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Che cos'è l'amore?
La domanda più difficile che si possa porre, enunciato della parola più vaga del vocabolario umano.
Oltre cento anni fa però ci avrebbero forse dato una risposta secca e laconica: l'Assoluto.

Prima del "secolo breve" i drammi e le passioni non erano meno feroci, soprattutto quando costituivano lo sfondo di tempeste interiori.
"Il Poema del Vento e degli Alberi" parla dell'espressione massima dell'Assoluto. L'amore nelle sue forme più evocative e totalizzanti. Furioso quanto malinconico, cristallino e violento. Puro.

1880
Il giovane aristocratico Serge Battour entra nel collegio maschile di Lacombrade nei pressi di Arles. Serio e compito è la classica matricola che sta abbandonando l'infanzia per abbracciare un futuro smaliziato. Ma il colore della sua pelle rende dubbie le sue origini, segnate a vita come un marchio d'infamia. Retto e diligente, cammina comunque a testa alta con l'onestà e l'ingenuità tipiche di chi si affida alla forza di uno spirito che attinge all'infinito. Grazie ad un carattere quieto e socievole riesce col tempo a conquistarsi un posto nel nuovo ambiente, instaurando amicizie e scoprendo nuove realtà. Specchio di un'era, Serge affronta le sue sfide con l'afflato del pensiero romantico ottocentesco, tra gli studi classici e il pianoforte, vivendo gli anni d'oro nell'ardore della gioventù.
Ma la vita gli riserverà ben più che una strada in salita quando dovrà confrontarsi con un'altra anima sospesa sull'infinito, Gilbert Cocteau.
Il suo compagno di stanza diventa ben presto il più grande tormento di Serge. Malevolo e capriccioso, contorto e dissoluto, Gilbert usa la sua bellezza femminea e sensuale per sedurre chiunque, vivendo solo nella ricerca del vizio, in fede ad una natura autolesionista fatta di malizia e sprezzo per ogni forma di costume o moralità. Demone androgino, ammaliante quanto pericoloso, è il genio maligno della scuola, oggetto del desiderio e dell'odio di tutti.
Serge e Gilbert sono l'antitesi l'uno dell'altro. Il virtuoso e il dannato. La luce e le tenebre.
Col tempo però i due si avvicinano. I travagli subiti rivelano presto l'origine delle storture delle loro vite, dove virtù e vizio finiscono per omologarsi nell'ipocrisia del mondo. Sempre più simili, sempre più vicini all'Assoluto, a quel vento che li vuole lontano, via dai mostri che li opprimono, via dalla pazza folla.
Il destino li unirà sul sentiero del piacere e della dannazione, scalando l'esistenza fra i lussi della Provenza e la povertà di Parigi, tra amore furente e malinconica depravazione, verso un epilogo che trasforma la frenesia del periodo più cangiante della vita in una tenue e soffusa eternità.


"Il Poema del Vento e degli Alberi" è un'opera degna di attenzione in quanto propone diversi elementi seminali per le espressioni future della storia del manga.

