia di quel periodo, di cosa ha significato per i fumettisti l'avvento dei grandi robot giapponesi, di come han fatto fronte a questa invasione, di dove finisce il fumettista e inizia l'uomo, e viceversa.
Una di queste postfazioni ci offre una nuova chiave di lettura dell'opera, che si tinge così di interessanti implicazioni religiose, in cui il bene e il male incarnati dalla dolce Alya e dall'impalpabile, oscuro, Orkus, assumono i connotati, misteriosi ed affascinanti, di un Salvatore e di un Male ben noti a noi Italiani...
E' un fumetto molto particolare, Big Robot, la cui esistenza forse si perde nelle pieghe nostalgiche di un tempo ormai lontano, ma che è un piacere (ri)scoprire con occhi più adulti.
E' l'affascinante documento storico di un'epoca, che però riesce ancora oggi ad incantare con interessanti spunti e personaggi meno scontati di quel che sembrano. Quasi si finisce per parteggiare un po' per i cattivi, che acquisiscono sfumature man mano che la vicenda va avanti, e dietro l'ingenuità di alcune storie, dietro la patina da innocuo fumetto per ragazzi, si riesce a percepire più di uno spunto di riflessione.
C'è l'avventura, ci sono le emozioni, c'è la riflessione, c'è il divertimento e, soprattutto, ci sono i sogni, quelli spensierati che caratterizzavano i giochi dei bambini/ragazzi dell'epoca e quelli avveniristici di un autore alle prese con un importante giro di boa per il mondo dell'intrattenimento popolare.
Circa trent'anni dopo, cos'è rimasto di quei sogni? Forse, guardando con un retrogusto un po' dolceamaro alle avventure di questo insolito robot gigante made in Italy potremo ritrovarli e pensarci un po' su, in modo da farne tesoro, chissà...
Certo, Geppo Soldino e Tiramolla sono molto diversi da questo universo, la transizione dev'essere stata epocale. Spiace che, probabilmente, l'iniziativa non abbia avuto la diffusione, o almeno la persistenza di altri personaggi. Gli altri tre me li ricordo ancora oggi. Big Robot nemmeno sapevo esistesse. E la cosa mi fa sentire un po' in colpa!
Comunque Big Robot era bello e triste. Era riuscito perfettamente a catturare lo spirito dei robottoni dell'epoca, anche piu' di remake giapponesi moderni che vediamo uscire adesso. Tanto di cappello ad Alberico Motta.
PS: Kotaro, e' comandante Orion, non Horion Probabilmente e' un riferimento all'astronave Orion (https://it.wikipedia.org/wiki/Le_fantastiche_avventure_dell%27astronave_Orion)
(una vignetta a caso, ma garantisco che non è un saltuario errore di stampa, c'è in tutti i dialoghi e anche nelle descrizioni dei personaggi scritte dall'autore)
Mi dispiace proprio ;-(
Lo notava anche la redazione di kappa lab, gli avevano parlato la settimana scorsa.
Devi eseguire l'accesso per lasciare un commento.