Theatre of Darkness: Yamishibai 6
«Yami shibai 6» è la sesta parte dei racconti brevi, inquietanti e autoconclusivi a cura dello studio di animazione Ilca, che ha curato anche le serie precedenti.
Un tempo c'era il kamishibai, un'arte narrativa che si diffuse in Giappone nella prima metà del XX secolo; erano i tempi dei grandi cambiamenti e diverse persone si ritrovarono senza un lavoro, riuscendo a inventarselo: con l'aiuto di pochi e semplici mezzi costruiti in legno, quali un palcoscenico in miniatura e delle piccole scenografie, riuscivano a intrattenere i bambini dei villaggi che visitavano. Un'idea semplice e pacifica si è voluto trasformarla in qualcosa di oscuro, adattandola sia nello stile grafico che nella narrazione a una serie anime che racconta dell'inquietudine umana, con l'intento di spaventare lo spettatore, trasmettergli un senso di angoscia, il tutto raccontato in breve tempo, in quanto, escludendo sigla e presentazione, ogni racconto dura meno di quattro minuti.
Questa volta non ci saranno più i bambini a rispondere alla chiamata del narratore e lui stesso si ergerà a sorta di ombra che si materializza e compone per raccontare la storia, idea che da un lato marca il senso di inquietudine che si vuole trasmettere, perdendo però il contatto con l'idea di base.
Per quanto riguarda gli episodi, un notevole lavoro, rispetto alle serie precedenti, è stato fatto sulla psicologia dei personaggi, sul loro modo di agire, su determinate scelte prese o meno e su ciò che non si vede ma si comprende. Considerando questo nuovo aspetto della serie, il nono e l'undicesimo episodio sono dei piccoli capolavori, struggenti e malinconici; anche il primo ha un buon impatto sullo spettatore, giocando molto su una delle paure più comuni.
L'unica ending di questa serie è la canzone "Mayakashi Yokochou", cantata da Aiko Okumura, orecchiabile; segue in questo la precedente, distaccandosi dalle prime più disturbanti.
Consigliato a chi ama le storie horror e a coloro a cui non dispiace la particolare grafica utilizzata.
Un tempo c'era il kamishibai, un'arte narrativa che si diffuse in Giappone nella prima metà del XX secolo; erano i tempi dei grandi cambiamenti e diverse persone si ritrovarono senza un lavoro, riuscendo a inventarselo: con l'aiuto di pochi e semplici mezzi costruiti in legno, quali un palcoscenico in miniatura e delle piccole scenografie, riuscivano a intrattenere i bambini dei villaggi che visitavano. Un'idea semplice e pacifica si è voluto trasformarla in qualcosa di oscuro, adattandola sia nello stile grafico che nella narrazione a una serie anime che racconta dell'inquietudine umana, con l'intento di spaventare lo spettatore, trasmettergli un senso di angoscia, il tutto raccontato in breve tempo, in quanto, escludendo sigla e presentazione, ogni racconto dura meno di quattro minuti.
Questa volta non ci saranno più i bambini a rispondere alla chiamata del narratore e lui stesso si ergerà a sorta di ombra che si materializza e compone per raccontare la storia, idea che da un lato marca il senso di inquietudine che si vuole trasmettere, perdendo però il contatto con l'idea di base.
Per quanto riguarda gli episodi, un notevole lavoro, rispetto alle serie precedenti, è stato fatto sulla psicologia dei personaggi, sul loro modo di agire, su determinate scelte prese o meno e su ciò che non si vede ma si comprende. Considerando questo nuovo aspetto della serie, il nono e l'undicesimo episodio sono dei piccoli capolavori, struggenti e malinconici; anche il primo ha un buon impatto sullo spettatore, giocando molto su una delle paure più comuni.
L'unica ending di questa serie è la canzone "Mayakashi Yokochou", cantata da Aiko Okumura, orecchiabile; segue in questo la precedente, distaccandosi dalle prime più disturbanti.
Consigliato a chi ama le storie horror e a coloro a cui non dispiace la particolare grafica utilizzata.