Japan Sinks: 2020
“Japan Sinks”... e si vede, però qualcosa si salva.
Il genere catastrofico è una sorta di evergreen nell’industria dell’intrattenimento, partendo dai film, passando per videogiochi e arrivando alle animazioni, quindi, leggendo il titolo e guardando i pochi secondi del trailer, si “dovrebbe” già sapere cosa aspettarsi.
La prima cosa che salta all’occhio in questa serie è la bassa qualità del comparto visivo, dato che sia i disegni che le animazioni sono piuttosto scadenti: i movimenti dei personaggi sono goffi e sgraziati; le animazioni poco fluide; i personaggi hanno un design che li rende fastidiosi alla vista; le prospettive spesso sono sbagliate; la CGI è quella che è, anche se in giro c’è di peggio. Dal punto di vista grafico si salvano giusto i fondali e niente di più. L’idea che mi sono fatto è che con il budget adatto a fare un episodio in modo decente ne abbiamo fatti ben dieci, oppure che ci sia stata un po’ di confusione tra la produzione e il resto dello staff: magari la regia aveva capito di avere a disposizione centomila dollari a puntata, mentre la somma era di centomila... yen.
Per quanto riguarda la storia, parliamo del classico viaggio dell’eroe che cerca di mettere in salvo sé stesso e i suoi cari da un mondo in rovina e, declinato in questo contesto, ci troviamo davanti a una sorta di odissea “on the road/on the boat”. Dopo una brevissima introduzione, che copre pochi minuti, i nostri prodi si ritrovano subito nell’occhio del ciclone o, per rimanere in tema, “nell’epicentro” della catastrofe. Se le loro prime reazioni sono perfettamente consone alla situazione in cui si trovano, nell’arco di pochi passaggi alle crepe del terreno si cominciano ad aggiungere quelle della trama, con un effetto così paradossale da divenire comico.
Superato un momento di inevitabile smarrimento da parte di tutti protagonisti, in poco tempo si forma una “compagnia” errante che si muoverà a tentoni in un mondo in rovina. A risaltare, in modo negativo, non sono tanto i comportamenti dei più piccoli, che quantomeno possono beneficiare di alcune attenuanti, ma piuttosto quelli degli adulti, che sembrano dei bambini sotto mentite spoglie: tra foto di gruppo con tanto di “cheese” (stile scolaresca in gita), giri sugli acqua-scivolo (manco fossero a Riccione in pieno agosto), una spintarella in un fiume a chi non sa nuotare (“Prima o poi dovrai imparare”), si cominciano ad avere dei dubbi su che genere di opera abbiamo davanti, e soprattutto se la categoria “disastri naturali” sia quella giusta. Dopo pochi episodi, per farla breve, il voto sarebbe gravemente insufficiente.
Il viaggio dell’allegra compagnia è un tumultuoso vortice di eventi fatto di caccia al cinghiale, slalom tra crepe del terreno e macerie piovute dal cielo, raccolta di patate, rifornimenti di carburante ed espletazione di bisogni fisiologici (dove non necessariamente i primi sono più pericolosi dei secondi). Si assiste poi a un continuo avvicendarsi di personaggi più o meno affidabili, tra cui: una star di “YouTube” (“You are very cool”), un autista “arrapato”, il cugino di “Shaggy”, e soprattutto il “nonnino arciere” (che non è cattivo, ma ha solo un brutto carattere).
Inevitabilmente i nostri eroi saranno costretti a dormire in luoghi di emergenza: in un parco, nel bosco, all’interno di un supermarket... per giungere, infine, nel luogo più strano del Giappone o forse dell’intero pianeta, “Shan City”. Questo posto è un po’ come il Circeo per Ulisse e la sua ciurma, è un luogo dove i nostri eroi verranno accolti amichevolmente e saranno messi nelle condizioni di: fare una doccia (da vestiti); piangere le proprie perdite; sanare vecchi dissapori familiari; rifocillarsi con “erbe” energizzanti; studiare trigonometria; esercitarsi con l’arco e, ovviamente, scattare foto (“cheese”). Ben presto cominceranno ad entrare nelle consuetudini sociali degli ospitanti: assistendo un malato; partecipando a rituali mistici; andando in discoteca; sparando musica orribile dalla console di quella discoteca; sballandosi con la prima sostanza che avranno rimediato... Però, si sa, i rapporti sociali sono complicati, cosi, tra incendi appiccati, tentativi di rapimento, progetti di evasione e dribbling fra le pallottole, sarà inevitabile una separazione per certi versi consensuale. In un ambiente del genere, ovviamente, colui che “tirerà” fuori il meglio di sé non potrà che essere il “nonnino arciere” (il quale dimostrerà di avere davvero un pessimo carattere, ma di contro un’ottima mira). Tra dolorosi addii e nuovi incontri, il viaggio potrà continuare verso una destinazione non più ignota.
Arrivati a questo punto, e ci troviamo intorno al quinto/sesto episodio, il giudizio di tale opera sarebbe tra 8 e 9, a condizione però di inserirla nella giusta categoria, e cioè quella “comico/demenziale”.
Dal settimo episodio si apre la fase successiva o, se volete, la “mini-saga” successiva, quella che io chiamerei “On the boat”. Qui si può percepire tutto il dramma che ha vissuto la produzione, che mette decisamente in secondo piano l’evolversi della storia: a causa di un regista spendaccione, che ha dissipato nella prima parte tutto il lauto budget messogli a disposizione (bruciando banconote da mille yen come se non ci fosse un domani), si evince che ai “piani alti” siano stati costretti a correre ai ripari, facendo qualche taglio e portando il team di sviluppo da tre a due unità.
E così, tra onde alte più o meno come quelle che si sollevano quando ci si butta a bomba in una piscina di venticinque metri, una zattera come set, incontri fortuiti in mezzo al Pacifico (manco fosse la fiera del fumetto di un paesino di mille abitanti), canzoncine rap e un’immancabile foto (“cheese”), la nostra avventura correrà velocemente verso il finale.
La cosa incredibile è che il finale invece ha un senso!
Se moltissimi film, serie, saghe, animazioni, creano tante aspettative all’inizio, ma deludono quando si arriva alla fine, perché ad un certo punto si capisce che nemmeno gli autori sapevano dove andare a parare, in “Japan Sinks: 2020” il soggetto è invece chiaro, diretto e per nulla banale. Gli ultimi minuti sono un omaggio al Giappone contemporaneo, dove non vengono esaltate chissà quali imprese tecnologiche, storiche o agonistiche, ma piuttosto viene messa in primo piano la quotidianità delle persone comuni: il loro cibo, le piazze affollate, le strade trafficate, i cosplayer, le giornate spese accanto alle persone care. Insomma, tutte quelle cose che consideriamo banali, scontate, non degne di nota, ma che potrebbero scomparire improvvisamente a causa di un cataclisma.
Alla fine è come se a una classe di un liceo fosse stato chiesto: “Quali ricordi salveresti se il tuo Paese scomparisse domani?”, “Bene, adesso scrivete una sceneggiatura”. Il problema è che un tema di così grande spessore sembra che sia stato affidato a un gruppo di appassionati di “Disaster Movie”, “B Movie” e “Tarantino”, i quali, dopo un acceso “brainstorming”, hanno selezionato rigorosamente le peggiori nefandezze che passavano nella loro testa.
In conclusione, l’unica cosa che non affonda in “Japan Sinks: 2020” è solo il soggetto, e, con la speranza che qualcuno in futuro provi a riscrivere questo tema, il mio voto per questa realizzazione è 5.
P.S. Ma in Giappone le patate a che profondità stanno?
Il genere catastrofico è una sorta di evergreen nell’industria dell’intrattenimento, partendo dai film, passando per videogiochi e arrivando alle animazioni, quindi, leggendo il titolo e guardando i pochi secondi del trailer, si “dovrebbe” già sapere cosa aspettarsi.
