Vivere
Le giornate scorrono tutte uguali per l'impiegato Watanabe. Circondato da centinaia di migliaia di fogli giallastri, se ne sta curvo su se stesso, con la faccia inespressiva, a timbrare documenti su documenti. Timbrare e timbrare. Tutta la vita. Per più di trent'anni, in un ufficio comunale come tanti altri, nel caotico Giappone in fase di industrializzazione, Watanabe ripete continuamente lo stesso gesto. Timbrare e timbrare. Tutti i giorni. Al di là di quel movimento meccanico, grigio, degno d'un orologio rotto, c'è l'indifferenza del figlio e dei colleghi di lavoro. C'è il nulla. Tuttavia, un giorno come tanti altri, arriva l'incombenza della morte. A causa di una malattia incurabile, a Watanabe restano sei mesi di vita. Cosa farà adesso, dato che solamente ora si è reso conto di non aver mai vissuto? Come potrà dare in soli sei mesi un senso alla sua non-vita?
Come suggerisce il titolo, "Vivere", alias "Ikiru", è una grande metafora della condizione dell'uomo moderno. Non si applica solamente al Giappone del dopoguerra, frenetico, competitivo, in cui si doveva ricostruire tutto partendo da zero; quella di Kurosawa è un'analisi più ampia, che riguarda anche noi e la nostra società: quella dei giochi di potere, dell'indifferenza, nella quale le istituzioni sono sommerse da un apparato burocratico dalle sembianze mostruose, che soffoca le iniziative dei singoli e avvantaggia i soliti uomini di potere - che vogliono conservare il loro posto - direbbe Kurosawa. La riflessione del regista avviene in modo diretto, attraverso l'analisi della presa di coscienza di Watanabe e delle azioni che quest'ultimo compirà in seguito ad essa: in un primo momento, egli capirà che il figlio non l'ha mai amato, e che l'ha sempre visto come un conto in banca vivente, non come un padre; dopo aver fatto conoscenza di uno scrittore fallito, il morituro verrà guidato, come un novello Dante, nell'inferno dei divertimenti urbani fino ad allora ignorati: prostitute, sobborghi sovrappopolati in decadenza, alcool, Pachinko... che sia questo il vero valore della vita? Kurosawa si spinge ben oltre la semplice retorica/morale buonista. Colpisce direttamente la società giapponese (e non) al suo nocciolo, dimostra che anche dei piccoli gesti, delle piccole imprese, possono in qualche modo galvanizzare degli automi assuefatti dalla carriera e dal consumismo. L'uomo deve maturare una volontà, deve avere il coraggio di cambiare le cose, altrimenti c'è il nulla - quel vuoto peggiore della morte; quella morte che nel film ha valenza positiva, in quanto è l'unica cosa che in qualche modo riesce ad indurre un cambiamento, seppure minimo, in Watanabe e nelle persone che lo circondano.
Forse, Watanabe, con la sua improvvisa presa di coscienza, riesce a recuperare l'idealità dell'infanzia perduta; - quando sto con te mi sento come se fossi tornato bambino - dice ad una sua collega con la quale, finalmente, si decide a prendere un appuntamento. Anche il suo commovente gesto finale in qualche modo lo raffigura come un novello bambino che, iniziando a vedere le cose ordinarie con meraviglia, è riuscito - almeno nella morte - a sconfiggere il grigiore opprimente che l'aveva reso un automa. Un bambino dall'infantile, pura, incontaminata innocenza.
Il film è basato per la maggior parte sui dialoghi. La regia utilizza tecniche di ripresa opprimenti, momenti di silenzio e inquadrature di spazi ristretti, trasmettendo efficacemente allo spettatore le sensazioni provate dal povero, disilluso e afflitto protagonista. Ci si chiede se veramente, un giorno, i freddi meccanismi di cui egli è vittima non imprigionino anche noi; e se essi, sempre quel maledetto giorno, non ci facciano diventare delle marionette incapaci di uscire dalla loro condizione di non-felicità.
