Recensione
Momotarou no Umiwashi
9.0/10
La Storia la scrivono i vincitori. Se le vicende degli ultimi decenni (o secoli) si fossero svolte in maniera diversa o addirittura opposta, forse la nostra percezione delle cose, i nostri libri di scuola, e perfino la cultura popolare parlerebbero un linguaggio diverso.
Cosa succede allora se si dà un'occhiata alla versione dei vinti? Si riescono a capire le ragioni della sconfitta? O magari si scopre che la semantica, la retorica, i punti di vista sono inquietantemente simili a quelli dei vincitori?
Se si parte da questa premessa, vedere "Momotaro no Umiwashi" diventa qualcosa di più che una semplice operazione cinefila di recupero.
Prodotto nel 1942 e rilasciato il 25 Marzo 1943 (quando la guerra cominciava a prendere una piega sempre meno favorevole per il Giappone), è un lungometraggio di circa trentasette minuti. Un filmato cinematografico di propaganda realizzato in collaborazione con l'allora Ministero della Marina e l'approvazione della Marina Imperiale per la regia di Mitsuyo Seo, uno dei progenitori degli anime, già all'epoca veterano dell'animazione e autore di cortometraggi patriottici e del primo cartone animato giapponese con il sonoro parlato.
Si tratta di un'opera dal valore notevole, sia dal punto di vista storico che tecnico, considerata l'epoca di realizzazione.
La trama riprende il racconto tradizionale giapponese dell'eroe popolare Momotaro, già protagonista di mediometraggi dagli Anni Trenta. Il celebre guerriero assume qui il ruolo di generale in capo in un attacco militare moderno della marina imperiale contro i tradizionali Oni. Al suo fianco le sue celebri spalle: cane, scimmia e fagiano (a loro volta affiancati da plotoni di loro simili e da truppe di conigli), un po' macchiette, un po' eroici scudieri.
L'attacco, portato con "efficienza" e una rapidità da blitzkrieg, è ovviamente un successo su tutta la linea, e i nostri eroi fanno ritorno per godersi gli allori della vittoria.
Evitando giudizi storici e facili categorizzazioni, si superano facilmente tutte le esaltazioni e le allegorie di stampo militarista e imperialista per godere di una traduzione che, pur essendo totalmente parziale, ci consente di aprire una pagina di Storia sulle macchine di propaganda della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso sul loro intervento nel mondo dell'infanzia. Concepito per essere un prodotto per "educare" i bambini sul loro posto nella Storia, il film è un'evidente "versione dei fatti" dell'attacco di Pearl Harbor.
Laddove i Giapponesi sono impersonati dai loro archetipi samurai (presi in prestito dai loro topoi antropologici), gli americani sono trasfigurati negli Oni della tradizione, unendo così l'utile al dilettevole, col risultato di esorcizzare la figura del nemico due volte: secondo la struttura della trama base di Momotaro e, a livello rizomatico, facendo un parallelo con entità soprannaturali che per definizione sono altre, aliene, e quindi "non umane".
Il paragone storico è chiaro e non fraintendibile. Così come già sperimentato in altri cortometraggi di propaganda, come "Omocha-Bako", troppi sono i riferimenti volti a identificare il nemico a stelle e strisce. Se a suo tempo fu niente meno che Mickey Mouse a divenire l'emblema del Male, del "cattivo" spregevole e crudele, qui è facile identificare uno dei marinai nemici con le sembianze di Bluto, la nemesi di Braccio di Ferro (Popeye), volgare e laido esattamente come il suo modello originale.
Tutto ricalca quindi un modello già sperimentato e che non era certo ignoto alla propaganda d'oltreoceano, anch'essa poco lusinghiera nei confronti delle forze dell'Asse e dei Giapponesi in special modo.
La semplificazione tematica e narrativa è compensata da una cura particolare dei dettagli. Tutto è volto alla ricostruzione, per quanto edulcorata, di un vero scenario bellico di quel tempo. Le tattiche, le armi, i veicoli, gli interni, i riti gerarchici, le strutture, le procedure, tutto è realizzato con l'intento di fornire un quadro generale che, seppur semplificato dal medium animato, punta a un realismo nella resa che gioca un ruolo fondamentale nell'economia dell'opera, divenendone il punto cardine su cui si reggono tutte le soluzioni narrative e l'effetto scenico.
Se si va oltre l'iperbole superomistica, la retorica megalomane, il contrasto fra il candore e la semplicità con le risolute istanze belliche, le demonizzazioni e le autoesaltazioni, quello che resta è un prodotto dalle notevoli qualità tecniche per l'epoca. Le soluzioni prospettiche, i primi piani, i campi lunghi, le inquadrature sono a dir poco pionieristici nella resa, assumendo a pieno titolo uno status cinematografico ed entrando di diritto nella storia dell'animazione.
