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L’anno è il 1988, il giorno è il 10 febbraio, un frenetico giorno feriale come gli altri in Giappone, con i treni al solito affollati di lavoratori e studenti pendolari. Eppure quel mercoledì mattina accade qualcosa di inusuale in determinate zone della metropoli: gli abitanti vedono per strada interi gruppetti di studenti che hanno saltato le lezioni, tutti con uno sorriso deficiente stampato in faccia e una camminata abbastanza sostenuta. Poteva capitare di vedere qualche studente marinare la scuola, ma mai in quella quantità, e di conseguenza arrivarono svariate segnalazioni alle forze dell’ordine, che “catturarono” non 20, non 50, ma la bellezza di 300 studenti, e chissà quanti altri sfuggirono all'arresto. Gli stupiti agenti si chiesero cosa avesse scaturito quella “bigiata” di massa fino a quando non si accorsero di una curiosità: ognuno di quei ragazzini aveva in mano o in tasca la stessa identica cosa, una confezione ancora avvolta nel cellophane, che racchiudeva un videogioco in uscita proprio quel giorno, un giorno feriale come tutti gli altri per la maggior parte della popolazione, ma non per quei ragazzini.
Quel videogioco era Dragon Quest III.

Un milione di copie nel suo solo giorno di uscita, mai prima di allora si era vista una cosa del genere, il mercato giapponese stesso non era preparato a questo vero e proprio fenomeno sociale. Le file davanti ai negozi di Akihabara, le aperture ad orari eccezionali, i telegiornali che per la prima volta ne parlano, la passione smodata per gli RPG, tutte queste cose che hanno contraddistinto il decennio successivo iniziarono da quel 10 febbraio 1988, da Dragon Quest III. Il gioco alla fine raccoglierà qualcosa come 3,8 milioni di vendite, una cifra assurda che raggiungerà solo il settimo capitolo, 12 anni dopo, a cui va aggiunto il milione e mezzo della versione Super Famicom e altre seicentomila della versione Game Boy, rendendolo il Dragon Quest più venduto di sempre, nonché quello generalmente più amato dai giapponesi.
Spiegare i motivi del successo di Dragon Quest sul popolo giapponese (e quindi degli RPG tutti) è cosa lunga, ma da cosa scaturì tutto questo hype proprio per il terzo capitolo? La motivazione è presto detta: Dragon Quest III narra l’avventura di Roto, l’eroe leggendario costantemente accennato nei primi due giochi, che avevano invece come protagonisti i suoi discendenti. Ecco quindi un’altra cosa inventata dal terzo Dragon Quest: il prequel. Permettere ai giocatori di vestire i panni dell’eroe che diede inizio alla stirpe dei Roto, seguendone passo per passo la crescita, fu una cosa nuova e incredibilmente stimolante, che unita all’ormai capillare diffusione del Famicom contribuì al successo del titolo; senza contare poi l’enormità del gioco, il ciclo giorno-notte, l’innovativo sistema di classi, la colonna sonora. Soshite Densetsu e, e così entrò nella Leggenda, come dice il sottotitolo di Dragon Quest III.

Non stupisce quindi il rapido interesse da parte dell’editoria manga nei confronti del franchise fin dal suo debutto, un legame naturale; lo stesso Yuji Horii, il creatore di Dragon Quest, per sbarcare il lunario curava una rubrica di videogiochi su Shonen Jump. Praticamente ogni capitolo della saga ha il suo manga di riferimento, la cui durata non superava però la manciata di volumi, che riassumevano gli eventi del gioco oppure proponevano vignette 4-koma con protagonisti i personaggi o i mostri della serie. Erano poco più che manga promozionali.
Nel 1989 però la svolta, con l’avvio della serializzazione di Dai no Daibōken (La Grande Avventura di Dai) su Shonen Jump, si prende atto del fatto che si poteva prendere in prestito il mondo di Dragon Quest per narrare storie del tutto originali, sulla scia del successo di romanzi seriali fantasy come Lodoss War e Arslan Senki, ma con quello stile fanciullesco di Akira Toriyama che contraddistingue il design della serie, in pieno Dragon Ball-boom. In pratica un mix vincente.

Nel 1991 debutta Monthly Shōnen Gangan di proprietà della stessa Enix, e cosa c’è di meglio di una serie basata su Dragon Quest per spingere la nuova rivista? Ecco quindi Dragon Quest Retsuden: Roto no Monshō a cura di Kamui Fujiwara (insieme a Chiaki Kawamata e Junji Koyanagi), mangaka con già una serie all’attivo (Raika), ma che da grande appassionato del videogioco non si fece scappare l’occasione di partecipare al colloquio della neonata rivista Enix.