La prima cosa che salta all’occhio in questa serie è la bassa qualità del comparto visivo, dato che sia i disegni che le animazioni sono piuttosto scadenti: i movimenti dei personaggi sono goffi e sgraziati; le animazioni poco fluide; i personaggi hanno un design che li rende fastidiosi alla vista; le prospettive spesso sono sbagliate; la CGI è quella che è, anche se in giro c’è di peggio. Dal punto di vista grafico si salvano giusto i fondali e niente di più. L’idea che mi sono fatto è che con il budget adatto a fare un episodio in modo decente ne abbiamo fatti ben dieci, oppure che ci sia stata un po’ di confusione tra la produzione e il resto dello staff: magari la regia aveva capito di avere a disposizione centomila dollari a puntata, mentre la somma era di centomila... yen.
Per quanto riguarda la storia, parliamo del classico viaggio dell’eroe che cerca di mettere in salvo sé stesso e i suoi cari da un mondo in rovina e, declinato in questo contesto, ci troviamo davanti a una sorta di odissea “on the road/on the boat”. Dopo una brevissima introduzione, che copre pochi minuti, i nostri prodi si ritrovano subito nell’occhio del ciclone o, per rimanere in tema, “nell’epicentro” della catastrofe. Se le loro prime reazioni sono perfettamente consone alla situazione in cui si trovano, nell’arco di pochi passaggi alle crepe del terreno si cominciano ad aggiungere quelle della trama, con un effetto così paradossale da divenire comico.
Superato un momento di inevitabile smarrimento da parte di tutti protagonisti, in poco tempo si forma una “compagnia” errante che si muoverà a tentoni in un mondo in rovina. A risaltare, in modo negativo, non sono tanto i comportamenti dei più piccoli, che quantomeno possono beneficiare di alcune attenuanti, ma piuttosto quelli degli adulti, che sembrano dei bambini sotto mentite spoglie: tra foto di gruppo con tanto di “cheese” (stile scolaresca in gita), giri sugli acqua-scivolo (manco fossero a Riccione in pieno agosto), una spintarella in un fiume a chi non sa nuotare (“Prima o poi dovrai imparare”), si cominciano ad avere dei dubbi su che genere di opera abbiamo davanti, e soprattutto se la categoria “disastri naturali” sia quella giusta. Dopo pochi episodi, per farla breve, il voto sarebbe gravemente insufficiente.
Il viaggio dell’allegra compagnia è un tumultuoso vortice di eventi fatto di caccia al cinghiale, slalom tra crepe del terreno e macerie piovute dal cielo, raccolta di patate, rifornimenti di carburante ed espletazione di bisogni fisiologici (dove non necessariamente i primi sono più pericolosi dei secondi). Si assiste poi a un continuo avvicendarsi di personaggi più o meno affidabili, tra cui: una star di “YouTube” (“You are very cool”), un autista “arrapato”, il cugino di “Shaggy”, e soprattutto il “nonnino arciere” (che non è cattivo, ma ha solo un brutto carattere).
Inevitabilmente i nostri eroi saranno costretti a dormire in luoghi di emergenza: in un parco, nel bosco, all’interno di un supermarket... per giungere, infine, nel luogo più strano del Giappone o forse dell’intero pianeta, “Shan City”. Questo posto è un po’ come il Circeo per Ulisse e la sua ciurma, è un luogo dove i nostri eroi verranno accolti amichevolmente e saranno messi nelle condizioni di: fare una doccia (da vestiti); piangere le proprie perdite; sanare vecchi dissapori familiari; rifocillarsi con “erbe” energizzanti; studiare trigonometria; esercitarsi con l’arco e, ovviamente, scattare foto (“cheese”). Ben presto cominceranno ad entrare nelle consuetudini sociali degli ospitanti: assistendo un malato; partecipando a rituali mistici; andando in discoteca; sparando musica orribile dalla console di quella discoteca; sballandosi con la prima sostanza che avranno rimediato... Però, si sa, i rapporti sociali sono complicati, cosi, tra incendi appiccati, tentativi di rapimento, progetti di evasione e dribbling fra le pallottole, sarà inevitabile una separazione per certi versi consensuale. In un ambiente del genere, ovviamente, colui che “tirerà” fuori il meglio di sé non potrà che essere il “nonnino arciere” (il quale dimostrerà di avere davvero un pessimo carattere, ma di contro un’ottima mira). Tra dolorosi addii e nuovi incontri, il viaggio potrà continuare verso una destinazione non più ignota.
Arrivati a questo punto, e ci troviamo intorno al quinto/sesto episodio, il giudizio di tale opera sarebbe tra 8 e 9, a condizione però di inserirla nella giusta categoria, e cioè quella “comico/demenziale”.
Dal settimo episodio si apre la fase successiva o, se volete, la “mini-saga” successiva, quella che io chiamerei “On the boat”. Qui si può percepire tutto il dramma che ha vissuto la produzione, che mette decisamente in secondo piano l’evolversi della storia: a causa di un regista spendaccione, che ha dissipato nella prima parte tutto il lauto budget messogli a disposizione (bruciando banconote da mille yen come se non ci fosse un domani), si evince che ai “piani alti” siano stati costretti a correre ai ripari, facendo qualche taglio e portando il team di sviluppo da tre a due unità.
E così, tra onde alte più o meno come quelle che si sollevano quando ci si butta a bomba in una piscina di venticinque metri, una zattera come set, incontri fortuiti in mezzo al Pacifico (manco fosse la fiera del fumetto di un paesino di mille abitanti), canzoncine rap e un’immancabile foto (“cheese”), la nostra avventura correrà velocemente verso il finale.
La cosa incredibile è che il finale invece ha un senso!
Se moltissimi film, serie, saghe, animazioni, creano tante aspettative all’inizio, ma deludono quando si arriva alla fine, perché ad un certo punto si capisce che nemmeno gli autori sapevano dove andare a parare, in “Japan Sinks: 2020” il soggetto è invece chiaro, diretto e per nulla banale. Gli ultimi minuti sono un omaggio al Giappone contemporaneo, dove non vengono esaltate chissà quali imprese tecnologiche, storiche o agonistiche, ma piuttosto viene messa in primo piano la quotidianità delle persone comuni: il loro cibo, le piazze affollate, le strade trafficate, i cosplayer, le giornate spese accanto alle persone care. Insomma, tutte quelle cose che consideriamo banali, scontate, non degne di nota, ma che potrebbero scomparire improvvisamente a causa di un cataclisma.
Alla fine è come se a una classe di un liceo fosse stato chiesto: “Quali ricordi salveresti se il tuo Paese scomparisse domani?”, “Bene, adesso scrivete una sceneggiatura”. Il problema è che un tema di così grande spessore sembra che sia stato affidato a un gruppo di appassionati di “Disaster Movie”, “B Movie” e “Tarantino”, i quali, dopo un acceso “brainstorming”, hanno selezionato rigorosamente le peggiori nefandezze che passavano nella loro testa.
In conclusione, l’unica cosa che non affonda in “Japan Sinks: 2020” è solo il soggetto, e, con la speranza che qualcuno in futuro provi a riscrivere questo tema, il mio voto per questa realizzazione è 5.
P.S. Ma in Giappone le patate a che profondità stanno?
Il tutto inizia presentandoci una bellissima atmosfera slice of life, come io adoro. "Già mi piace", ho pensato, pronta a gustarmi un capolavoro. Mai niente di più sbagliato (premetto di essermici buttata senza guardare la critica, per non avere pregiudizi).
Sebbene l'anime parta piuttosto bene, l'esecuzione non mi ha convinta troppo: il Giappone, in seguito a numerosi terremoti, inizia a sprofondare.
