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Per quanto Takahata abbia deciso di sfruttare la "favola del tagliatore di bambù" il più possibile, adeguandosi non solo a quanto le varie versioni più accreditate narrano, ma anche a come visivamente la storia è stata percepita dagli uomini più prossimi ad essa - più vicini non solo temporalmente, ma anche filosoficamente -, per quanto il regista si sia ben attenuto a tutto ciò, ha deciso comunque di imprimere la propria orma e suggellare il film con qualche dettaglio che rende bene la sua idea, diciamo, anti-urbana o tendenzialmente anti-moderna, mista a una specie di pessimismo nei confronti dell'umana natura.

La forte attrazione che Kaguya, la protagonista, prova per la natura circostante, per la vita semplice e agreste, sorge vieppiù forte nel momento in cui il padre, preso da avidità, decide di abbandonare il mondo georgico per dirigersi in città. Questo particolare non è presente nella novella antica, che narra meramente del conseguente arricchimento dei due contadini con il conseguente miglioramento delle loro condizioni di vita in loco. Usando il topos del viaggio verso l'urbs, Takahata ci permette di osservare il cambiamento nel carattere della protagonista, continuamente vessata dal mondo cortese che la circonda, dalle regole, dai taboo, dalle tradizioni estetiche e comportamentali. La necessità dell'ohaguro, dell'hikimayu e dell'oshiroi (rispettivamente l'annerimento dei denti con colorante, la rimozione delle sopracciglia e l'imbiancamento della faccia) vengono recepiti dalla giovanetta come una imposizione inconcepibile, anche a causa di una 'governante' stereotipata. L'interesse principale di tutto ciò è, comunque, che il regista aggiunge questi particolari storico-culturali ovviamente non presenti (perché sottintesi) nella storia originale per sottolineare un enorme divario fra la pura vita non-urbana e la fittizia vita urbana. Tutto diviene fittizio, persino le relazioni sociali, persino il giardino, ultimo miraggio del mondo naturale. L'urbs riesce a creare il bello dove non c'è, ma sempre con inganno. Nella narrazione primeva i cinque nobiluomini che si avvicinano a Kaguya per rendere palese il loro interesse, recandosi loro in campagna da lei, subiscono loro stessi da lei l'affronto di dover andare a cercare cinque artefatti mitici impossibili da scoprire. Il regista, invece, trasforma ciò in una comica scenetta di lotta retorica tra gli spasimanti, che giocano a chi la spara più grossa. Ognuno di essi assicura a Kaguya di amarla tanto quanto si può amare questo o quel magnifico e mitologico oggetto, mostrando come non si tratti altro che di pura sofistica, di finzione di un amore per qualcheduno che oltretutto mai si è visto in faccia. Persino l'Imperatore, che dovrebbe rappresentare il miglior essere umano in Giappone, addirittura di discendenza divina, non fa altro che bramarla per mera passione fisica, non rispettando i suoi spazi, i suoi tempi e le sue volontà. L'amore urbano e cortese, così mascherato rispetto all'amore puro e fanciullesco che Kaguya provava per Sutemaru, un povero ragazzo del villaggio, costretto a muoversi qui e lì per raccogliere legna e altri vegetali. Persino il giardino costruito e curato da Kaguya nella nuova corte cittadina, con lo scopo di renderlo simile, in 'miniatura', al suo mondo rurale precedente, è solo apparenza, è un miraggio estivo nella calura e nel torpore della città. Questi importanti particolari e l'aggiunta del giardinetto sono importanti indizi per comprendere quale sia l'umore di Takahata nel pensare il dualismo città-campagna, un umore che tendenzialmente riprende un atavico amore dell'essere umano per la natura, evidenziato dal similare "Il topo di città e il topo di campagna" di Esopo.

Il finale, così amaro, riprende anche visivamente disegni cinque-seicenteschi rappresentanti questa grossa nube semovente accompagnante una Divinità lunare (assieme a una banda musicale di nuova invenzione), ma è reso ulteriormente più triste non solo dalla mancata corrispondenza epistolare che nella favola originale Kaguya intrattenne con l'Imperatore fino agli ultimi istanti di coscienza sulla nube (evidente elogio al capo dell'Impero), ma da quel sogno-illusione di Sutemaru che, ritornando dopo diversi anni nelle terre natie, immagina, sogna, si illude o spera di avere lì, dinnanzi a sé una Kaguya pronta a scappare con lui da qualsiasi tentazione maligna urbana, vivendo nella miseria, ma nella purezza e nella felicità.