Un prodotto audace, icona del suo tempo, frutto del lavoro di Keiko Takemiya, in intesa con altre autrici giapponesi nate quasi tutte nel 24° anno dell'era Showa (1949) e che negli anni Settanta diedero vita ad un nuovo genere di storie.
Questo gruppo, noto come "il gruppo del '24", fu protagonista di una nuova stagione del fumetto giapponese, fino ad allora appannaggio quasi esclusivo di autori maschi che pubblicavano anche le storie dedicate alle ragazze.
Oltre alla Takemiya, figure come Moto Hagio, Yumiko Ooshima e Ryoko Yamagishi si ritrovarono quindi in un ruolo da pioniere, decise a portare per la prima volta un'ottica prettamente femminile nelle opere indirizzate a tale pubblico.
Il gruppo del '24 diede nuova linfa al modello classico di ispirazione disneyana del fumetto, tra accenti romanzeschi e toni melò adolescenziali, stili sinuosi e decorazioni eleganti, secondo un gusto che richiamava fortemente le trame, le forme d'arte e di costume occidentali. Tutto seguendo le istanze di rinnovamento del gekiga e dei movimenti culturali dell'epoca, rielaborando e interpretando il modello Tezuka secondo le nuove esigenze di un mondo in trasformazione.
Il gusto trasognato e romantico, il tratto fine e delicato, trame intense e appassionate, divennero presto un marchio di fabbrica di questo nuovo corso di stile dei manga. Un modello che generò stilemi riconoscibili anche fuori da questo mondo, come i famigerati occhi dei protagonisti di queste trame, grandi e brillanti come gioielli che tagliano e catturano la luce ed esaltano le emozioni delle vicende.
Un vero e proprio filone nuovo nei generi narrativi, prototipo ultimo di quelli che diverranno noti come "shojo" e "josei manga".

Nonostante queste opere nascessero quindi come prodotti per un pubblico ristretto, la loro eco fu tale da influenzare anche il mainstream, al punto che al gruppo del '24 (forse arbitrariamente) viene a volte iscritta anche Riyoko Ikeda, madre della famosissima saga di Lady Oscar.

Ma la Takemiya e alcune sue colleghe, come la Hagio, furono anche le creatrici di un sottogenere di trame dedicate al mondo femminile che affronta come tema principale le relazioni omosessuali maschili. Quello che fu definito "shonen ai" (letteralmente "amore tra ragazzi"), anticipatore dei filoni "boys love" e "yaoi".
Il manga della Takemiya è allo stesso tempo antesignano e denominatore di tutte queste espressioni coniugando temi e vicende puramente sentimentali con scene e riferimenti sessuali adulti ed espliciti.
Pathos e afflati di passione struggente si accompagnano a momenti di abusi e violenze, tra romanticismo e sopraffazione, affetto e stupri, in un iter narrativo che punta sulle emozioni forti per realizzare un affresco di ogni espressione concepibile nei rapporti emotivi: il senso della vergogna, l'amicizia, la lussuria, l'infantilità, il pudore, la solitudine, l'arroganza, la condivisione, il disprezzo, ... dalle più alte alle più basse sono tratteggiate tutte le sfaccettature dell'animo umano.

Queste pennellate di passionalità sono funzionali alle esigenze dei temi e dello stile dell'opera che nelle intenzioni dell'autrice, secondo il prototipo ideato, sono un omaggio alla letteratura occidentale, soprattutto quella ottocentesca.
Se infatti le tematiche omoerotiche (per nulla estranee alla cultura nipponica) sono un chiaro riferimento ad autori come Yukio Mishima, soprattutto per quanto concerne le sfumature pederastiche (simili a quelle delle antiche civiltà europee), sono anche molti i riferimenti a espressioni occidentali simili, come il romanzo "Le amicizie particolari" di Roger Peyrefitte o le opere di Herman Hesse.

Ma gli omaggi al mondo occidentale non si fermano ai meri teatri narrativi o alle tematiche. Il manga è nei fatti costruito per sembrare in ogni sua caratteristica come la riduzione a vignette di un testo tipico del mondo romantico o postromantico.
Il tratto elegante e sinuoso di figure e inquadrature ricorda le illustrazioni dei romanzi ottocenteschi o i dettagli delle linee fitomorfe dell'Art Nouveau.
Il sapiente uso dei tagli di luce e ombra del bianco e nero è giocato invece in chiave espressionista (conferendo così all'opera un sottofondo gotico), ma che si adatta perfettamente anche alle produzioni a colori come i manifesti di Alfons Mucha, o alle incisioni delle riviste culturali di fine secolo come "Ver Sacrum".