Personaggi: non ho empatizzato con nessuno. Il gruppo è formato inizialmente dalla famiglia Muto. Qualcosa mi aveva fatto credere che era la figlia Ayumu ad essere la protagonista, ma in realtà non spicca particolarmente. Il fratellino, Go, è un bambino come tanti, in fissa con YouTube, videogame, e spesso parla in inglese, il che ad un certo punto diventa snervante. Il più interessante è il papà, che sa fare tutto e non si perde d'animo. La madre è fin troppo positiva davanti agli eventi catastrofici a cui andranno incontro, sempre a fare una fotografia, mai a guardarsi alle spalle. Anzi, quasi nessuno si guarda alle spalle, e questo mi ha un po' turbata. Facciamo anche conoscenza di un'amica, di un hikikomori, di uno YouTuber (guarda caso, proprio quello seguito da Go), di un allegro giovanotto, di un vecchietto troppo patriottico e di un paralitico, che si porteranno appresso tutto il tempo.
Ho pensato: "Spero non sarà un'avventura dove in ogni puntata perdiamo un personaggio diverso in modi assurdi...", e purtroppo... anche se non in tutte le puntate è stato così, infatti ad un certo punto provavo fastidio e imbarazzo alle morti dei personaggi, anche perché non venivano celebrate come avrebbero dovuto. Ti piaceva quel personaggio? Bene, d'ora in poi non lo vedrai più e non sentirai più nessuno parlarne, pace.
Da alcuni sguardi strani di Ayumu ho pensato che in realtà fosse lei la causa delle prime morti e che non lo sapesse (tipo seconda personalità o cose del genere, sarebbe stato interessante). No, tempo perso. Ayumu tra l'altro si ferisce nel primo terremoto e, oltre a non curarsi, non lo dice a nessuno. Perché tenerlo nascosto?
Esecuzione: viaggiano, camminano, si scattano fotografie, muoiono, ridono... pian piano il Giappone inizia a sprofondare, regalandoci un senso di oppressione, davvero una sensazione catastrofica. Non sanno dove andare, rimangono isolati da qualsiasi cosa. Una serie che a parte disagio non mi ha regalato nulla, se non qualche incubo di notte. Nonostante io ami e stra-consigli "51 modi per salvarla", manga di Furuya che parla proprio di un ipotetico terremoto, questo non ha avuto lo stesso impatto.
Onestamente non ne consiglio la visione per piacere, forse solo per conoscenza e per affinare la critica.
Alla fine della storia, credo che sia solo un pretesto per dire quanto i Giapponesi amino il Giappone.
Sebbene l'anime parta piuttosto bene, l'esecuzione non mi ha convinta troppo: il Giappone, in seguito a numerosi terremoti, inizia a sprofondare.
Personaggi: non ho empatizzato con nessuno. Il gruppo è formato inizialmente dalla famiglia Muto. Qualcosa mi aveva fatto credere che era la figlia Ayumu ad essere la protagonista, ma in realtà non spicca particolarmente. Il fratellino, Go, è un bambino come tanti, in fissa con YouTube, videogame, e spesso parla in inglese, il che ad un certo punto diventa snervante. Il più interessante è il papà, che sa fare tutto e non si perde d'animo. La madre è fin troppo positiva davanti agli eventi catastrofici a cui andranno incontro, sempre a fare una fotografia, mai a guardarsi alle spalle. Anzi, quasi nessuno si guarda alle spalle, e questo mi ha un po' turbata. Facciamo anche conoscenza di un'amica, di un hikikomori, di uno YouTuber (guarda caso, proprio quello seguito da Go), di un allegro giovanotto, di un vecchietto troppo patriottico e di un paralitico, che si porteranno appresso tutto il tempo.
Ho pensato: "Spero non sarà un'avventura dove in ogni puntata perdiamo un personaggio diverso in modi assurdi...", e purtroppo... anche se non in tutte le puntate è stato così, infatti ad un certo punto provavo fastidio e imbarazzo alle morti dei personaggi, anche perché non venivano celebrate come avrebbero dovuto. Ti piaceva quel personaggio? Bene, d'ora in poi non lo vedrai più e non sentirai più nessuno parlarne, pace.
Da alcuni sguardi strani di Ayumu ho pensato che in realtà fosse lei la causa delle prime morti e che non lo sapesse (tipo seconda personalità o cose del genere, sarebbe stato interessante). No, tempo perso. Ayumu tra l'altro si ferisce nel primo terremoto e, oltre a non curarsi, non lo dice a nessuno. Perché tenerlo nascosto?
Esecuzione: viaggiano, camminano, si scattano fotografie, muoiono, ridono... pian piano il Giappone inizia a sprofondare, regalandoci un senso di oppressione, davvero una sensazione catastrofica. Non sanno dove andare, rimangono isolati da qualsiasi cosa. Una serie che a parte disagio non mi ha regalato nulla, se non qualche incubo di notte. Nonostante io ami e stra-consigli "51 modi per salvarla", manga di Furuya che parla proprio di un ipotetico terremoto, questo non ha avuto lo stesso impatto.
Onestamente non ne consiglio la visione per piacere, forse solo per conoscenza e per affinare la critica.
Alla fine della storia, credo che sia solo un pretesto per dire quanto i Giapponesi amino il Giappone.
La gente, me compreso, chissà poi per quale motivo, ha sempre stravisto per il filone catastrofico fin dagli albori del cinema. Vulcani, terremoti, valanghe e via dicendo. Ciò che più temiamo nella realtà sembra essere quello che più ci piace guardare, sprofondati nel divano sgranocchiando popcorn.
Con "Japan Sinks: 2020" la 'turbomondialista' Netflix e l'iper-estroso Masaaki Yuasa (lo chef director più chiacchierato del momento) fanno leva sulla manifesta paura dei popoli dell'Asia Pacifica verso i distruttivi tsunami che flagellano le coste.
Ho deciso di scrivere questa recensione a scoppio ritardato, dal momento che è stato necessario un rewatching a mente fredda, e con il doppiaggio in italiano. Ci ho messo un bel po' a metabolizzare il tutto, e sono giunto alla conclusione che, in mezzo alla selva di isekai e di progetti crossmediali, rimane un'opera da tenere in seria considerazione, sebbene la qualità grafica - in certuni frangenti - lasci parecchio a desiderare.
Il soggetto è tratto da un romanzo di Sakyo Komatsu, attualizzato ai giorni nostri con il caratteristico tocco e le sequenze (super) flash dell'eminente regista di "Mind Game". Ragazzi alternativi dal linguaggio 'sbalconato', più o meno integrati nella rigida società nipponica, con jeans extra large, magliette di almeno un paio di taglie più grandi del necessario, scarpe da ginnastiche indossate rigorosamente slacciate e cappellini con visiera... il tutto colorato con tinte di tendenza e impreziosito con accessori vistosi, come le lunghe catene con grandi ciondoli che rappresentano una delle icone della moda hip hop. Di fatto, l'eroe assoluto della storia è Kite, uno youtuber di origine estone che si farà in quattro per supportare i suoi amici: costruisce da solo apparecchi aerosportivi motorizzati, si improvvisa chirurgo e addirittura pilota di sommergibile!
In cabina di regia sono ritornati sui loro passi, facendo il consueto uso del grandangolo e della multiplane camera: i risultati sono inquadrature e zoomate a dir poco deliranti. Il responsabile della fotografia, Toshikazu Hisano, spadroneggia con la macchina da presa e si trova a suo agio persino nell'utilizzo di scenari 3D generati al computer. Non male! Ma, come accennato in precedenza, ci sono diverse lacune nel comparto visivo, e non si tratta di cosucce di poco conto ma di incertezze gigantesche, indecorose per uno dallo spiccato aplomb come Yuasa. Talvolta sembra roba fatta fare in fretta e furia da gente sottopagata e svogliata. Gli autoveicoli sono disegnati 'alla carlona' e la resa degli sfondi varia di volta in volta: passiamo da ambientazioni alquanto spoglie e spartane ad altre strabordanti di dettagli. Andiamo un pelino meglio con le ombreggiature, più curate rispetto a quelle di "Devilman Crybaby" (che sembravano fatte con Paint del PC). Qualche miglioria in più, sennonché, sarebbe ben gradita.