L'intento sembra quello di riprodurre le immagini e le sequenze dei filmati bellici che proprio in quegli anni venivano realizzati direttamente sui campi di battaglia e proiettati nei cinegiornali e nei filmati commissionati dai governi di ambo gli schieramenti. E l'obiettivo è centrato in pieno.
Anzi, forse il risultato, grazie alle possibilità dell'animazione, si avvicina a livello tecnico (con i dovuti distinguo) a quelle sperimentazioni e ai virtuosismi introdotti proprio all'epoca da maestri come Capra o la Riefenstahl, e pertanto può considerarsi un preludio dei kolossal hollywoodiani del Secondo Dopoguerra. La cosa non deve sorprendere, visto che, tra i vari accorgimenti, il regista adotta quello di modellare scene tratte da riprese e inquadrature reali sul modello del rotoscopio, per aumentare il realismo dell'effetto scenico.
Dato il tema trattato e le perizie usate, sembra quindi di trovarsi quasi di fronte a pellicole come "Il giorno più lungo" o "Tora! Tora! Tora!".
La visione semplicistica e volutamente indottrinante proposta dalle immagini e dal tema di base non rovina il gusto della visione. Il carattere infantile e il formato animato rendono meno "incisive" quelle esagerazioni preordinate dalle esigenze mediatiche.
Non sfugge certo che la scelta di riproporre un momento del conflitto in cui il Giappone risultava vittorioso sul campo è viziata dalle mutate condizioni belliche durante le quali il film fu proiettato.
Riproporre Pearl Harbor era un ovvio tentativo di censurare le sempre meno favorevoli condizioni del Paese e la precisa volontà di tenerne all'oscuro l'opinione pubblica, partendo proprio dai bambini, e rassicurare così la popolazione, cullandola in una menzogna che avrebbe presto rivelato le sue crepe e le sue nefaste conseguenze.
La stessa esigenza spingerà due anni dopo la Marina e il regista a produrre un sequel più lungo e se possibile ancor più caricato di istanze nazionaliste e vuote pretese imperialiste, sintomo di un militarismo al collasso e di un mondo intero che si ostina a tenere in piedi un mito di sé stesso quando è ormai al capolinea.
Se si contestualizzano le due opere e le si prende come una preziosa testimonianza delle capacità tecniche dell'animazione così come dei pericoli insiti nelle ideologie e nella volontà di controllo mediatico, il loro valore non è affatto "datato".
Esse assumono anzi un peso iconico insuperabile, essendo allo stesso tempo degli exempla del meglio e del peggio che le potenzialità umane possono raggiungere.
Cosa succede allora se si dà un'occhiata alla versione dei vinti? Si riescono a capire le ragioni della sconfitta? O magari si scopre che la semantica, la retorica, i punti di vista sono inquietantemente simili a quelli dei vincitori?
Se si parte da questa premessa, vedere "Momotaro no Umiwashi" diventa qualcosa di più che una semplice operazione cinefila di recupero.
Prodotto nel 1942 e rilasciato il 25 Marzo 1943 (quando la guerra cominciava a prendere una piega sempre meno favorevole per il Giappone), è un lungometraggio di circa trentasette minuti. Un filmato cinematografico di propaganda realizzato in collaborazione con l'allora Ministero della Marina e l'approvazione della Marina Imperiale per la regia di Mitsuyo Seo, uno dei progenitori degli anime, già all'epoca veterano dell'animazione e autore di cortometraggi patriottici e del primo cartone animato giapponese con il sonoro parlato.
Si tratta di un'opera dal valore notevole, sia dal punto di vista storico che tecnico, considerata l'epoca di realizzazione.
La trama riprende il racconto tradizionale giapponese dell'eroe popolare Momotaro, già protagonista di mediometraggi dagli Anni Trenta. Il celebre guerriero assume qui il ruolo di generale in capo in un attacco militare moderno della marina imperiale contro i tradizionali Oni. Al suo fianco le sue celebri spalle: cane, scimmia e fagiano (a loro volta affiancati da plotoni di loro simili e da truppe di conigli), un po' macchiette, un po' eroici scudieri.
L'attacco, portato con "efficienza" e una rapidità da blitzkrieg, è ovviamente un successo su tutta la linea, e i nostri eroi fanno ritorno per godersi gli allori della vittoria.
Evitando giudizi storici e facili categorizzazioni, si superano facilmente tutte le esaltazioni e le allegorie di stampo militarista e imperialista per godere di una traduzione che, pur essendo totalmente parziale, ci consente di aprire una pagina di Storia sulle macchine di propaganda della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso sul loro intervento nel mondo dell'infanzia. Concepito per essere un prodotto per "educare" i bambini sul loro posto nella Storia, il film è un'evidente "versione dei fatti" dell'attacco di Pearl Harbor.
