Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Nausicaä, così com'è ritratta da Miyazaki, è davvero un gran personaggio: forte, intelligente, ricercatrice, una guerriera pacifista e un'ambasciatrice d'amore. Non è un eufemismo definirla una figura sacra. Chi non l'apprezzerebbe? È anche un personaggio tormentato, e la sua sofferenza è espressa davvero bene.

Altro aspetto che è impossibile non notare riguarda la perizia con la quale sono rappresentati un tempo e un mondo distopici. È un film del 1984 e si vede, però in quanto a qualità figurativa degli ambienti e dei fondali è indubbiamente un passo avanti rispetto a diversi altri prodotti d'animazione dell'epoca.
Le musiche sono in buona parte figlie di quel particolare decennio, gli anni '80. La colonna sonora porta a volte ad un connubio davvero singolare e interessante con le scene del film, e dal mio punto di vista non stona affatto, in generale. A parte quel canto bambinesco che ricorre più volte nel film, che ho trovato un po' random, un po' fuori posto e gratuitamente lezioso.

C'è da dire che, nonostante i temi estremamente seri (guerra, violenza e inquinamento atmosferico), questo film porta ancora quella ingenuità figurativa che era tipica in tanti anime degli anni '60 e '70. Ne è un esempio il fatto che, nella Valle del Vento, tutti gli uomini siano rappresentati con dei baffoni enormi in faccia. Mi ricorda lontanamente come Leiji Matsumoto - anche il suo stile è figlio di un filone dell'animazione assai datato - sia solito rappresentare (a parte poche eccezioni) i personaggi secondari bassi, piccoli e brutti: in grande contrasto con i personaggi più importanti, che invece sono di bell'aspetto.
Questa lieve ingenuità figurativa, insieme a quella leziosità che ricorda un po' la "Heidi" nipponica del lontano 1974, forse stona un po' in un film come "Nausicaä". Non che essere infantile sia un difetto a prescindere, ma forse voler sembrare per forza un cartone animato per bambini, in un film che parla di problemi così seri, è un po' limitante. Anche se non lo ritengo un limite particolarmente fastidioso: il film è godibile comunque. Per certi versi, il fascino di Nausicaä sta anche in questo: in definitiva ella non rinuncia alla propria femminilità e alla propria gentilezza, ma non per questo è un personaggio debole.

Il ritmo narrativo è a volte un po' strano e forse poteva essere orchestrato un po' meglio. Giustamente c'è molta azione, ma c'è anche qualche momento più statico e non sempre è inserito bene.
La parte finale assume un po' troppo le tonalità di un deus ex machina, il che non è un problema di per sé, ma non si concilia bene in un contesto distopico. Il colore della veste indossata da Nausicaä cambia da un momento all'altro senza una benché minima motivazione o contestualizzazione, solo perché la trama richiede che la veste debba essere di un certo colore.
La conclusione, come in "La Principessa Mononoke", mi è sembrata un po' facilona e utopistica, ma comunque gradevole. E come in "Mononoke Hime", trovo che anche qui due ore di film non siano sufficienti affinché il potenziale di quest'opera venga sfruttato appieno.

I doppiaggi italiani non mi piacciono particolarmente, né quello della vecchia edizione Rai, un po' troppo artificioso nelle sue interpretazioni vocali e in alcuni momenti anch'esso un po' troppo lezioso, né quello targato Lucky Red, troppo letterale nelle traduzioni dei dialoghi. Nessuno dei due, comunque, rovina in maniera consistente la visione del film.

In generale, è davvero un bel lungometraggio: distopico nel senso educativo del termine e a tratti regala anche delle grandi emozioni. Forse non il capolavoro che molti dicono, per le ragioni che ho esposto; ma, per quanto mi riguarda, è un titolo che consiglio assolutamente.

