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Ci sono giorni in cui qualcosa si inceppa. La routine viene tradita, e quello che fino a ieri era stato un tacito accordo sui ruoli della vita viene completamente ribaltato. L'ordine costituito salta, e tutto semplicemente grazie ad un catartico e semplice "NO!".
Ma se questa fosse solo un'illusione?
Se anche questo fosse parte di un ennesimo gioco di ruoli?

Il manga "Kyoushitsu Jibaku Club" (Il club delle esplosioni) è un'interessante argomentazione sugli effetti paradossali del vivere contemporaneo.

La trama prende le mosse dalle indagini di Takumi Shindo, uno studente sopravvissuto all'attentato suicida di un suo compagno di scuola alle medie, vittima di bullismo, che si è fatto esplodere nella sua classe sterminando quasi tutti gli alunni.
Altri attentati simili cominciano a ripetersi in diversi istituti scolastici, e Shindo elabora il sospetto che dietro questi eventi apparentemente scollegati ci sia un'unica regia.
Altri sei compagni di classe sono sopravvissuti con lui, mutilati tanto quanto lui, ma il ragazzo è convinto che il fornitore dell'esplosivo che ha distrutto le vite di tutti sia proprio uno di loro.
Ma chi è? E soprattutto perché ha ordito dietro le quinte un simile piano?

"Il club delle esplosioni", scritto da Aoisei e disegnato da Anajiro, sceglie di trattare un argomento scottante del Giappone contemporaneo: il bullismo negli istituti scolastici, che, nonostante la proverbiale omertà nipponica, è diventato un problema così capillare e diffuso da essere ormai assurto a fenomeno culturale come una vera piaga sociale.
Un'epidemia drammaticamente fondata su un contesto aberrante, dove essere vittime significa essere colpevoli, soli in una voragine di ipocrisie oltre la quale c'è un muro di indifferenza totale, che rende invisibili in piena luce, soprattutto a coloro che dovrebbero essere i garanti dell'ordine, gli insegnanti, la famiglia, i tutori dell'equilibrio che essi stessi pretendono di rappresentare.

Lungi dall'essere un problema squisitamente giapponese o relegato solo all'ambito scolastico, il tema è però particolarmente indicativo di una realtà sociale opprimente, organizzata su gerarchie così strette e rigide da trasformare la vita quotidiana in una guerra costante.

Se le premesse e gli antefatti narrativi del manga non sono né una novità né una specifica disamina delle componenti sociali in gioco, le problematiche e i messaggi veicolati hanno un carattere molto articolato, efficace, e soprattutto riportano negli esiti del racconto un potente tono icastico, ambiguo, forse anche un po' scomodo.

La filosofia dell'opera non tende a indagare le ragioni alla base di uno status quo iniquo e degenerante, ma piuttosto offre delle risposte molto chiare sui possibili sviluppi di un tale ordine così squilibrato e nevrotico.
Il finale del manga, articolato in tre volumi, non solo lascia in sospeso molte domande e spiegazioni che suggeriscono possibili seguiti del racconto, ma è un affresco molto crudo e disamorato su un rompicapo sociale che non sembra trovare reali soluzioni.
Il verdetto è desolante e senza appelli: non c'è una vera soluzione al problema.
La "vittoria" ottenuta, se ottenuta, è un grottesco rovesciamento dei ruoli che non prevede quindi un ritorno all'equilibrio, ma solo un rimescolamento delle carte del gioco iniziale.

Se il tema sembra proporre a prima vista un catartico intreccio di sovvertimento del sistema, un sottofondo anarchico che gioca sulle istanze di riscatto del debole sul forte, il vero perno della storia è invece una drammatica e sconsolante presa di coscienza sulla riconferma del sistema.
Fedele al principio secondo cui non c'è peggior carnefice di chi un tempo è stato una vittima, l'opera non intende regalare un happy end consolatorio, dove alla fine prede e predatori si riappacificano.
Ad un certo punto sembra che nella giungla torni la pace, ma non perché sono diventati tutti vegetariani, ma perché la legge del più forte è stata ribadita con un vigore ancor più selvaggio e feroce di qualunque carnivoro. La catena alimentare è salva, semplicemente gli anelli sono meno pesanti.
La premessa base è che l'ordine sociale non è una costruzione tesa a garantire il buon esito del benessere comune, ma un mero pretesto per sostenere una scala di potere doxistica e paternalista.
Non c'è nessuna ragione sociale alla base delle vessazioni subite. Non si domina per manifestare un ordine ma solo per inerte sfogo proporzionale. Si taglieggia senza neanche un concreto ritorno parassitario, spesso per semplice noia o per colorare un'esistenza vuota e inconsistente.
E chi fa finta di non vedere si trincera dietro vuote pretese formative, sotto il feticcio di un'etica spartana che pretende di plasmare l'individuo alle asperità del vivere, ma che al massimo potrebbe solo spezzare l'acciaio inossidabile.
Quello che si riteneva essere un inciampo di percorso, una falla del sistema, in realtà è la forma più pura di un equilibrio perverso. Fin dall'inizio il problema non era nella violazione delle regole del gioco, ma nel gioco stesso.

Il risultato è un inconsueto e suggestivo sberleffo alla "morale della favola". I riscontri positivi non sono frutto di una furia giacobina che ha detronizzato il potere, ma le conseguenze di un'estasi di rappresaglia che mira solo a mitigarne gli eccessi.
Come in un principio alchemico, al fuoco si risponde col fuoco.
Il terrore non viene annichilito ma esaltato all'ennesima potenza, affinché funga da Leviatano che, minacciando tutti, svincola tutti, diventando il sommo moderatore, il padre che mette in riga, il garante che nessuno vuole assumersi la responsabilità di essere.
Non c'è nessuna redenzione, nessun riconoscimento maieutico dell'animale sociale. Tutto è riconfermato. La semantica del potere non è cambiata.
Ciò che viene tacitamente assunto come un dato di fatto è che l'ordine non può essere cambiato ma al massimo deformato, mutilato, reso incapace di mordersi da solo.
Ed è questa assenza di soluzioni il vero punto forte del manga.
Ad una trama non proprio originalissima, e a un disegno forse un po' troppo statico e geometrico, fanno seguito degli spunti di riflessione stimolanti, né consolatori né autoassolutori, e pertanto genuinamente antiretorici.
La trovata di interrompere la catarsi narrativa e di chiudere il racconto senza che tutti i nodi siano stati sciolti, è di sicuro il risultato migliore ottenuto da Aoisei.
In questo "non detto" c'è tutto il vigore di una traduzione che sputa sugli artifici della consolazione, sfruttando forse un certo senso di complicità col lettore che accoglie il principio nichilistico sull'accettazione disillusa della realtà e il rifiuto a priori di vane attese messianiche.
Alla fine la domanda non è tanto chi ha vinto, ma se fin dall'inizio non siamo sempre stati prigionieri di una contesa che non c'è mai stata.

Se si spera di trovare una delle possibili spiegazioni di eventi drammaticamente reali (come la strage della Columbine o i suicidi di studenti vittime di bullismo) forse questa non è l'opera più adatta, perché non pretende di trattare il problema analiticamente o da un punto di vista sociologico.
"Il club delle esplosioni" è un thriller che per fortuna lascia insoddisfatti in quanto accusa metacriticamente tutti noi, ricordandoci che abbiamo sempre conosciuto la risposta, che abbiamo sempre udito il debole e organico urlo della mosca tra le fauci del ragno. Un urlo che scegliamo di ignorare, troppo flebile, impegnati come siamo a tessere le nostre tele.