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Per me, cresciuto a pane e Cavalieri dello Zodiaco, con l’inizio della “Galaxian War” a fare da portale d’ingresso al mondo degli anime giapponesi, il brand “Saint Seiya” è una cosa seria. Nella mia visione del mondo i Gold Saint hanno su scritto la parola ‘fragile’ e sono da trattare con estrema cura. Reduce da due diverse esperienze spin-off dal sapore opposto - l’ottimo, sottovalutato, “Lost Canvas”, e il pessimo, sopravvalutato, Saint “PJ” Seiya “Mask” Omega - timori e speranze si affastellavano alla vigilia della visione di “Soul of Gold”. Avere solo tredici puntate ONA per esplorare il cosmo e i nuovi Cloth dei Cavalieri d’Oro ad Asgard non deponeva a favore delle più rosee aspettative, spingendo l’impressione preliminare verso il “commercialata/nuovi modellini da vendere”. Premesse non ottimali che, fortunatamente, sono state contraddette dalla visione del prodotto.

Sgombro immediatamente il campo da almeno due equivoci.
La qualità tecnica dell’opera non è granché (ho comunque notato dei netti miglioramenti dalla versione originale a quella Blu-ray). Si salvano le armature, il character design dei personaggi e qualche sfondo e animazione nelle puntate finali, nonché la buona colonna sonora.
In generale è ormai un dato di fatto che la nuova frontiera di buona parte dell’animazione di massa giapponese è in piena continuità con il profilo low cost. Si tratta di un elemento da tenere in considerazione, purtroppo, ma penso debba diventare secondario nell’approccio a opere di questo tipo, facendoci propendere per altre variabili - soggetti/trama, caratterizzazione, qualità e evoluzione dei personaggi ecc. - in sede di giudizio.
Inutile poi fossilizzarsi sulla profondità complessiva del prodotto. Caratterizzare al meglio i dodici protagonisti, i rispettivi antagonisti e lo scenario/contesto della nuova vicenda in tredici puntate sarebbe stato utopico; da qui i combattimenti stentati e qualche manchevolezza logica a livello di trama.

Vorrei quindi concentrarmi sugli aspetti positivi e in particolare sulla ventata di freschezza che attraversa i contenuti dell’opera. Dovendo acconciare le classiche ‘nozze coi fichi secchi’, gli autori hanno pescato bene, restituendoci una visione complessiva dei Cavalieri d’Oro più umana e evoluta. Riproporre la marzialità e il valore cavalleresco dei soliti ‘Saga’, ‘Shura’, ‘Camus’, ecc., la misticità di Shaka, l’irruenza di Milo e Aioria, ecc. sarebbe stato più facile, ma avremmo mangiato la solita zuppa d’oro dai condimenti triti e ritriti.
Si è cercato invece di dare una luce diversa che avrà scontentato qualche purista, ma ha permesso di esplorare aspetti differenti e umani di personaggi dal carisma strabordante. Mai avrei pensato ai Gold Saint che nelle lande di Asgard comprano fiori, s’innamorano, bevono, giocano a carte e brindano al bancone di un bar come ragazzi normali. Col senno di poi, un salto nel buio che avrebbe potuto condurre l’intera opera verso il baratro e che invece, a mio parere, l’ha salvata.

L’emblema di questo nuovo paradigma si è evinto in particolar modo negli episodi dedicati ai quattro Gold Saint più bistrattati nella serie classica: Aldebaran, Deathmask, Aphrodite e, in misura minore, Dokho, nella sua veste di cavaliere “young” della Bilancia.
Aldebaran mostra finalmente i tratti completi della sua personalità e quella risolutezza spesso annacquata dalle diverse sconfitte patite nella serie classica (lo schiaffone alla Bud Spencer è un’opera d’arte).
Deathmask mantiene i vecchi difetti, ma completa quel passaggio al lato luminoso della forza dopo che per anni lo si è dipinto come un meschino sbruffone privo di valori (un adorabile perdente per alcuni). Scopre l’amore e per questo torna a combattere. A ben vedere è ancora una scelta egoistica in linea con il personaggio, ma si tratta di egoismo ‘buono’, tanto da meritare nuovamente la fiducia dell’armatura del Cancro e arrivare finanche a inventare un nuovo colpo. Alla fine cade da eroe, e dalle mie parti questa si chiama evoluzione del personaggio.
Aphrodite, il Gold Saint meno approfondito della serie classica, dove è liquidato superficialmente come un mero narcisista un po’ infido, si scopre qui un fine stratega dotato di intelligenza e ottime capacità di previsione. Potrebbe essere il capo dei servizi segreti del Santuario, che punta sull’acutezza della mente oltre alla semplice forza del cosmo, rappresentando così un elemento mancante nel puzzle di personalità e caratterizzazioni dei Gold Saint. È proprio Aphrodite il saint che esce meglio da questa avventura, ricevendo un vero e proprio upgrade.
Infine Dokho, seppur esplorato di meno, mostra una personalità antitetica a quella del vecchio e saggio maestro. Giocoso e spiritoso, avrà fatto storcere il naso e scontentato non poco i puristi, ma a me è piaciuto.
Gli altri Gold Saint infine non sfigurano, seppur abbastanza in linea con le precedenti caratterizzazioni, con Aioria protagonista non invadente (come invece lo sono i cavalieri di Pegasus nelle altre serie), degno epitome dell’eroe.

Mi ha sorpreso questa ventata di aria fresca nel cosmo variegato de “I Cavalieri dello Zodiaco”. Potrebbe essere stato un colpo di fortuna non voluto, ma il risultato, date le premesse, è stato a mio parere ottimo. La testimonianza che, pur senza introdurre nuovi personaggi, protagonisti o temi particolari, il brand “Saint Seiya” può ancora riservare sorprese, e chissà se un domani, alla luce di questo esperimento, non si possa dedicare uno spin-off ad altri protagonisti offuscati delle note vicende cosmiche: Bronze Saints di serie B (Unicorno e company), sto pensando proprio a voi.