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Ambientato in un futuro non così distante dalla nostra attualità, dalle tinte variopinte, pastellate e di sbiadite luci al neon, dove in lontananza si scorgono freddi scenari che vorrebbero ricalcare la classica visione di un cyber-mondo nipponico figlio della fine degli anni novanta (ma con poco successo), ci viene raccontata la breve vicenda di “Plastic Memories”, una storiella romantica camuffata da leggero, insipido sci-fi.
Il gusto pretto, cupo, gelido e virtuale dei prodotti degli ultimi trent’anni figli di “Blade Runner” qui viene quasi totalmente meno, lasciando spazio a una commedia dalle animazioni altalenanti (apprezzabili nei momenti cardine, capaci altrimenti di sfiorare appena la sufficienza), dalla cromatica pallida ma azzeccata, dalle acconciature bizzarre che dicono ben poco e dal plot talmente banale da non riuscire mai a stupire, nonostante la più che buona gestione della vena drammatica presente soprattutto nella seconda metà della sua interezza.

“Plastic Memories” non è assolutamente un prodotto da bocciare: sebbene in dose minima, v’è un pizzico della caducità e del decadimento che il grande Ridley Scott - tramite Roy Batty e il mitico Deckard - ci fece amare attraverso il magnifico e glorioso “cacciatore di taglie” Blade Runner, poc’anzi citato - ed è doveroso rimarcarlo nuovamente, poiché è ai celeberrimi “replicanti in servizio” che quest’anime chiaramente si ispira, senza mai osare avvicinarsi neanche lontanamente. Si desidera mantenere la vicenda esclusivamente adolescenziale, romantica e leggermente avventurosa (con picchi di pathos e azione proprio a metà serie), senza mai addentrarsi negli oscuri, piovosi e terribili meandri del cyberpunk puro: scelta ovviamente voluta, desiderando mantenere un determinato target fino alla fine.

Non si chiamano “replicanti” ma “giftia”, e il loro ciclo vitale è di 81920 ore. Il protagonista della vicenda è un adolescente di nome Tsukasa, che entra a far parte di un ufficio adibito proprio al recupero dei giftia a fine ciclo, che poi saranno riprogrammati per una nuova esistenza, dimenticando ergo la vita precedente e ripartendo da “zero”.
Probabilmente “Plastic Memories” fallisce proprio nei personaggi (non tutti, ma solo con alcuni), troppo banali e stereotipati per suscitare grande interesse. Tsukasa è il classico ragazzo dal bell’aspetto, zuccherosamente gentile, il solito imbranato con quel fare da stoccafisso piatto e anonimo di cui probabilmente si invaghiranno più di una delle controparti femminili presenti nell’anime. I suoi buoni propositi sono encomiabili, il faccino pulito da bravo ragazzo e il suo innaturale imbarazzo lo rendono estremamente noioso: come lui ne abbiamo visti a decine in passato, e a decine ce ne siamo dimenticati poche settimane dopo.
Non che i comprimari brillino di luce propria: direttamente da “Neon Genesis Evangelion” troviamo ivi la brutta copia di Asuka (stessi capelli, stesso caratteraccio da tsundere in preda agli ormoni e all’umore cangiante, stesso disagio nel relazionarsi al prossimo, ma un cuore insospettabilmente gentile); poi ecco Isla, la co-protagonista “loli” su cui verte tutta la vicenda e di cui nulla pare davvero originale. Annotiamo poi la presenza del solito collega di lavoro più anziano, navigato, donnaiolo, sempre mezzo ubriaco e dalla capigliatura incomprensibile; non manca la sua versione femminile dai capelli rosso fiammante e dal passato travagliato, e così via discorrendo. Sia chiaro: non che l’intero entourage sia piatto e insulso, ma si percepisce che, con un po' più di originalità, coraggio e desiderio di variare, i risultati sarebbero stati sicuramente più intriganti.

