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3.0/10
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"Judge" di Yoshiki Tonogai è come un giovane Mario Balotelli, o il trailer di "Batman vs Superman": un titolo che nei suoi primi attimi promette di essere uno dei più interessanti che abbia mai letto, ma che giunto alla prova del nove svela la maschera e mostra tutte la sua banalità e inadeguatezza, lasciando in chi lo legge l'amaro in bocca e la sensazione di essere stato preso in giro per tutti e sei i volumi.

I primi capitoli di "Judge" mi avevano attratto, inducendomi a credere che Tonogai fosse riuscito a imparare dagli errori commessi in "Doubt" (trama non innovativa e a volte copiata, situazioni telefonate e disegni in cui si faceva fatica a comprendere cosa stava accadendo) salvandone gli elementi positivi (come l'indubbia capacità di tenere alta la tensione della storia) e unendo a questo un racconto molto più psicologico e approfondito. La premessa era semplice e accattivante: il protagonista, colpevole di aver contribuito (a causa della sua gelosia) alla morte del fratello, e altri otto ragazzi vengono drogati e si risvegliano rinchiusi in vecchio tribunale; una voce metallica li informa che sono lì perché tutti hanno commesso dei crimini che devono espiare attraverso un processo. Dall'edificio solo quattro persone potranno uscire vive, mentre le altre verranno uccise. A decidere della vita e della morte di ciascuno saranno gli stessi imputati, che ogni ora voteranno a maggioranza per decidere chi dovrà essere ucciso. Partendo da qui la strada dell'opera mi sembrava tracciata: immaginavo già lunghe discussioni, digressioni a spiegare il passato, le colpe e i caratteri dei vari personaggi (perché solamente del protagonista Hiroyuki Sakurai si sa veramente qualcosa), una riflessione su quale sia il peccato più grave oltre, naturalmente, ad alleanze e strategie per salvarsi; ma solo quest'ultima parte pare interessare un minimo a Tonogai.

In un'opera con una promessa del genere, infatti, è veramente irritante costatare il piattume generale che affligge il protagonista e tutti gli altri personaggi, che non sono approfonditi minimamente dall'autore (tanto che, giunti al termine, delle storie laterali degli altri prigionieri si ricorda ben poco). Quello che poteva essere un thriller psicologico con una buona dose di originalità torna poco a poco sui binari già tracciati da "Doubt", con colpi di scena banali e telefonati, evoluzioni dei personaggi poco realistiche e azione e disegni confusi; il tutto peggiorato dall'introduzione (buona solamente ad allungare il brodo) di nuovi personaggi ancora meno esplorati dei primi. Come già successo nell'opera precedente, l'unica nota positiva è la capacità di Tonogai di tenere alta la tensione tra un capitolo e l'altro, ma trasformare quello che poteva essere un horror/thriller psicologico di buona levatura in una fiera della banalità è un peccato troppo grande da ignorare. E se "Doubt" poteva essere catalogato come errore di gioventù, "Judge" non è altro che un diabolico perseverare.