Laddove i Giapponesi sono impersonati dai loro archetipi samurai (presi in prestito dai loro topoi antropologici), gli americani sono trasfigurati negli Oni della tradizione, unendo così l'utile al dilettevole, col risultato di esorcizzare la figura del nemico due volte: secondo la struttura della trama base di Momotaro e, a livello rizomatico, facendo un parallelo con entità soprannaturali che per definizione sono altre, aliene, e quindi "non umane".
Il paragone storico è chiaro e non fraintendibile. Così come già sperimentato in altri cortometraggi di propaganda, come "Omocha-Bako", troppi sono i riferimenti volti a identificare il nemico a stelle e strisce. Se a suo tempo fu niente meno che Mickey Mouse a divenire l'emblema del Male, del "cattivo" spregevole e crudele, qui è facile identificare uno dei marinai nemici con le sembianze di Bluto, la nemesi di Braccio di Ferro (Popeye), volgare e laido esattamente come il suo modello originale.
Tutto ricalca quindi un modello già sperimentato e che non era certo ignoto alla propaganda d'oltreoceano, anch'essa poco lusinghiera nei confronti delle forze dell'Asse e dei Giapponesi in special modo.
La semplificazione tematica e narrativa è compensata da una cura particolare dei dettagli. Tutto è volto alla ricostruzione, per quanto edulcorata, di un vero scenario bellico di quel tempo. Le tattiche, le armi, i veicoli, gli interni, i riti gerarchici, le strutture, le procedure, tutto è realizzato con l'intento di fornire un quadro generale che, seppur semplificato dal medium animato, punta a un realismo nella resa che gioca un ruolo fondamentale nell'economia dell'opera, divenendone il punto cardine su cui si reggono tutte le soluzioni narrative e l'effetto scenico.
Se si va oltre l'iperbole superomistica, la retorica megalomane, il contrasto fra il candore e la semplicità con le risolute istanze belliche, le demonizzazioni e le autoesaltazioni, quello che resta è un prodotto dalle notevoli qualità tecniche per l'epoca. Le soluzioni prospettiche, i primi piani, i campi lunghi, le inquadrature sono a dir poco pionieristici nella resa, assumendo a pieno titolo uno status cinematografico ed entrando di diritto nella storia dell'animazione.
L'intento sembra quello di riprodurre le immagini e le sequenze dei filmati bellici che proprio in quegli anni venivano realizzati direttamente sui campi di battaglia e proiettati nei cinegiornali e nei filmati commissionati dai governi di ambo gli schieramenti. E l'obiettivo è centrato in pieno.
Anzi, forse il risultato, grazie alle possibilità dell'animazione, si avvicina a livello tecnico (con i dovuti distinguo) a quelle sperimentazioni e ai virtuosismi introdotti proprio all'epoca da maestri come Capra o la Riefenstahl, e pertanto può considerarsi un preludio dei kolossal hollywoodiani del Secondo Dopoguerra. La cosa non deve sorprendere, visto che, tra i vari accorgimenti, il regista adotta quello di modellare scene tratte da riprese e inquadrature reali sul modello del rotoscopio, per aumentare il realismo dell'effetto scenico.
Dato il tema trattato e le perizie usate, sembra quindi di trovarsi quasi di fronte a pellicole come "Il giorno più lungo" o "Tora! Tora! Tora!".
La visione semplicistica e volutamente indottrinante proposta dalle immagini e dal tema di base non rovina il gusto della visione. Il carattere infantile e il formato animato rendono meno "incisive" quelle esagerazioni preordinate dalle esigenze mediatiche.
Non sfugge certo che la scelta di riproporre un momento del conflitto in cui il Giappone risultava vittorioso sul campo è viziata dalle mutate condizioni belliche durante le quali il film fu proiettato.
Riproporre Pearl Harbor era un ovvio tentativo di censurare le sempre meno favorevoli condizioni del Paese e la precisa volontà di tenerne all'oscuro l'opinione pubblica, partendo proprio dai bambini, e rassicurare così la popolazione, cullandola in una menzogna che avrebbe presto rivelato le sue crepe e le sue nefaste conseguenze.
La stessa esigenza spingerà due anni dopo la Marina e il regista a produrre un sequel più lungo e se possibile ancor più caricato di istanze nazionaliste e vuote pretese imperialiste, sintomo di un militarismo al collasso e di un mondo intero che si ostina a tenere in piedi un mito di sé stesso quando è ormai al capolinea.
Se si contestualizzano le due opere e le si prende come una preziosa testimonianza delle capacità tecniche dell'animazione così come dei pericoli insiti nelle ideologie e nella volontà di controllo mediatico, il loro valore non è affatto "datato".
Esse assumono anzi un peso iconico insuperabile, essendo allo stesso tempo degli exempla del meglio e del peggio che le potenzialità umane possono raggiungere.