Se devo essere sincero, posso dire di non aver risparmiato i commenti al vetriolo, lo ammetto, ma in questi mesi di calma piatta, col senno di poi, mi sento di dire che l'ho trovata una delle serie più stimolanti dell'anno appena passato, godibile anche in versione sottotitolata. Vedendo lo stato comatoso in cui versa l'animazione giapponese, Yuasa, piaccia o non piaccia, rimane uno dei pochi a possedere uno stile inimitabile. Quando gli stessi mangaka implorano i produttori di non eccedere con il moe, ci si rende conto che le prospettive sono tutt'altro che rosee. Inoltre, pare sia l'unico a esprimere senza remore la propria concezione del mondo. Lui è spudoratamente globalista, liberista e contro ogni tipo di nazionalismo. Inoltre ha in abominio tutto ciò che ha a che fare col razzismo e le disuguaglianze. Un vero paladino della nuova società trans-moderna, post-capitalistica, post-industriale, post-patriarcale. Tanti (ma non troppi) addetti del settore la pensano come lui, ma hanno paura a sbandierare certi orientamenti politici, che in madrepatria sono tuttora accettati di malanimo. Basti vedere come è stato dipinto l'anziano Sig. Ashida: un vegliardo bisbetico che odia tutto e tutti. Questo smaccato astio verso i connazionali ha portato Yuasa ad avere molte più porte spalancate all'estero che non in terra natia. Da parte mia, non condivido i toni tromboneschi con il quale vengono rappresentati i patrioti che hanno contribuito ad erigere la terza potenza economica del pianeta.
Comunque sia, Yuasa sa il fatto suo, e nel secondo episodio sforna uno storyboard di un certo livello, con tanto di epilogo tragi-grottesco che ti fa cadere in catalessi per qualche attimo. È davvero instancabile, e pian piano sta rinnovando tutti i generi. Devo avvisarvi, però, che alcuni passaggi sono un vero e proprio stillicidio di decessi e corpi straziati, ai quali si vanno ad aggiungere dialoghi involuti e sciatti, oltre ad alcune frivolezze che rischiano di far trascendere anche i sostenitori più devoti dello studio Science SARU. Yuasa molla un po' la presa, e i suoi sostituti si rivelano spaesati e non sempre all'altezza. L'apatia dei Giapponesi viene amplificata alla massima potenza. Fa sorridere, inoltre, vedere gli abitanti di Tokyo agire in totale anomia in assenza di direttive del governo, quando è cosa assai nota che essi sono ligi alle regole, anche in situazioni estreme. Una massa di zombie senza emozioni né amore, cinici ed egoisti, in pratica dei semplici involucri vuoti. Ma al sopraggiungere della fine ci si strugge per i sentimenti elegiaci della giovane protagonista.
Ci sono tangibili momenti di tensione, quando Ayumu e il suo fratellino Gō rimangono in mare aperto in balia di enormi e voraci creature marine. Gli spauracchi sono assicurati. L'ansiogena scena del minimarket è un grande classico per questa categoria. Vengono toccati anche argomenti scomodi e poco trattati come sette che professano il collettivismo dedite alla coltivazione e al consumo di cannabis e, dal lato opposto, congreghe di chiaro stampo suprematista. Yuasa non risparmia critiche a niente e a nessuno. Giunti al culmine degli eventi, ognuno mostrerà il suo pensiero riguardo al delicato tema dell'immigrazione con un breve componimento rap. Questo è il nodo centrale del libro pubblicato nel 1973, che oggigiorno è divenuto ancora più spinoso.
Fatemi spendere due parole sulla meravigliosa opening creata da Abel Gongora, realizzata in stile simil-rotoscopico, senza contorni e colorata con uno squisito effetto che è una mescolanza tra pastello a cera e tecnica a carboncino. Le poetiche immagini (che sembrano scandite da un metronomo) stridono con i crudi fotogrammi della serie, calzando a pennello con la song portata al successo dalla voce di Taeko Onuki. A memoria di uomo, una delle migliori cose a cui abbia mai assistito, sia dal punto di vista artistico che da quello musicale.
Avrete già capito che in questa occasione mi ergo come una solitaria voce fuori dal coro, ma tuttavia questo anime m'ha lasciato abbastanza soddisfatto, per cui non mi azzarderò mai a definirlo il "tracollo di Yuasa". Detto ciò, ci sono un sacco di spunti sui quali si potrebbe discutere a lungo senza annoiarsi, ma adesso è giunta l'ora che si faccia un esame di coscienza: uno come lui non deve limitarsi a vivacchiare e a insistere con certi finali pseudo-buonisti che fanno venire il latte alle ginocchia.
Au revoir.
Con "Japan Sinks: 2020" la 'turbomondialista' Netflix e l'iper-estroso Masaaki Yuasa (lo chef director più chiacchierato del momento) fanno leva sulla manifesta paura dei popoli dell'Asia Pacifica verso i distruttivi tsunami che flagellano le coste.
Ho deciso di scrivere questa recensione a scoppio ritardato, dal momento che è stato necessario un rewatching a mente fredda, e con il doppiaggio in italiano. Ci ho messo un bel po' a metabolizzare il tutto, e sono giunto alla conclusione che, in mezzo alla selva di isekai e di progetti crossmediali, rimane un'opera da tenere in seria considerazione, sebbene la qualità grafica - in certuni frangenti - lasci parecchio a desiderare.
Il soggetto è tratto da un romanzo di Sakyo Komatsu, attualizzato ai giorni nostri con il caratteristico tocco e le sequenze (super) flash dell'eminente regista di "Mind Game". Ragazzi alternativi dal linguaggio 'sbalconato', più o meno integrati nella rigida società nipponica, con jeans extra large, magliette di almeno un paio di taglie più grandi del necessario, scarpe da ginnastiche indossate rigorosamente slacciate e cappellini con visiera... il tutto colorato con tinte di tendenza e impreziosito con accessori vistosi, come le lunghe catene con grandi ciondoli che rappresentano una delle icone della moda hip hop. Di fatto, l'eroe assoluto della storia è Kite, uno youtuber di origine estone che si farà in quattro per supportare i suoi amici: costruisce da solo apparecchi aerosportivi motorizzati, si improvvisa chirurgo e addirittura pilota di sommergibile!
In cabina di regia sono ritornati sui loro passi, facendo il consueto uso del grandangolo e della multiplane camera: i risultati sono inquadrature e zoomate a dir poco deliranti. Il responsabile della fotografia, Toshikazu Hisano, spadroneggia con la macchina da presa e si trova a suo agio persino nell'utilizzo di scenari 3D generati al computer. Non male! Ma, come accennato in precedenza, ci sono diverse lacune nel comparto visivo, e non si tratta di cosucce di poco conto ma di incertezze gigantesche, indecorose per uno dallo spiccato aplomb come Yuasa. Talvolta sembra roba fatta fare in fretta e furia da gente sottopagata e svogliata. Gli autoveicoli sono disegnati 'alla carlona' e la resa degli sfondi varia di volta in volta: passiamo da ambientazioni alquanto spoglie e spartane ad altre strabordanti di dettagli. Andiamo un pelino meglio con le ombreggiature, più curate rispetto a quelle di "Devilman Crybaby" (che sembravano fatte con Paint del PC). Qualche miglioria in più, sennonché, sarebbe ben gradita.