Ma il vero capolavoro di riferimento alla letteratura occidentale è nel respiro generale dell'opera, che con l'ausilio del ricorso episodico della trama regala un gusto cadenzato da feuilleton.
Gli eventi si susseguono con un ritmo a tratti frenetico e convulso (con azioni rapide e colpi di scena) a tratti posato e dolente (con sentimenti quieti e melanconici).
Il risultato è un potente e spassionato atto d'amore per il pensiero romantico e le sue ricadute nelle espressioni e negli accenti del XIX secolo.
Dall'arte alla musica, dalla letteratura alla moda, tutto è un esplicito gioco di citazioni, tra brani di pianoforte e cravatte lavallière, tra sculture neoclassiche e profumi intensi.
Non si può fare a meno di percepire un senso nostalgico per un mondo lontano ma allo stesso tempo così vicino, con tutte le speranze, le ipocrisie, i virtuosismi e gli eccessi della Belle Epoque.

L'autrice ha evidentemente studiato i contorni e le sfumature di quel periodo storico dove, sotto le luci e le promesse del positivismo e dei nazionalismi di stampo aristocratico-borghese, covavano già gli orrori del secolo successivo, in cui esplosero tutte le contraddizioni di una realtà fatta anche di povertà dickensiana e vacuità morale. Un mondo che oscillava tra i lussi degli imperi coloniali e il popolo dell'abisso di Jack London; tra balli sfarzosi e notti sfrenate al Moulin Rouge e gli orribili delitti di Jack lo squartatore.
L'Europa padrona del globo, satolla di uno sfarzo che presentava già il conto nell'illusoria censura degli aspetti più animaleschi e feroci dell'animo umano, denunciati come peccati originali dal nichilismo nietzschiano e dalle analisi freudiane.
Il mondo offertoci è quello scintillante e fatuo de "La traviata", un eterno ballo dove la follia e la consunzione sono diafane compagne dei vapori dell'alcol.
Un tuffo nelle schermaglie piccoloborghesi e melodrammatiche alla "Madame Bovary", che non risparmia accenti teatrali e lacrimevoli.
Ma i risvolti narrativi sono espressi con un'ottica che non lesina critiche, citando anche quei contesti sociali alla Zola che non potevano permettersi le tragiche ma scenografiche fastosità di "Anna Karenina".
Di sfuggita si colgono un po' quei misteri di Parigi tradotti da Eugene Sue; quel sottobosco sommerso e strisciante che turbava le coscienze borghesi e preconizzava i peggiori incubi di una classe dirigente aristocratica già morta ma pervicacemente fossilizzata in un eterno canto del cigno.
Uno sfondo, quello del manga, che regala un senso di triste nostalgia, un carnevale di spettri che non hanno mai vissuto le tragedie novecentesche ma che allo stesso tempo ne sono pioniere vittime.
Quello che colpisce di più dell'opera è la riuscita trasposizione di un intero spirito dei tempi, un zeitgeist fatto di decadentismo e cultura bohémien, quel mondo suadente e sporco che emerge dalle pagine brillanti e marce di Oscar Wilde o che fa eco nelle voci ebbre e squillanti di Mistinguett e della Piaf.

Il risultato finale è quindi un piacevole senso di malessere, quel mal de vivre che viaggia nel segno di Baudelaire e dell'arte simbolista.
I richiami al lusso, e al dandismo fatto di piacere per il piacere, sono qui anche le basi di un sottotesto pederastico che si espleta in rapporti pigmaglionici e istanze artistiche dissipatrici.
Estasi voluttuosa che deriva dal peccato e dalla lordura, lussuria figlia di un senso mortifero e sepolcrale, con gli accenti folli e ruggenti che solo uno spirito adolescente può cogliere nella pienezza.
La totale corruzione quasi sacrale della tentazione e del desiderio è un altro richiamo a quel sottile e vago senso di godimento, compagno del dolore e dei tormenti che avvelenano un amore contrastato dalle convenzioni e dai fragili steccati sociali, che mostrano più di quanto dicono di nascondere, offrendo solo perversi e distruttivi rompicapi morali degni de "La morte a Venezia" di Thomas Mann.
Sono anche chiarissime tutte le peggiori connotazioni di una mentalità positivista rampante che viaggia tra istanze tecnocratiche (si veda la citazione a Jules Verne) e nuove devianze sociali come l'emarginazione, il classismo e i rigurgiti di idee razziali che avranno triste seguito nel secolo successivo.
In questo è chiaro il riferimento del protagonista Serge, "meticcio" la cui origine zingara è motivo di scandalo in sé presso una società aristocratica omologata e chiusa.