I tredici episodi si snodano attraverso un mix di (superficiale) approfondimento dei loro caratteri, di momenti tristi, talvolta drammaticamente strazianti, di attimi di serenità preziosa, e non manca un po’ di umorismo a bilanciare il tutto, nonostante esso si riveli sovente una sequenza di gag incredibilmente banali, talvolta infantili o incentrate su doppi sensi erotici da terza media. I personaggi spiccano raramente, la qualità delle animazioni non sempre aiuta a sorprendere e focalizzare sulle loro emozioni, anche se, nel complesso, la somma di tutti questi elementi genera un totale sufficientemente godibile.

La cosa migliore di “Plastic Memories” rimane quindi la diatriba morale riguardo i giftia. Il “cogito ergo sum” cartesiano si ripropone in forma differente, ma il dilemma etico è quello che da sempre riempie l’immaginario umano: l’intelligenza artificiale può davvero sostituire quella umana, e un “robot” che si comporta, ragiona, pensa e vive come un essere umano può essere considerato a tutti gli effetti uguale a un essere umano?
In un futuro prossimo dove questa tecnologia ormai è divenuta eccezionale, quando l’IA è dispone di capacità identiche a quelle dell’intelletto umano, distinguere l’organico dal cibernetico è quasi impossibile. E allora ecco che l’artificiale si sovrappone, appanna e confonde, e ci si ricorda che, quando l’uomo oltrepassa la linea che lo differisce dagli dei, finirà per forza di cose per fare i conti con la propria moralità.
Fino a che punto ci si può spingere per far felici noi stessi? Di quanto egoismo si deve disporre per riempire i nostri vuoti con surrogati artificiali che col tempo cominceremo a ritenere identici se non migliori di noi? E una volta che le differenze diventano impercettibili, cosa accade? Film, romanzi e fumetti di gloriosi autori ce ne hanno parlato ampiamente, nel corso degli anni. Le leggi dello stesso Asimov riecheggiano come un monito fantascientifico ma quanto mai reale, dove spingersi troppo oltre potrebbe mettere a rischio la percezione dell’umanità come noi oggi la intendiamo.
Sono domande spontanee che ci siamo fatti tutti almeno una volta nella vita. Se le macchine potessero parlare e pensare, cosa ci racconterebbero? Se un computer dall’aspetto identico a quello di una donna attraente, dall’odore calamitante, dalla superficie simile a una pelle morbida e vellutata e dalla profondità cibernetica pari alla rete neurale di un essere umano potesse parlare e interagire con noi, cosa ai nostri occhi lo renderebbe differente da una donna in carne ed ossa? Il suo concepimento? Il materiale di cui è composta? O il fatto che gli stessi esseri umani sono non genitori, ma dei-creatori di questa creatura?
In “Plastic Memories” siamo andati oltre i dilemmi morali, e nell’universo in cui Tsukasa, Isla e compagni vivono, i giftia sono considerati ormai al pari degli esseri umani, ma si mantiene un occhio di riguardo quando il ciclo vitale è al termine, onde evitare scompensi di sistema o ancor più singolari e problematici accadimenti che inevitabilmente sono legati al malfunzionamento di una “macchina”.
Umanizzare una creazione artificiale la rende viva e identica a noi a tutti gli effetti, con quel rischio tenero, dolce e pericoloso di potersi affezionare ad essa. E quando il ciclo del giftia termina, è come se sopraggiungesse una sorta di morte in tutto e per tutto, in attesa di una reincarnazione artificiale che tuttavia non esclude l’immenso dolore di chi deve accommiatarsi da esso.
Se c’è una cosa che senza ombra di dubbio accomuna repliche ed esseri umani, è sicuramente l’astratto concetto di “morte”. Un rintocco inevitabile e necessario per poter valorizzare la vita stessa. Un essere umano non conosce il giorno esatto in cui morirà, e per fortuna, potremmo dire. Probabilmente, esserne a conoscenza potrebbe dimostrarsi un fardello troppo atroce per la psiche, mentre per i giftia non pare essere così.
Con un concetto di fondo simile, l’intero prodotto acquista più credibilità, peccato però che siano evidenti alcune forzature di trama, un deus ex machina atto a incanalare e mostrare questo genere di situazioni, e non sempre tutto scorre in modo naturale.
La gestione dei tempi non è male: pause, tempi morti e flashback vengono utilizzati in modo più che gradevole; raramente il ritmo si scopre poco chiaro o confusionario, ma, come anticipato, è la storia d’amore a far da padrona. Intuibile inizialmente, blanda poi, crescente e anche capace di commuovere nella seconda parte: la parte finale è il pezzo forte, nonostante un finale telefonato e per nulla sorprendente, ma che calza perfettamente.
Il comparto sonoro non è deludente, ma poco ci manca: poche tracce memorabili, qualche momento degno di nota, ending e opening carine, ma niente di trascendentale.