Se devo essere sincero, posso dire di non aver risparmiato i commenti al vetriolo, lo ammetto, ma in questi mesi di calma piatta, col senno di poi, mi sento di dire che l'ho trovata una delle serie più stimolanti dell'anno appena passato, godibile anche in versione sottotitolata. Vedendo lo stato comatoso in cui versa l'animazione giapponese, Yuasa, piaccia o non piaccia, rimane uno dei pochi a possedere uno stile inimitabile. Quando gli stessi mangaka implorano i produttori di non eccedere con il moe, ci si rende conto che le prospettive sono tutt'altro che rosee. Inoltre, pare sia l'unico a esprimere senza remore la propria concezione del mondo. Lui è spudoratamente globalista, liberista e contro ogni tipo di nazionalismo. Inoltre ha in abominio tutto ciò che ha a che fare col razzismo e le disuguaglianze. Un vero paladino della nuova società trans-moderna, post-capitalistica, post-industriale, post-patriarcale. Tanti (ma non troppi) addetti del settore la pensano come lui, ma hanno paura a sbandierare certi orientamenti politici, che in madrepatria sono tuttora accettati di malanimo. Basti vedere come è stato dipinto l'anziano Sig. Ashida: un vegliardo bisbetico che odia tutto e tutti. Questo smaccato astio verso i connazionali ha portato Yuasa ad avere molte più porte spalancate all'estero che non in terra natia. Da parte mia, non condivido i toni tromboneschi con il quale vengono rappresentati i patrioti che hanno contribuito ad erigere la terza potenza economica del pianeta.
Comunque sia, Yuasa sa il fatto suo, e nel secondo episodio sforna uno storyboard di un certo livello, con tanto di epilogo tragi-grottesco che ti fa cadere in catalessi per qualche attimo. È davvero instancabile, e pian piano sta rinnovando tutti i generi. Devo avvisarvi, però, che alcuni passaggi sono un vero e proprio stillicidio di decessi e corpi straziati, ai quali si vanno ad aggiungere dialoghi involuti e sciatti, oltre ad alcune frivolezze che rischiano di far trascendere anche i sostenitori più devoti dello studio Science SARU. Yuasa molla un po' la presa, e i suoi sostituti si rivelano spaesati e non sempre all'altezza. L'apatia dei Giapponesi viene amplificata alla massima potenza. Fa sorridere, inoltre, vedere gli abitanti di Tokyo agire in totale anomia in assenza di direttive del governo, quando è cosa assai nota che essi sono ligi alle regole, anche in situazioni estreme. Una massa di zombie senza emozioni né amore, cinici ed egoisti, in pratica dei semplici involucri vuoti. Ma al sopraggiungere della fine ci si strugge per i sentimenti elegiaci della giovane protagonista.
Ci sono tangibili momenti di tensione, quando Ayumu e il suo fratellino Gō rimangono in mare aperto in balia di enormi e voraci creature marine. Gli spauracchi sono assicurati. L'ansiogena scena del minimarket è un grande classico per questa categoria. Vengono toccati anche argomenti scomodi e poco trattati come sette che professano il collettivismo dedite alla coltivazione e al consumo di cannabis e, dal lato opposto, congreghe di chiaro stampo suprematista. Yuasa non risparmia critiche a niente e a nessuno. Giunti al culmine degli eventi, ognuno mostrerà il suo pensiero riguardo al delicato tema dell'immigrazione con un breve componimento rap. Questo è il nodo centrale del libro pubblicato nel 1973, che oggigiorno è divenuto ancora più spinoso.
Fatemi spendere due parole sulla meravigliosa opening creata da Abel Gongora, realizzata in stile simil-rotoscopico, senza contorni e colorata con uno squisito effetto che è una mescolanza tra pastello a cera e tecnica a carboncino. Le poetiche immagini (che sembrano scandite da un metronomo) stridono con i crudi fotogrammi della serie, calzando a pennello con la song portata al successo dalla voce di Taeko Onuki. A memoria di uomo, una delle migliori cose a cui abbia mai assistito, sia dal punto di vista artistico che da quello musicale.
Avrete già capito che in questa occasione mi ergo come una solitaria voce fuori dal coro, ma tuttavia questo anime m'ha lasciato abbastanza soddisfatto, per cui non mi azzarderò mai a definirlo il "tracollo di Yuasa". Detto ciò, ci sono un sacco di spunti sui quali si potrebbe discutere a lungo senza annoiarsi, ma adesso è giunta l'ora che si faccia un esame di coscienza: uno come lui non deve limitarsi a vivacchiare e a insistere con certi finali pseudo-buonisti che fanno venire il latte alle ginocchia.
Au revoir.
«Japan Sinks» è un anime di genere catastrofico, a cura dello studio di animazione Science SARU, che paga le sue animazioni veramente inadeguate e qualche personaggio poco riuscito, ma che regala una storia forte e ricca di colpi di scena.
La serie prende spunto dal romanzo omonimo di Sakyo Komatsu (pseudonimo di Minoru Komatsu), da cui sono stati tratti tre film: "Pianeta Terra: anno zero" del 1973, "Nihon Chinbotsu" del 2006 e infine una parodia, "The World Sinks Except Japan". Il romanzo fu un notevole successo, ricevendo diversi premi (fra cui Mystery Writers of Japan Awards) e riuscendo a vendere quattro milioni di copie nel solo Giappone.
La storia ripercorre le vicende di una famiglia giapponese sopravvissuta a un forte terremoto, ai loro incontri durante un disperato viaggio alla ricerca della sopravvivenza, in un Giappone che sembra stia sprofondando nell'oceano (da qui il titolo). Vivranno molte peripezie ai limiti della sopravvivenza, ci troveremo di fronte a scene che ricorderanno il bellissimo film "Vita" di Pi e visiteremo luoghi con regole proprie, ricordando i viaggi di "Kino's Journey". Ci troveremo di fronte alle più disparate possibilità che offre lo scenario di base.
Visti i pericoli imminenti, dove anche il reperire della semplice acqua non deve essere dato per scontato, spesso non si avrà il tempo neanche di piangere la morte dei propri cari al momento dell'accaduto, ma solo dopo, quando si avrà un momento di pace, si potrà dare sfogo ai propri sentimenti. Viene ben ricreata la sensazione di essere dei sopravvissuti a una immane catastrofe, così lo spettatore potrà immedesimarsi con le varie situazioni che si mostrano durante la serie e ragionare su come avrebbe lui stesso agito.
Per quanto riguarda i personaggi, ben realizzati risultano la coppia Mari e Kōichirō Mutō, e il talentuoso Haruki Koga, mentre Ayumu (doppiata in italiano da Joy Saltarelli, celebre per aver prestato la sua voce a Madoka) risulta essere la persona più normale e anonima. Go, con il suo continuo parlare in lingua inglese, può risultare fastidioso. Kite rappresenta la parte dinamica, leggera, della serie, mentre il meno riuscito è Daniel Zakovic, che nulla aggiunge. Bello e commovente il rapporto madre-figlia. Fra i doppiatori originali segnalo la presenza di Kenshō Ono (doppiatore di Slaine Troyard di "Aldnoah.Zero" e Giorno Giovanna ne "Le bizzarre avventure di JoJo"), che fa un buon lavoro su Kite.
Occorre precisare che saranno presenti molte nazionalità diverse nell'anime (filippini, estoni, jugoslavi, etc.), a volte in contrasto con i "Giapponesi puri", termine che verrà citato durante la serie. I disegni sono appena nella sufficienza, mostrando tutti i loro limiti nelle immagini in movimento. Vi saranno molte scene crude, diverse mostreranno il lato peggiore dell'essere umano
Le musiche soddisfano ogni gusto, dall'opening iniziale "A Life" di Taeko Onuki, molto dolce e orecchiabile, al rap che sentiremo in una scena di un episodio. Fra le OST segnalo "In a Dream" e soprattutto "Attack of Legends", sublime e solenne. Gustatevi, ascoltate, il finale dell'episodio 6, da applausi.