Dragon Quest: L’Emblema di Roto, rispetto a Dai no Daibōken, si ricollega al videogioco Dragon Quest III, si svolge nel suo mondo, ne cita i personaggi e gli eventi, avvenuti un secolo prima, da qui tutta l’introduzione ad esso dedicata, doverosa. Di fatto si potrebbe dire che L’Emblema di Roto sia il vero Dragon Quest IV, il quarto capitolo della saga di Roto, almeno narrativamente. Ma questo non deve frenare assolutamente eventuali lettori del tutto ignari alla storia del gioco e alla sua mitologia, egregiamente introdotta in ciò che è sufficiente sapere, sia all'inizio del manga che durante il prosieguo del medesimo. L’autore evita di adagiarsi sul soggetto di origine, come fanno molti (orribili) manga odierni tratti dai videogames, ma anzi si prefigge lo scopo di superarlo, imbastendo una storia lineare, che si prende i suoi giusti tempi per non apparire un ”riassuntino” e in egual modo evitando troppe divagazioni, mantenendo costantemente un legame indissolubile con ciò che è Dragon Quest.

È passato circa un secolo dalla sconfitta di Baramos e del Re Demone Zoma, ad opera del Prode Roto e dei suoi compagni. Il mondo ha conosciuto un'era di pace, ereditata dai due figli del Prode, Carmen e Loran, la cui discendenza vanta la protezione della Sacra Rubiss. I due formarono gli omonimi Regni, che prosperano per decenni fino a quando il malvago Re Demone Imagine, tramite un subdolo piano, decide di maledire i due neonati delle rispettive stirpe, donando loro un nome maledetto. Grazie all'intraprendenza del generale Bolgoi e della sua giovane figlia Lunafrea, il piano di Imagine fallisce sul fronte di Carmen, seppur a caro prezzo per il regno. Arus, questo il nome del neonato discendente di Roto, perde infatti entrambi i genitori ed è costretto ad una gioventù in esilio, accudito da Lunafrea e il vecchio saggio Tarkin. Dalla parte di Loran invece, conquistata dall'esercito demoniaco, il nuovo nato avrà il nome maledetto di Jagan, conferendogli così un potere maledetto unito al sangue di Roto. Sono in arrivo tempi bui per l'umanità.

Riferendosi alla differenza tra il videogioco e la sua idea di manga, nella postfazione del volume 6 Kamui Fujiwara distingue le “piccole onde” dalle “violente onde che travolgono il lettore”, e in effetti L’Emblema di Roto ha un metodo di narrazione che potremmo definire alquanto brusco, rispetto ai canoni dello shonen contemporaneo, che non si risparmiano volumi di niente. In Roto tutto sembra al suo posto per un racconto di formazione fantasy: la presentazione dei protagonisti, la loro gioventù, l’immancabile addestramento, ma d’un tratto ecco un avvenimento (inevitabilmente negativo) che fa virare la storia verso il suo culmine, come a voler dare una spinta appena ne intravede un rilassamento. Del resto c’è un mondo in declino da salvare, non c’è tempo per una vacanza al mare per sfoggiare i bikini come in Fairy Tail; un importante lutto già nei primi volumi della serie e una sconfitta totale del protagonista sono solo due esempi di “onde travolgenti” a cui fa riferimento l’autore.

Ciò si ripercuote purtroppo sull’approfondimento dei personaggi stessi, ed è qui che Roto no Monshō perde il confronto con Dai no Daibōken, che al contrario cura maggiormente i suoi interpreti, la loro crescita e le rispettive relazioni. In Roto, a prezzo di una maggior fedeltà al videogioco e di una storia poco dispersiva, questi elementi appaiono più abbozzati, specie nei personaggi di contorno, a fronte però di un protagonista, Arus, pienamente riuscito in tutte le sue fasi. Giovanissimo eroe prescelto, Arus si presenta come il tipico eroe da RPG (appunto), senza particolari guizzi, inizialmente debole, ma che emana comunque quell'impressione di colui che se la caverà sempre e comunque, una volta con la tecnica dell’eroe (il celebre Raidein), un’altra grazie ai suoi compagni, e un’altra volta magari con una ingegnosa strategia. Tutte certezze però che crolleranno dopo, o per meglio dire durante, una pesante sconfitta subita dal suo acerrimo nemico, che si può considerare uno dei punti culminanti della serie.

In ogni shonen che si rispetti l’eroe subisce almeno una sconfitta degna di questo nome, è una prassi per la sua crescita, da Kenshiro con Shin, da Goku contro Tao Pai Pai, passando per l’ignaro Joseph contro gli uomini del pilastro, in Battle Tendency, e diversi altri, ma la sconfitta che subisce Arus ha in sé le caratteristiche dell’imprevedibilità (avviene dopo una grande vittoria, in un apparente momento di rilassamento) e soprattutto della totalità, sgretolando quelle che fino ad allora erano le sue convinzioni, le convinzioni dell’eroe prescelto che dovrebbe salvare il mondo, venendo sconfitto non solo sul piano fisico, ma anche su quello dello spirito. Come già accennato la stessa attenzione non viene riposta sui comprimari Yao e Kira, che non vanno oltre il loro ruolo di forti e affidabili compagni del Prode, mentre il mago Poron propone invece un percorso di crescita maggiormente approfondito.