I ricordi possono essere armi a doppio taglio: più belli essi sono e tanto ci scaldano il cuore, più possono rivelarsi fonte di dolore, se legati a qualcuno che è non più al nostro fianco. Una riflessione che tutti conosciamo, ma che spesso non ci sovviene, e che in “Plastic Memories” torna a galla nei momenti clou, regalandogli un’ampia sufficienza, ma nulla più.
Un lavoro moderatamente apprezzabile, che non mancherà di intrattenere e alleggerire. Consigliato più a chi predilige storie romantiche adolescenziali che sci-fi vero e proprio, nonostante lo stampo sia similarmente futuristico e vagamente cyber.

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Come si può creare la società “perfetta”? Può l’uomo considerarsi la specie predominante del pianeta, senza fare uso di violenza verso i propri simili? Può instaurare una sorta di gerarchia apparentemente funzionante e pacifica, che permetta un avanzamento migliorativo del pianeta?

Queste sono le domande base di “Shinsekai Yori”, opera del 2012, tratta da un romanzo di Yosuke Kishi. A differenza di trasposizioni animate tratte da fumetti, o originali, le radici di questo titolo influiscono facilmente sul tipo di narrazione proposta, che offre sì svariate scene d’azione (per quanto poco adrenaliniche), ma si basa quasi completamente su spiegazioni e dialoghi dettagliati. Il che costituisce, insieme a un ritmo decisamente lento e verboso, e a tematiche piuttosto mature, uno dei motivi per cui la serie viene spesso snobbata dalla massa, in favore di titoli più commerciali.
La trama vede per protagonista una società futuristica che, in seguito a una specie di apocalittica catastrofe, appare come in decadenza, seppur controllata da una ferrea gerarchia di persone. Protagonisti sono cinque ragazzi, Saki, Shun, Satoru, Mamoru e Maria, dapprima bambini e poi adolescenti che, come qualunque altro personaggio presentato, detengono il “potere degli dèi”, ovvero la telecinesi. Inizialmente, la storia procede lenta e senza particolari colpi di scena; la società in cui i ragazzi vivono è apparentemente perfetta. Ma pian piano vengono fuori le prime falle. Al fine di evitare aggressività negli individui, e violenza gli uni verso gli altri, si impone una sorta di controllo mentale che oltretutto incita alla sessualità precoce (anche tra individui dello stesso sesso), per rilasciare gli istinti in maniera controllata. Anche gli omicidi tra esseri umani vengono bloccati dal limitatore biologico, che farebbe morire chiunque nutra il desiderio di eliminare un individuo.