Venendo alle note dolenti, lo studio di animazione Science SARU qui ha fatto il suo peggio: se si poteva credere che enfatizzavano alcune scene di "Devilman Cry baby" e non stonavano con la fantasia vista in "Keep Your Hands Off Eizouken!", nel momento in cui si vuole creare una serie che dovrebbe rappresentare scene di vita reale, o comunque ipoteticamente reale, certe animazioni fantasiose (e ridicole) risultano scadenti e inopportune. Ad esempio, voglio ricordare una scena in cui una ragazza, difendendosi da un malintenzionato, lo prende a calci da più di venti metri senza avvicinarsi, tanto che nel vedere la scena ero convinto che fosse arrivata una terza persona a salvarla, ma non era così; oppure si pensi allo scoccare di frecce che non colpiscono, uccidendo lo stesso, o a quelle non scoccate ma che colpiscono lo stesso. Ricordo una sola scena che mi sia piaciuta negli episodi finali. Vi sono molte scene che meritavano animazioni diverse, come ad esempio quella della sparatoria, e invece così si rimane con un senso di dispiacere, di rabbia per un evidente spreco della storia a cui assistiamo.
La seconda nota dolente è il finale, e con finale intendo quasi tutto quello che si vedrà nell'episodio 10. Una prolissa e melensa dichiarazione d'amore al Giappone. Evitabile.
In definitiva, lo si consiglia a coloro a cui piace una storia di sopravvivenza piena di cataclismi, ma che riesca davvero a non farsi condizionare da animazioni non adeguate e da qualche personaggio mal realizzato.
La serie prende spunto dal romanzo omonimo di Sakyo Komatsu (pseudonimo di Minoru Komatsu), da cui sono stati tratti tre film: "Pianeta Terra: anno zero" del 1973, "Nihon Chinbotsu" del 2006 e infine una parodia, "The World Sinks Except Japan". Il romanzo fu un notevole successo, ricevendo diversi premi (fra cui Mystery Writers of Japan Awards) e riuscendo a vendere quattro milioni di copie nel solo Giappone.
La storia ripercorre le vicende di una famiglia giapponese sopravvissuta a un forte terremoto, ai loro incontri durante un disperato viaggio alla ricerca della sopravvivenza, in un Giappone che sembra stia sprofondando nell'oceano (da qui il titolo). Vivranno molte peripezie ai limiti della sopravvivenza, ci troveremo di fronte a scene che ricorderanno il bellissimo film "Vita" di Pi e visiteremo luoghi con regole proprie, ricordando i viaggi di "Kino's Journey". Ci troveremo di fronte alle più disparate possibilità che offre lo scenario di base.
Visti i pericoli imminenti, dove anche il reperire della semplice acqua non deve essere dato per scontato, spesso non si avrà il tempo neanche di piangere la morte dei propri cari al momento dell'accaduto, ma solo dopo, quando si avrà un momento di pace, si potrà dare sfogo ai propri sentimenti. Viene ben ricreata la sensazione di essere dei sopravvissuti a una immane catastrofe, così lo spettatore potrà immedesimarsi con le varie situazioni che si mostrano durante la serie e ragionare su come avrebbe lui stesso agito.
Per quanto riguarda i personaggi, ben realizzati risultano la coppia Mari e Kōichirō Mutō, e il talentuoso Haruki Koga, mentre Ayumu (doppiata in italiano da Joy Saltarelli, celebre per aver prestato la sua voce a Madoka) risulta essere la persona più normale e anonima. Go, con il suo continuo parlare in lingua inglese, può risultare fastidioso. Kite rappresenta la parte dinamica, leggera, della serie, mentre il meno riuscito è Daniel Zakovic, che nulla aggiunge. Bello e commovente il rapporto madre-figlia. Fra i doppiatori originali segnalo la presenza di Kenshō Ono (doppiatore di Slaine Troyard di "Aldnoah.Zero" e Giorno Giovanna ne "Le bizzarre avventure di JoJo"), che fa un buon lavoro su Kite.
Occorre precisare che saranno presenti molte nazionalità diverse nell'anime (filippini, estoni, jugoslavi, etc.), a volte in contrasto con i "Giapponesi puri", termine che verrà citato durante la serie. I disegni sono appena nella sufficienza, mostrando tutti i loro limiti nelle immagini in movimento. Vi saranno molte scene crude, diverse mostreranno il lato peggiore dell'essere umano
Le musiche soddisfano ogni gusto, dall'opening iniziale "A Life" di Taeko Onuki, molto dolce e orecchiabile, al rap che sentiremo in una scena di un episodio. Fra le OST segnalo "In a Dream" e soprattutto "Attack of Legends", sublime e solenne. Gustatevi, ascoltate, il finale dell'episodio 6, da applausi.
Venendo alle note dolenti, lo studio di animazione Science SARU qui ha fatto il suo peggio: se si poteva credere che enfatizzavano alcune scene di "Devilman Cry baby" e non stonavano con la fantasia vista in "Keep Your Hands Off Eizouken!", nel momento in cui si vuole creare una serie che dovrebbe rappresentare scene di vita reale, o comunque ipoteticamente reale, certe animazioni fantasiose (e ridicole) risultano scadenti e inopportune. Ad esempio, voglio ricordare una scena in cui una ragazza, difendendosi da un malintenzionato, lo prende a calci da più di venti metri senza avvicinarsi, tanto che nel vedere la scena ero convinto che fosse arrivata una terza persona a salvarla, ma non era così; oppure si pensi allo scoccare di frecce che non colpiscono, uccidendo lo stesso, o a quelle non scoccate ma che colpiscono lo stesso. Ricordo una sola scena che mi sia piaciuta negli episodi finali. Vi sono molte scene che meritavano animazioni diverse, come ad esempio quella della sparatoria, e invece così si rimane con un senso di dispiacere, di rabbia per un evidente spreco della storia a cui assistiamo.
La seconda nota dolente è il finale, e con finale intendo quasi tutto quello che si vedrà nell'episodio 10. Una prolissa e melensa dichiarazione d'amore al Giappone. Evitabile.
In definitiva, lo si consiglia a coloro a cui piace una storia di sopravvivenza piena di cataclismi, ma che riesca davvero a non farsi condizionare da animazioni non adeguate e da qualche personaggio mal realizzato.
Era un anime che avevo nella lista "Da guardare", perché mi piace il genere, ma purtroppo, come notato anche da altri, tutto il potenziale si perde in una trama inconsistente, molto incoerente, e in personaggi poco empatici... Io sono una amante delle storie surreali e non faccio fatica a lasciarmi prendere dalla sospensione della credulità, ma succedono davvero tante cose talmente forzate che ti provocano fastidio.
Purtroppo ho interrotto la visione alla fine del terzo capitolo... le incongruenze erano troppe e la storia e i personaggi non erano abbastanza interessanti per farmi proseguire e chiudere un occhio verso gli altri difetti.
Purtroppo ho interrotto la visione alla fine del terzo capitolo... le incongruenze erano troppe e la storia e i personaggi non erano abbastanza interessanti per farmi proseguire e chiudere un occhio verso gli altri difetti.
In generale, questo è il primo anime che non mi è piaciuto. La storia, che potrebbe essere interessante, viene sviluppata concentrandosi sulle avventure dei protagonisti, e nessuno si chiede il perché sta succedendo quello che sta succedendo (e a me questo lascia uno spiacevole vuoto). Inoltre ci sono delle incongruenze che danno fastidio; una in particolare è troppo evidente e mi ha lasciato parecchio perplesso. Ma ha anche i suoi lati positivi: la drammaticità è raffigurata molto bene, l'ultimo episodio lascia un bel messaggio.
Animazione: anche qui, purtroppo, sono molto critico. Ho sempre amato i lavori di animazione giapponesi per la cura che ci mettono. Questo è stato il primo anime a deludermi davvero da questo lato. I disegni sembrano fatti da un principiante, oppure da un destrorso che ha voluto utilizzare la mano sinistra.
In conclusione, è un anime che fa acqua da molti punti di vista. Se proprio adori il drammatico e non hai nient'altro da guardare, allora potrei anche dirti: "Provalo". Altrimenti, ti consiglio di passare ad altro.
