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Cosa nasconde il cielo? Quali e quanti misteri cela alla vista di coloro che lo osservano da quaggiù? Quali e quanti destini vi sono connessi? E se oltre le nuvole ci fosse un mondo altro, parallelo e complementare, un ecosistema accessibile solo a chi, investito di un qualche potere che trascende quello dei comuni mortali, potesse dominare il tempo atmosferico e le sue leggi sovente imperscrutabili? Tanto da incidere, attraverso una semplice preghiera, sui comportamenti e gli stati d’animo della gente. La nuova attesa pellicola di Makoto Shinkai, dopo il successo planetario di “Your Name.”, sembra interrogarsi proprio su questo, su come il tempo atmosferico, influenzato da ciò che avviene proprio sopra di noi, ma a distanze non colmabili dall’occhio umano, possa condizionare la vita e gli umori delle persone. E lo fa, come sua consuetudine, immaginando una storia in cui i sentimenti sono il cuore pulsante della vicenda, nella quale la ruota del destino favorisce l’incontro tra due adolescenti in difficoltà, in una Tokyo estiva in cui il sole, incredibilmente, non sembra avere alcun diritto di cittadinanza.

Sostenuto da un apparato tecnico di eccezionale livello, “Weathering with You” dimostra come il cinema di Shinkai evolva verso dinamiche più classiche e strutture narrative più lineari. E dico evolva proprio perché, pur avendo amato profondamente il primissimo cinema del regista giapponese, sviluppato nell’arco di pochi ma interessantissimi mediometraggi nei quali distanza e incomunicabilità erano tracce irrinunciabili e peculiari, nel dittico recente, espresso in forma di lungometraggio, i vuoti lasciati sembrano improvvisamente colmarsi. Le distanze si accorciano sensibilmente e la forma assume una sostanza la quale non è altro che amore che finalmente si sublima. Per quanto tutto ciò possa apparire semplice e ammiccare a un pubblico più vasto ed eterogeneo, la poetica di Shinkai ne esce in qualche modo rafforzata. Perché il suo è un cinema fatto principalmente di emozioni, in costante ricerca di un feedback con lo spettatore. Un cinema che, grazie a una notevole disposizione per la messa in scena, riesce a scalfire anche gli spiriti meno inclini a lasciarsi vincere dal sentimentalismo.

“Weathering with You” riesce facilmente in questo suo intento umanistico, se così lo vogliamo definire, semplice da restituire solo in apparenza. E lo fa anche a scapito di una sceneggiatura che, pur mantenendo alto il climax, semplifica fin troppo i suoi passaggi chiave e affretta snodi che avrebbero necessitato di maggiore complessità, forzando un epilogo ancor più esplicito e possibilista rispetto a quello di “Your Name.” Anche il richiamo alla componente mistica e fantastica, che anche in questo caso cerca di attingere alla dottrina shintoista, è più che altro un pretesto per motivare la dimensione altra in cui, sia pur fuggevolmente, i due protagonisti si trovano a interagire per trovare il senso del loro percorso. La componente karmica e gli universi paralleli (in ciò è palese l’influenza di Haruki Murakami, scrittore nipponico che il regista evidentemente ama) in Shinkai sono comunque al servizio dei personaggi e delle loro dinamiche, che sono e restano sempre profondamente umane. Ecco che allora dirimenti, nell’opera in questione, divengono le scelte che compiono in piena autonomia Hokoda e Hina. I motivi della scelta e della conseguente autodeterminazione di sé sono forse la tematica che emerge più prepotentemente in “Weathering with You”, opera che pone volutamente sulla ribalta l’adolescenza rispetto a un mondo adulto marginale che sembra affogare, non solo metaforicamente, sotto la pioggia incessante di una ragione che ottenebra il sentimento puro di coloro che “non sono ancora sé stessi se non come attesa”. L’omaggio a “Catcher in the Rye” (“Il giovane Holden”) non è solo una pura e semplice citazione (l’opera di Salinger si nota un paio di volte di sfuggita tra i pochi effetti personali del ragazzo, non appena arrivato a Tokyo), ma una dichiarazione d’intenti che Shinkai lancia al suo giovane pubblico, e probabilmente anche a chi, pur avendo qualche anno in più, non ha perduto quello spirito indomito, quel senso di epifania che progressivamente tendiamo a perdere nei passaggi d’età del tempo lineare.

Nonostante emergano, per la prima volta, interessanti personaggi di contorno rispetto ai due protagonisti, l’architettura narrativa poggia quasi interamente su Hokada e Hina, i cui progressivi avvicinamenti dischiudono allo spettatore il senso profondo di un’opera che si sostiene, come detto, su una struttura lineare che favorisce la ricerca di sé dei due adolescenti, dei quali non arriveremo mai a conoscere, se non per vaghi cenni di circostanza, un passato che si desume essere stato non facile, ma per i quali proveremo piena empatia proprio per la loro evoluzione nel presente che ci viene raccontato. È un cinema del qui e ora quello di Shinkai, che recupera elementi ancestrali in una cornice dai tratti sottilmente distopici e favolistici, per riaffermare che al di là delle cornici che ci imprigionano in uno spazio e in un tempo determinato, i sentimenti, se sono forti e sinceri, riescono a farsi beffe di qualsiasi dimensione ci possa ospitare. Per questo l’amore che si sublima, stravolgendo ampiamente ciò che consuetudine vorrebbe, ha la sua ragione d’esistere sotto un temporale che sembrerebbe mai trovare fine. O più semplicemente, facendo fede alle parole di Hokada: “Io me ne frego del tempo atmosferico, l’importante è che ci sei tu accanto a me”.

Semplice ma efficace come la parabola di un immaginario “vangelo umanista”, l’opera di Shinkai procede per prese di coscienza e atti conseguenti, e trova la sua apoteosi nella suggestiva resa estetica. L’animazione in 2D, fondata come di consueto su un disegno iperrealistico che valorizza in egual modo dettagli e sfondi, è al servizio di una regia che fa largo sfoggio di primi piani fortemente comunicativi, campi lunghi e panoramiche che evidenziano la tendenza al fotorealismo. Tutto l’apparato tecnico, a partire dagli effetti sonori (rimarchevole, nell’edizione italiana, anche il lavoro dei nostri doppiatori) fino ad arrivare alle musiche dalla valenza narrativa (colonna sonora nuovamente affidata ai Radwimps), contribuisce ad accrescere il pathos dell’opera.

In conclusione, nonostante tutte le critiche che si possono muovere all’autore dell’opera in merito a una scrittura ancora lontana dall’efficacia di grandi registi di genere come Miyazaki e Hosoda, a qualche autocitazione non sempre amalgamabile al contesto, e all’uso dell’elemento fantastico, religioso o mitologico, come pretesto per parlare sostanzialmente di altro, si può ragionevolmente affermare che nel cinema d’animazione - e forse non solo in quello - pochi sanno arrivare a toccare le corde profonde dello spettatore come sembra riuscire a fare Makoto Shinkai. È impossibile che usciate dalla sala senza che questo film vi abbia minimamente scalfito, salvo esser stati vinti da un persistente stato d’aridità.