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Quando un titolo fa leggenda è difficile da dimenticare, forse per obliarlo davvero è meglio concepirlo in tutte le salse e combinazioni possibili in modo da consacrarlo a una sorta di <i>damnatio memoriae</i> per nausea. In fondo Kurumada e la TMS hanno fatto questo su Saint Seiya. Un titolo che aveva avuto grande fortuna e che aveva segnato la storia dell’animazione di genere shounen è stato perpetrato fino ai nostri giorni, suscitando la felicità di fan fedelissimi e la repulsione di quelli che una volta l’amarono, ma che in seguito si sono fatti apostati per seguire anime che magari proponessero qualcosa di più innovativo.
Lost Canvas, il tanto acclamato remake <q>alternativo</q> della serie storica di Saint Seiya, con la sua entrata in scena prometteva a tutti gli amanti e non di Kurumada novità strabilianti. Ma di fatto non è stato così. Come per qualsiasi prodotto legato a un titolo importante, un sequel se non sa rompere con la tradizione rischia di essere ridondante. Allora l’altra strada percorribile resta quella della furbizia, l’astuzia degli specchietti per le allodole.

Analizzando i primi minuti di OAV ci si accorge che in effetti Aaron ricorda molto nelle fattezze delicate e quasi femminee Shun, oltre che per il ruolo nel plot; Tenma, invece, si smentisce in maniera spudorata dopo i primi due secondi: ecco il Seiya vanaglorioso, signor <q>ci penso io, ché sono più forte</q> della situazione. Ah, mancava anche la cozza, che qui effettivamente ha fatto una bella muta. Sasha, alias Atena, rispetto alla vecchia e datata Saori, è molto più fresca e determinata. Possiede l’umanità che mancava all’ <q>antenata</q>e quella risolutezza divina che in Saori si eclissava nella mollezza da gatta morta.
Dopo questo bel siparietto, lo spettatore tanto affezionato alla serie classica aspetta i Gold, sperando che abbiano un ruolo di tutto rispetto, che il signor Kurumada effettivamente ha sempre negato loro. Già, i Gold Saints sono troppo forti per essere i protagonisti, facciamoli morire in maniera immotivata e lasciamo campo ai Bronze che vincono con le ciance. Ci si aspetta adesso una specie di redenzione degli stessi dopo la brutta fine di Aphrodite e di Aldebaran nel capitolo di Hades, per esempio. Ma in Lost Canvas proprio su Aldebaran è meglio calare un velo pietoso, visto che di pietismo ne ha da vendere.

In sé, poi, l’impostazione del ritmo narrativo non sarebbe così sbagliata, se non fosse per la pecca per la quale spesso azione e suspense lasciano il posto a gag tristissime e inutili su Tenma e Yato, che spezzano un andamento più epico della trama e la caratterizzazione di altri personaggi ben più interessanti.
Tutto sommato gli spunti c’erano, se si fossero approfonditi e portati avanti la serie non avrebbe rasentato la mediocrità che tocca appena la sufficienza. Personaggi come Albafica o come Asmita non si possono dimenticare per la grandezza e per la profondità caratteriale con cui erano stati abbozzati. Si tratta infatti di una sola bozza perché l’arco temporale che li vede davvero protagonisti è composto da un solo OAV, troppo breve per raccontarne di più. Ma gli OAV che li vedono protagonisti sono gli unici motivi per vedere il Lost Canvas. Albafica è il degno predecessore di un Aphrodite smidollato e femmineo. Pur conservandone la bellezza al suo aspetto si aggiungono le note drammatiche di un’avvenenza che nasconde un incanto doloroso, in quanto foriera di morte. Il fascino sinistro delle rose viene approfondito in tutte le sue potenzialità distruttive, provocando risvolti tragici. Albafica esce di scena nel migliore dei modi, lasciando il posto a uno Sion che ha ancora troppo da dire, e rimane muto.
Asmita, altro personaggio incredibilmente profondo, è davvero il gioiello della serie, un gold regale che rimarrà ineguagliato per sapienza e carisma da tutti gli altri. E gli altri purtroppo non hanno lo spazio che meritano, si limitano a ricalcare i soliti stilemi narrativi della serie e del manga classici, non lasciando spazio a dissonanze narrative dalla trama di base.

In parole più povere Lost Canvas non è altro che la serie di Hades disegnata molto meglio e con una grafica degna di essere così nominata. Gli sfondi sono notevoli, c’è da ammetterlo, così come la fotografia e le animazioni. Per la prima volta dopo vent’anni certi duelli si fanno notare per la dinamicità e per la distruttività degli scontri. Certo, questi meriti purtroppo non sono costanti, colpa della direzione a varie mani – e chi più ne ha più ne metta - di tutti gli OAV, sia per quanto riguarda la regia sia per le animazioni. Così i picchi registici degli OAV incentrati su Asmita e su Albafica lasceranno la desolazione del prosieguo per ciò che riguarda quest’aspetto. Il chara, di Yuko Iwasa, è abbastanza piacevole, e tutto sommato non molto lontano da quello morbido e dolce della Teshirogi. La dolcezza delle espressioni è ragguardevole, c’è da ammetterlo, anche se la scarsa qualità si fa sentire incidendo anche qui con qualche incostanza.
L’unico comparto che mantiene una certa continuità qualitativa è quello musicale, prodotto di Kaoru Wada. Le note musicali hanno un che di arcaico e calzano con le atmosfere e con i villaggi di fine Seicento. La ridondanza dei temi è evidente, ma tutto sommato, essendo le melodie gradevoli, non irrita più di tanto.

A conti fatti Lost Canvas non si adorna di altro che di un bel vestito, che copre qualcosa di già visto, la cosa più importante. In fondo ciò che sta sotto non viene che dalla mente stanca o forse volutamente sterile di Kurumada. Ma prima o poi tutti i vestiti si sgualciscono, e questa serie con l’andare degli OAV porterà alla mediocrità anche il comparto tecnico, giusto per bilanciare la carenza narrativa. Dunque la sufficienza è la massima meta cui questo titolo può ambire, voto che emula l’apatia che la serie può trasmettere a chi già conosce l’ormai barboso universo di Saint Seiya.