Animazione: anche qui, purtroppo, sono molto critico. Ho sempre amato i lavori di animazione giapponesi per la cura che ci mettono. Questo è stato il primo anime a deludermi davvero da questo lato. I disegni sembrano fatti da un principiante, oppure da un destrorso che ha voluto utilizzare la mano sinistra.
In conclusione, è un anime che fa acqua da molti punti di vista. Se proprio adori il drammatico e non hai nient'altro da guardare, allora potrei anche dirti: "Provalo". Altrimenti, ti consiglio di passare ad altro.
Mamma mia, devo essere davvero un pazzo ad aver buttato tre ore e mezza di vita a guardare quest'obbrobrio. E pensare che lo stavo abbandonando in seguito al secondo noiosissimo episodio che, però, dopo avermi fatto detestare i sorrisi, il buon umore, le foto ricordo e il tono da pubblicità della Mulino Bianco di praticamente tutto il cast dei personaggi, assolutamente fuori luogo considerato ciò che stavano vivendo, termina in modo maledettamente sorprendente e interessante. Purtroppo.
Purtroppo perché, se non fosse terminato in quel modo, non avrei perso il tempo dei restanti otto orrendi episodi, in cui non fanno che comparire personaggi ancor più odiosi dei protagonisti (Daniel... uccidetelo!) e delinearsi situazioni improbabili (Shan City? Ma che cavolo c'entra una roba del genere?).
I personaggi sono tutti tra l'odioso, l'improbabile e l'inutile. Il fratellino Go non fa altro che dare sui nervi dall'inizio alla fine, con le sue continue espressioni in inglese e una voce davvero sgradevole (non so se il doppiatore si sforzi di imitare quello giapponese, perché non l'ho ascoltato in originale, ma è davvero snervante). La mamma, salvo rare eccezioni, sembra che viva la situazione come se fosse un'allegra scampagnata in famiglia. E poi c'è lui... Kite, uno youtuber estone con cui, guarda un po', Go era in contatto su Internet, e che, guarda un po', per puro caso atterra con un paracadute proprio in mezzo ai "nostri eroi", tra le montagne del Giappone... e poi ricompare in un corazzato dell'esercito in mezzo all'oceano, sempre per puro caso, a trarre in salvo i "nostri eroi".
Empatizzare con personaggi del genere è praticamente impossibile, così come è impossibile venire in qualche modo turbati anche dalle scene più cruente di quest'opera, in quanto l'atmosfera dominante non è affatto angosciante e pesante come ci si aspetterebbe da un "disaster anime", e non fa assolutamente respirare la tragedia, di cui a volte quasi si tende a dimenticarsi. Sembra impossibile, dato il soggetto, ma quest'opera è completamente priva di qualunque pathos, quando è proprio sul pathos che una storia del genere dovrebbe reggersi.
Tutto risulta semplicemente forzato al limite del ridicolo, e l'unico motivo d'interesse, ovvero lo sprofondamento del Giappone, non è trattato con sufficiente cura, restando quasi solo un sottofondo alle vicende di personaggi scialbi e insignificanti, di cui vengono eccessivamente approfonditi i pensieri e i sentimenti, che sono però di una banalità ben poco interessante. Il tutto tende a farsi melenso ed è pervaso da un fastidioso buonismo, enfatizzato dalla sdolcinata ed estremamente ripetitiva colonna sonora, che più di ricordare l'OST di un anime ricorda tanto un brano royalty-free per YouTube.
Ma la vera bruttezza di questo cartone animato (perché davvero di un anime giapponese ha troppo poco) sta nei disegni e nelle animazioni, probabilmente quanto di più orrendo abbia mai visto. Il character design è osceno, così come il tratto del disegno e la colorazione dei personaggi, abbagliata e sbiadita. A dominare la scena, poi, l'onnipresenza di un'evidente e invadente CGI, che non manca mai di generare un ripugnante effetto videogioco, in complicità con animazioni a dir poco scadenti, innaturali e scattose.
Se è questa l'innovazione che Netflix ha intenzione di portare nel mondo dell'animazione giapponese, non se ne sentiva veramente il bisogno. Siamo al cospetto infatti di un anime a metà, in cui la componente occidentale (e della peggior specie) è chiaramente presente, non solo dal punto di vista tecnico ma anche nel modo di raccontare la storia e nei continui riferimenti linguistici e culturali al mondo anglofono.
Faccio davvero una fatica immane a salvare qualcosa di questo prodotto, se non l'idea di fondo, che però non appartiene al prodotto stesso, bensì al romanzo da cui è tratto. Quindi no, non c'è assolutamente niente da salvare qui. Non guardatelo.
Purtroppo perché, se non fosse terminato in quel modo, non avrei perso il tempo dei restanti otto orrendi episodi, in cui non fanno che comparire personaggi ancor più odiosi dei protagonisti (Daniel... uccidetelo!) e delinearsi situazioni improbabili (Shan City? Ma che cavolo c'entra una roba del genere?).
I personaggi sono tutti tra l'odioso, l'improbabile e l'inutile. Il fratellino Go non fa altro che dare sui nervi dall'inizio alla fine, con le sue continue espressioni in inglese e una voce davvero sgradevole (non so se il doppiatore si sforzi di imitare quello giapponese, perché non l'ho ascoltato in originale, ma è davvero snervante). La mamma, salvo rare eccezioni, sembra che viva la situazione come se fosse un'allegra scampagnata in famiglia. E poi c'è lui... Kite, uno youtuber estone con cui, guarda un po', Go era in contatto su Internet, e che, guarda un po', per puro caso atterra con un paracadute proprio in mezzo ai "nostri eroi", tra le montagne del Giappone... e poi ricompare in un corazzato dell'esercito in mezzo all'oceano, sempre per puro caso, a trarre in salvo i "nostri eroi".
Empatizzare con personaggi del genere è praticamente impossibile, così come è impossibile venire in qualche modo turbati anche dalle scene più cruente di quest'opera, in quanto l'atmosfera dominante non è affatto angosciante e pesante come ci si aspetterebbe da un "disaster anime", e non fa assolutamente respirare la tragedia, di cui a volte quasi si tende a dimenticarsi. Sembra impossibile, dato il soggetto, ma quest'opera è completamente priva di qualunque pathos, quando è proprio sul pathos che una storia del genere dovrebbe reggersi.
Tutto risulta semplicemente forzato al limite del ridicolo, e l'unico motivo d'interesse, ovvero lo sprofondamento del Giappone, non è trattato con sufficiente cura, restando quasi solo un sottofondo alle vicende di personaggi scialbi e insignificanti, di cui vengono eccessivamente approfonditi i pensieri e i sentimenti, che sono però di una banalità ben poco interessante. Il tutto tende a farsi melenso ed è pervaso da un fastidioso buonismo, enfatizzato dalla sdolcinata ed estremamente ripetitiva colonna sonora, che più di ricordare l'OST di un anime ricorda tanto un brano royalty-free per YouTube.
Ma la vera bruttezza di questo cartone animato (perché davvero di un anime giapponese ha troppo poco) sta nei disegni e nelle animazioni, probabilmente quanto di più orrendo abbia mai visto. Il character design è osceno, così come il tratto del disegno e la colorazione dei personaggi, abbagliata e sbiadita. A dominare la scena, poi, l'onnipresenza di un'evidente e invadente CGI, che non manca mai di generare un ripugnante effetto videogioco, in complicità con animazioni a dir poco scadenti, innaturali e scattose.
Se è questa l'innovazione che Netflix ha intenzione di portare nel mondo dell'animazione giapponese, non se ne sentiva veramente il bisogno. Siamo al cospetto infatti di un anime a metà, in cui la componente occidentale (e della peggior specie) è chiaramente presente, non solo dal punto di vista tecnico ma anche nel modo di raccontare la storia e nei continui riferimenti linguistici e culturali al mondo anglofono.