Ma ecco che viene fuori la duplice critica di cui “Shinsekai Yori” si fa carico: la prima verso la società, la seconda - benché molto più marginale - verso la religione (qui rappresentata dal monaco che, pur di preservare i segreti della società, ruba i poteri ai protagonisti, perché non possano maturare una propria individualità che si ribelli alla vita collettiva imposta da altri). In questa istituzione apparentemente perfetta, la perfezione si preserva eliminando tutto ciò che costituisce un ingranaggio rotto, tutto ciò che è diverso, tutto ciò che è sovversivo. Gli individui che non sono in grado di conformarsi al sistema vengono isolati o eliminati, di modo che i singoli non possano distruggere l’ingranaggio generale che muove le fila. Anche il semplice adattarsi con difficoltà costituisce vergogna: basti pensare alla Saki di inizio serie che, ottenendo il proprio potere in ritardo rispetto ai suoi amici, si intristisce credendo di non poter essere all’altezza degli altri.
Ma è proprio nel momento in cui vengono a galla queste macchinazioni da parte di chi “sta in alto”, che i protagonisti iniziano a domandarsi se questa società funzioni davvero, se rispetto al mondo distrutto che vi era una volta ci si è mossi verso un miglioramento effettivo, o se invece c’è stato un decadimento dell’umanità. E oltre ad interrogarsi sulla legittimità di una società così disfunzionale, l’anime scava molto più a fondo, andando a proporre riflessioni sulla natura umana.
I personaggi in questo senso vengono analizzati piuttosto bene. Alcuni, in effetti, risultano stonare un po’, in quanto analizzati senza particolare perizia in un contesto così affascinante; altri, come la stessa Saki, crescono a poco a poco, maturando sempre più quale debba essere il proprio ruolo, e quello dei “subordinati”. Questi ultimi sono i mostroratti, esseri deformi e mostruosi che, non possedendo il potere degli dèi, vengono considerati alla stregua di schiavi, e venerano gli umani come dei, non avendo la forza di ribellarsi.
Ma è proprio in questo scenario che fa la comparsa Squealer, forse il personaggio più riuscito di tutta la serie. Manipolatore, codardo, viscido, orribile e ripugnante: questo è come ci appare per tutta la durata dei venticinque episodi. Eppure, Squealer è forse quello che più rappresenta l’eroe. Novello Prometeo, Squealer intende ribellarsi dalla sua condizione di schiavo e sottomesso, non accettando più la mortificazione della carne e dello spirito in favore di persone che si credono gli dèi di una società così fasulla.
Ed è in fondo proprio grazie a Squealer se viene fuori la tematica migliore della serie, l’equilibrio tra bene e male. Sostanzialmente, in moltissime serie, o film, o romanzi, la distinzione fra le due è sempre precisa e ovvia. “Shinsekai Yori” invece dimostra che non tutto debba essere per forza bianco o nero, ma che esistono le sfumature. Non si può essere solo buoni o cattivi, solo eroi o carnefici, e chi si autoproclama come eroe di una società perfetta, promuovendo la non-violenza, non per forza sta facendo del bene.
Sono sostanzialmente bugia e ignoranza a far funzionare le cose, e la sapienza che viene ricercata da Saki è punita severamente: “Ognuno muore senza comprendere nulla. È così che funziona il mondo, dopotutto” (Yusuke Kishi)

Purtroppo, tra i motivi per i quali la serie non ha ricevuto un enorme successo nonostante la sua potenza verbale e visiva, c’è anche quello della poca cura tecnica riservata alle animazioni, che rendono davvero indigesti alcuni passaggi. Ed è un peccato, perché, in compenso, l’uso dei colori è magistrale quanto la colonna sonora, in cui peraltro compare come leitmotiv il pezzo di Antonin Dvorak, “From the New World”, che dà anche il titolo alla serie. Pezzo musicale che, peraltro, compare in “Mawaru Penguindrum” proprio in una scena che presenta tematiche molto simili a quelle proposte qui, ovvero il terrore di come un personaggio “diverso” possa essere eliminato, per non distruggere un meccanismo funzionante.

Sostanzialmente, se si chiude un occhio su questo evidente difetto e non si è allergici a ritmi molto lenti, per quanto ricchi di plot twist, consiglio caldamente la visione a chi se lo fosse lasciato sfuggire.