Ne "Il Poema del Vento e degli Alberi" esplode un potente urlo culturale, pieno di titanismo e rabbia giovanile. Un furore che aspira all'autoaffermazione dell'Io, tramite quell'Assoluto che prende corpo nel sentimento amoroso.
Gli accenti passionali sono volutamente esasperati per sottolineare il peso della voluttà come vettore di un dolore esistenziale.
Quello che nasce tra Serge e Gilbert non è solo un sentimento idealizzato e infantile, espressione di una crescita spezzata da traumi e abusi. È una lotta feroce e selvaggia per la conquista del proprio percorso, un angolo di vita nel quale riuscire a sfuggire agli ingranaggi di una società gerarchica e oppressiva.
In questo fanno fede tutte le pie illusioni e gli accenti umorali del mondo dell'adolescenza, ma che sono qui filtrati da un approccio più maturo, dove l'età adulta irrompe con tutta la violenza e la sopraffazione possibili, annichilendo l'infanzia e il suo candore con la depravazione e il possesso.
Gli esiti più accesi delle vicende sono solo le conseguenze di uno status quo che si impone con regole impossibili per chiunque e rispettate da nessuno, in un carosello ipocrita e vuoto che gonfia la virtù solo per ottenere lo sfogo del vizio.
Il mondo del manga è infatti popolato da veri mostri che vivono solo per la soddisfazione delle proprie turpitudini ma che non sempre sono l'espressione del male peggiore, il quale, come si percepisce dal senso generale dell'opera, vive più nel segno del conformismo di una società che si ritiene superiore, vittoriosa sulla trascendenza e sul peccato.
Per questo uno dei punti forti del racconto è il grande contrasto tra eccessi, tra boati sommersi e silenzi assordanti che mettono in discussione le presunte virtù sociali dell'Uomo.
Ecco dunque come si spiegano le esplosioni di violenza e degradazione che pervadono tutta l'opera, un senso di disagio e lussuria, di decadenza e piaceri contorti che ricordano le sfrenate fantasie di de Sade, ma che nel contesto da fin de siecle esprimono lo stesso vigore disperato e macabro di opere come "Le undicimila verghe" di Apollinaire.
Simbolo di questo malanimo il personaggio di Gilbert, marionetta tragica e mutilata, congelato in un eterno languore masochistico che lo rende schiavo e vittima non solo dei vizi altrui ma anche delle pulsioni e delle istanze più sane e disinteressate.
Il tutto però sempre compensato da un gusto per il lusso decadente e i sensi artistici da poeta maledetto uniti a dettagli di natura intima e familiare, con improvvisi slanci di affetto che rimandano ad un'infanzia perduta, nel conforto di piccoli capricci e giochi che durano poco.
I protagonisti sono anche le due maschere che allo stesso tempo rappresentano tutti gli attori in scena e i veri antagonisti del contesto, che è loro comunque ostile.
Nei fatti i peggiori nemici sono sempre loro stessi:
Gilbert non è tanto un Tadzio impertinente e malizioso quanto una sorta di Mowgli, un essere spezzato e incompleto, troppo umano per gli animali e troppo animale per gli uomini.
Serge non è solo un esempio quasi monastico e filosofico di virtù, ma è anche l'arroganza dell'armonia, il lato melenso e moraleggiante di un equilibrio che sconfina nell'entropia.