Faccio davvero una fatica immane a salvare qualcosa di questo prodotto, se non l'idea di fondo, che però non appartiene al prodotto stesso, bensì al romanzo da cui è tratto. Quindi no, non c'è assolutamente niente da salvare qui. Non guardatelo.
Quando avevo letto il nome di Yuasa ero super felice, considerato che è tra i miei registi preferiti nel panorama dell’animazione. Tuttavia, come è diventato palese guardando la serie, il ruolo di Yuasa è stato, a quanto ho capito, più che altro quello di supervisore, quindi c’è davvero poco di lui in questa nuova serie.
“Japan Sinks: 2020” è una delle numerose trasposizioni del romanzo “Nihon Chinbotsu” dell’autore giapponese Sakyo Komatsu. Il fatto che sia stato trasmesso sulla piattaforma di Netflix proprio nel 2020, anno catastrofico per il mondo, dovrebbe rendere più facile empatizzare col lato tragico della trama e regalare maggiore pathos nelle scene più drammatiche.
Andiamo con ordine. La trama, in una prima superficiale lettura, ricorda quella del più famoso “Tokyo Magnitude 8.0”: Tokyo viene rasa al suolo da un fortissimo terremoto. A questa tragedia, se ne aggiungono a poco a poco altre, tra cui tsunami ed eruzione del monte Fuji, portando al collasso l’intero Giappone. Protagonista di questo dramma è la famiglia Muto che, al momento della prima scossa, si trova separata, e farà di tutto per riunirsi e affrontare insieme ciò che li attende.
Sarà difficile per me dire cos’ha di buono e di meno buono questa brevissima serie, perché spesso quelli che partono come punti di forza si rivelano - andando avanti - proprio degli errori madornali.
In primis il rapporto con la morte. La morte in “Japan Sinks: 2020” non viene minimamente risparmiata, viene mostrata in tutta la sua meschinità e ferocia. È improvvisa ed è inaccettabile, e nelle prime puntate questo elemento funziona anche piuttosto bene, attraverso le espressioni esterrefatte dei protagonisti, o dei sensi di colpa che li affliggono quando non possono salvare amici e sconosciuti. Tuttavia, come dicevo, andando avanti con le puntate, questo particolare diventa da un lato fastidioso, e dall’altro mal gestito. Infatti - evitando spoiler - alcune morti importanti all’interno della serie sono totalmente prive di pathos e di conseguenze emotive, anche negli episodi immediatamente successivi. Considerate le sfumature drammatiche con cui vengono spesso descritte, è inaccettabile vedere i protagonisti, o chi altro, non avere reazioni eclatanti, o a lungo raggio. Dall’altro lato, inoltre, c’è il problema che la violenza messa in scena diventi talmente presente, che lo spettatore non può più avere un minimo di suspense, sa che in ogni episodio accadrà qualcosa a qualcuno, che sia la morte o una semplice mutilazione. Questo crea una desensibilizzazione dello spettatore che viene assuefatto alla brutalità messa in scena, piuttosto che all’imprevedibilità della morte, come poteva essere per il sopracitato “Tokyo Magnitude 8.0”.
Quanto al resto, ho apprezzato come la serie tenti di affrontare altre tematiche di un certo rilievo, tuttavia non approfondendole come avrei voluto: il sospetto e l’ostracismo del prossimo; la discriminazione razziale (in un episodio, in particolare, questa tematica poteva creare una sotto-trama decisamente interessante), fino ad arrivare a quella che ho preferito, le fake news e la disinformazione. Tema, quest’ultimo, attualissimo, in un panorama che vede migliaia di informazioni diverse, alcune attendibili e altre meno, venir usate dalle persone che non hanno la capacità di distinguere le notizie vere da quelle false.
Il finale - sempre senza spoiler - (ma anche diverse scene a metà serie) è un inno al Giappone e alla sua capacità di rialzarsi e non demordere, anche nelle situazioni difficili (simboleggiato un po’ dalla protagonista Ayumu, durante le Olimpiadi), il che ricorda un po’ quei finali buonisti e basati sul sentimentalismo che tanto spesso vengono criticati nei film americani.
In sostanza, la serie non mi è piaciuta, nonostante un inizio promettente e un finale che, per quanto fastidiosamente buonista e “feeloso”, riesce nel suo intento di commuovere almeno un minimo lo spettatore.
“Japan Sinks: 2020” è una delle numerose trasposizioni del romanzo “Nihon Chinbotsu” dell’autore giapponese Sakyo Komatsu. Il fatto che sia stato trasmesso sulla piattaforma di Netflix proprio nel 2020, anno catastrofico per il mondo, dovrebbe rendere più facile empatizzare col lato tragico della trama e regalare maggiore pathos nelle scene più drammatiche.
Andiamo con ordine. La trama, in una prima superficiale lettura, ricorda quella del più famoso “Tokyo Magnitude 8.0”: Tokyo viene rasa al suolo da un fortissimo terremoto. A questa tragedia, se ne aggiungono a poco a poco altre, tra cui tsunami ed eruzione del monte Fuji, portando al collasso l’intero Giappone. Protagonista di questo dramma è la famiglia Muto che, al momento della prima scossa, si trova separata, e farà di tutto per riunirsi e affrontare insieme ciò che li attende.
Sarà difficile per me dire cos’ha di buono e di meno buono questa brevissima serie, perché spesso quelli che partono come punti di forza si rivelano - andando avanti - proprio degli errori madornali.
In primis il rapporto con la morte. La morte in “Japan Sinks: 2020” non viene minimamente risparmiata, viene mostrata in tutta la sua meschinità e ferocia. È improvvisa ed è inaccettabile, e nelle prime puntate questo elemento funziona anche piuttosto bene, attraverso le espressioni esterrefatte dei protagonisti, o dei sensi di colpa che li affliggono quando non possono salvare amici e sconosciuti. Tuttavia, come dicevo, andando avanti con le puntate, questo particolare diventa da un lato fastidioso, e dall’altro mal gestito. Infatti - evitando spoiler - alcune morti importanti all’interno della serie sono totalmente prive di pathos e di conseguenze emotive, anche negli episodi immediatamente successivi. Considerate le sfumature drammatiche con cui vengono spesso descritte, è inaccettabile vedere i protagonisti, o chi altro, non avere reazioni eclatanti, o a lungo raggio. Dall’altro lato, inoltre, c’è il problema che la violenza messa in scena diventi talmente presente, che lo spettatore non può più avere un minimo di suspense, sa che in ogni episodio accadrà qualcosa a qualcuno, che sia la morte o una semplice mutilazione. Questo crea una desensibilizzazione dello spettatore che viene assuefatto alla brutalità messa in scena, piuttosto che all’imprevedibilità della morte, come poteva essere per il sopracitato “Tokyo Magnitude 8.0”.
Quanto al resto, ho apprezzato come la serie tenti di affrontare altre tematiche di un certo rilievo, tuttavia non approfondendole come avrei voluto: il sospetto e l’ostracismo del prossimo; la discriminazione razziale (in un episodio, in particolare, questa tematica poteva creare una sotto-trama decisamente interessante), fino ad arrivare a quella che ho preferito, le fake news e la disinformazione. Tema, quest’ultimo, attualissimo, in un panorama che vede migliaia di informazioni diverse, alcune attendibili e altre meno, venir usate dalle persone che non hanno la capacità di distinguere le notizie vere da quelle false.
Il finale - sempre senza spoiler - (ma anche diverse scene a metà serie) è un inno al Giappone e alla sua capacità di rialzarsi e non demordere, anche nelle situazioni difficili (simboleggiato un po’ dalla protagonista Ayumu, durante le Olimpiadi), il che ricorda un po’ quei finali buonisti e basati sul sentimentalismo che tanto spesso vengono criticati nei film americani.
In sostanza, la serie non mi è piaciuta, nonostante un inizio promettente e un finale che, per quanto fastidiosamente buonista e “feeloso”, riesce nel suo intento di commuovere almeno un minimo lo spettatore.