In definitiva, "Ikiru" è un film molto profondo, che racconta un dramma attualissimo in modo assolutamente semplice, con riflessioni, sguardi, gesti, grande cinema che chiama in causa anche lo spettatore con i suoi contenuti di indubbio spessore. Al di là della grandezza dell'opera in questione, devo ammettere che alcuni passaggi nella sceneggiatura sono eccessivamente lenti e prolissi. Questa è una cosa tipica di molti film impegnati, che più che mere opere di intrattenimento sono veri e propri moniti autoriali verso determinati disagi esistenziali figli della modernità. Detto questo, a mio avviso "Ikiru" rimane uno dei migliori Kurosawa di sempre.
Come suggerisce il titolo, "Vivere", alias "Ikiru", è una grande metafora della condizione dell'uomo moderno. Non si applica solamente al Giappone del dopoguerra, frenetico, competitivo, in cui si doveva ricostruire tutto partendo da zero; quella di Kurosawa è un'analisi più ampia, che riguarda anche noi e la nostra società: quella dei giochi di potere, dell'indifferenza, nella quale le istituzioni sono sommerse da un apparato burocratico dalle sembianze mostruose, che soffoca le iniziative dei singoli e avvantaggia i soliti uomini di potere - che vogliono conservare il loro posto - direbbe Kurosawa. La riflessione del regista avviene in modo diretto, attraverso l'analisi della presa di coscienza di Watanabe e delle azioni che quest'ultimo compirà in seguito ad essa: in un primo momento, egli capirà che il figlio non l'ha mai amato, e che l'ha sempre visto come un conto in banca vivente, non come un padre; dopo aver fatto conoscenza di uno scrittore fallito, il morituro verrà guidato, come un novello Dante, nell'inferno dei divertimenti urbani fino ad allora ignorati: prostitute, sobborghi sovrappopolati in decadenza, alcool, Pachinko... che sia questo il vero valore della vita? Kurosawa si spinge ben oltre la semplice retorica/morale buonista. Colpisce direttamente la società giapponese (e non) al suo nocciolo, dimostra che anche dei piccoli gesti, delle piccole imprese, possono in qualche modo galvanizzare degli automi assuefatti dalla carriera e dal consumismo. L'uomo deve maturare una volontà, deve avere il coraggio di cambiare le cose, altrimenti c'è il nulla - quel vuoto peggiore della morte; quella morte che nel film ha valenza positiva, in quanto è l'unica cosa che in qualche modo riesce ad indurre un cambiamento, seppure minimo, in Watanabe e nelle persone che lo circondano.
Forse, Watanabe, con la sua improvvisa presa di coscienza, riesce a recuperare l'idealità dell'infanzia perduta; - quando sto con te mi sento come se fossi tornato bambino - dice ad una sua collega con la quale, finalmente, si decide a prendere un appuntamento. Anche il suo commovente gesto finale in qualche modo lo raffigura come un novello bambino che, iniziando a vedere le cose ordinarie con meraviglia, è riuscito - almeno nella morte - a sconfiggere il grigiore opprimente che l'aveva reso un automa. Un bambino dall'infantile, pura, incontaminata innocenza.
Il film è basato per la maggior parte sui dialoghi. La regia utilizza tecniche di ripresa opprimenti, momenti di silenzio e inquadrature di spazi ristretti, trasmettendo efficacemente allo spettatore le sensazioni provate dal povero, disilluso e afflitto protagonista. Ci si chiede se veramente, un giorno, i freddi meccanismi di cui egli è vittima non imprigionino anche noi; e se essi, sempre quel maledetto giorno, non ci facciano diventare delle marionette incapaci di uscire dalla loro condizione di non-felicità.
In definitiva, "Ikiru" è un film molto profondo, che racconta un dramma attualissimo in modo assolutamente semplice, con riflessioni, sguardi, gesti, grande cinema che chiama in causa anche lo spettatore con i suoi contenuti di indubbio spessore. Al di là della grandezza dell'opera in questione, devo ammettere che alcuni passaggi nella sceneggiatura sono eccessivamente lenti e prolissi. Questa è una cosa tipica di molti film impegnati, che più che mere opere di intrattenimento sono veri e propri moniti autoriali verso determinati disagi esistenziali figli della modernità. Detto questo, a mio avviso "Ikiru" rimane uno dei migliori Kurosawa di sempre.