Costretti a coesistere l'angelo e il demone finiscono inevitabilmente per scontrarsi.
Due anime diverse, come un raggio di Luna lo è dal lampo e il gelo dal fuoco.

Sono due eroi da tragedia, speculari e assoluti nell'aspetto e nel carattere.
Fra accostamenti e ritrosie, mani tese e vendette, orgoglio e violenze, virtù e tentazioni, quella che nasce come la più improbabile delle convivenze diviene col tempo un dialogo profondo tra due spiriti che vivono le stesse angosce. Imparano a vedersi, a percepire le ferite e i drammi dell'altro, seguendo il vento delle passioni che li agitano.
Carnefici l'uno per l'altro si scoprono entrambi vittime del loro tempo, squassati da un mondo che li vuole solo distruggere, obliandoli nel conformismo o nella dissoluzione.
In questo è coerente il senso passionale e culturale della relazione, che ricorda quella di Rimbaud e Verlaine.
Un connubio ferale, appassionato ma complicato, stimolante ma confuso, fatto di penose verità quanto di diaboliche ingenuità.
Onesto ma dissennato questo rapporto vive di eccessi e insofferenze, fobie e avversioni, tra svenimenti e uso di droghe, malattie convulse e depressioni latenti.
Il quadro finale è quello di un'avventura breve ma totale, pochi attimi che respirano un'eternità furiosa e ardente.

Di contro tutti i comprimari dell'opera, sia quelli positivi che quelli negativi, non sono mai un vero supporto per i due.
Sono tutti antagonisti nel bene e nel male, anche loro vittime di un flusso storico che non vogliono e non possono comprendere, intrappolati in un valzer che li condanna al baratro delle loro esistenze, siano esse cordiali o depravate, aride o edonistiche.
Se il teatro dell'amore è pieno di nemici, anche fra gli amici, è comunque il sentimento stesso in definitiva la fine di ciò che inizia.
Il tema del rapporto segue il canone del dramma, nel segno di "Cime Tempestose", dove i veri ostacoli sono interiori, nelle menti e nei cuori degli stessi protagonisti.
Un rompicapo che si incastra da solo. Croce e delizia di sé stesso.


Madre di questa costruzione la Takemiya siede di diritto fra i grandi autori di manga per aver dato vita a suo tempo ad opere potenti ed evocative come questa, ricca di dettagli culturali e richiami artistici, capace di mettere insieme le peculiarità del mondo nipponico con le eredità storiche occidentali che permeano ancora alcuni ambiti delle realtà di costume odierne e sono divenute quasi un linguaggio universale nel modo di scrivere, disegnare, pensare e trattare di arte e letteratura.

Vale per questo una menzione la scelta editoriale della J-Pop che ha avuto la coraggiosa idea di proporre in Italia un prodotto così articolato e di non facile diffusione, relegato nell'alveo delle opere di nicchia.
Il cofanetto proposto con i dieci volumi e le eleganti rilegature è un fardello non indifferente per il portafoglio ma che forse vale più di altri il sacrificio per un'opera così insolita e dal peso che si può definire storico a tutti gli effetti.

Negli esiti di una vita che aspira all'Assoluto, "Il Poema del Vento e degli Alberi" è uno dei più validi affreschi delle grandezze e degli orrori dello spirito umano, un filo teso tra la carnalità e l'evanescenza, tra le impressioni e i dogmi, nel segno di un vasto orizzonte di passioni limitato dai piccoli muretti della consuetudine, una lotta tra il noto e l'infinito, come una melodia che viaggia da Beethoven a Sibelius.
Per comprendere l'amore nelle sue espressioni più pure bisogna vivere l'Assoluto nelle sue manifestazioni più effimere.
Per dare ciò che non si ha a chi non lo vuole avere.