Non che in L’Emblema di Roto manchino altre figure di spicco, oltre ad Arus, e legge vuole che per creare una grande storia servono grandi avversari. Jagan, perfetto come nemesi di Arus, il curioso e melanconico Re Drago con i suoi dubbi costanti, o il Re Bestia Gunung e il suo incrollabile orgoglio, il manga di Kamui Fujiwara non lesina di nemici di grande carisma come nella migliore delle tradizioni shonen e che alcuni di essi non mancheranno, decisamente, di riserbare qualche sorpresa.

Mangaka stilisticamente duttile, capace di passare in pochi anni dal surreale The Chocolate Panic Picture Show al rozzo ma suggestivo Raika, fino al realismo di Kerberos Panzer Cop, Kamui Fujiwara per il suo Dragon Quest prende prevedibilmente spunto dalla scuola di Akira Toriyama donando al manga un aspetto familiare ai fan del gioco, infondendovi però un suo stile riconoscibile. L’autore predilige un tratto meno caricaturale rispetto a quello (comunque riuscitissimo) di Dai, rimarcando una maggior fisicità negli scontri, ravvisabile in particolare nella massiccia e violenta (quasi Berserkiana) battaglia contro le bestie di Gunung. Grande cura viene riposta in armamenti e luoghi conferendo all’opera semplici eppur degne atmosfere fantasy, ed è lodevole come Fujiwara sia riuscito a trasmigrare su carta i luoghi e l'atmosfera del videogioco, avendo a disposizione solo la rudimentale grafica del Famicom, imprimendo su carta la sua passione nei confronti del videogioco con una bella aggiunta di pura immaginazione, allo stesso modo di come i videogiocatori, chiudendo gli occhi, immaginavano le loro avventure prendere vita da quella grafica 8-bit.

Star Comics ripropone L’Emblema di Roto in versione Perfect Edition dal novembre del 2015 a cadenza mensile, per 15 volumi complessivi. Scelta curiosa dacché il manga di Kamui Fujiwara (ospite a Lucca Comics 2015) non fu certo definito un best-seller all’epoca della sua prima pubblicazione, rispetto ad altre serie affini. Che sia un tentativo di rilancio sul suolo italico dell’intero franchise di Dragon Quest, congiunto ai videogames (Dragon Quest Heroes disponibile per PS4, VII e VIII in arrivo sul 3DS) lo si potrà dire solo negli anni a venire, in caso l’editore decida di pubblicare altri manga del filone, a partire dallo stesso sequel di Roto. Nel mentre questa edizione si presenta bene come nello standard delle altre Perfect Edition della casa editrice, che a fronte di un prezzo in lieve rialzo (8 euro invece dei canonici 7) propone una rilegatura robusta, pagine a colori, copertine in rilievo, tavole ritoccate per l’occasione e interessanti aneddoti dell'autore a corredo. Si storce il naso giusto dinnanzi al numero variabile delle pagine, che passa dalle 370 del primo volume, alle circa 240 del numero 6, per poi risalire a 300, creando un vistoso distinguo di dimensioni tra gli stessi. Le splendide copertine della vecchia edizione, che avevano la particolarità di essere orizzontali allo scopo di richiamare le cover dei videogiochi Famicom, lasciano come sempre accade per le Kanzenban il posto a nuove copertine, spesso raffiguranti un solo personaggio o un paio al massimo. Il font per la numerazione e la scelta cromatica del blu non sono tuttavia casuali dato che vanno a creare sinergia con quelle del sequel, se mai verrà pubblicato.

Sul fronte adattamento, tramite questa edizione è invece tutto di guadagnato. Vuoi per inesperienza con il brand di Dragon Quest (del resto nel 1998 non ne era arrivato uno sul nostro mercato), vuoi per scelte di adattamento non sempre condivisibili, la vecchia edizione de L’Emblema di Roto conteneva diversi errori di gravità variabile, facilmente sgamabili però da un lettore più attento. Le scelte di trascrivere letteralmente alcuni nomi (come è il caso “Ribaiasan” invece del ben più familiare “Leviathan”, o “Saabain”/“Servine”), lasciano oggi il posto ad adattamenti più affini al contesto fantasy del manga e più fedeli in quei casi in cui i termini provengono dal videogioco, come è il caso della Sacra Rubiss (Genio Lubis nel vecchio adattamento), il regno di Alefgard (prima Alefguard), Re Demoni allora definiti Re Magici per la solita questione del maoh/maou.

Per atmosfera Dragon Quest non si poteva chiedere di meglio, Roto è un rimarchevole modello di un genere cui tuttora si necessita di esponenti, con quei mondi fantasy cavallereschi dove non sei Re se non hai la barba, ma che si fa fatica a trovarne, di così ben fatti. La sagoma di Akira Toriyama è vigente, pur stante una avvisabile difformità di tratto e di stile: Kamui Fujiwara assimila un mondo a lui caro e lo esalta su carta. L’approfondimento dei personaggi oltre il Prode rasenta l’appena indispensabile, succube comunque di una ricercata idea di scorrevolezza, raggiunta a pieno regime da questi volumoni consumabili in un niente, e finito uno ne vuoi ancora. L’Emblema di Roto è questo, attinge da un prodotto altrui, ma rispetto ad altri riesce a preservare la dignità creativa dell’artigiano.