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Storie di solitudine, di lettere spedite e mai aperte o aperte in ritardo, di poliziotti che hanno perduto l’amore e di donne enigmatiche e sfuggenti, sullo sfondo di una Hong Kong dalle mille luci e dai frastornanti colori, ancorché spesso notturna e anch’essa sfuggente, dove la pioggia sostituisce le lacrime mai versate, trattenute in una dimensione che elude sovente la realtà per farsi stadio intermedio che non è nemmeno sogno. O lo è solo in parte. Il primo film da esportazione del cineasta di Hong Kong Wong Kar-wai, oggi notissimo in Occidente grazie a capolavori come "In the mood for love" e "2046", è un’opera bizzarra e a tratti surreale che immagina due storie distinte che idealmente si sfiorano, si toccano incontrando il tema delle fragilità emotive, delle difficoltose cesure col passato e delle mai semplici ripartenze imposte dal mutamento della vita amorosa: dall’idillio al sentimento infranto, per un nuovo incontro, in una sorta d’eterno ritorno.

Il destino è buffo ed anche beffardo, gli avvicinamenti più complicati di ciò che ci mostra la macchina da presa, spesso protagonista ingannevole perché indirizzata dall’occhio di un cineasta che immagina il cinema come l’arte post moderna per eccellenza. Wong Kar-wai è un grande regista, con una sua estetica riconoscibile che gioca su sperimentazioni sia visive che narrative mai banali o fini a se stesse. Fa ampio uso del ralenti sulle figure dei protagonisti, accelerando però i fotogrammi sullo sfondo: è un effetto visivo che trova il suo fondamento in una idea narrativa, ovvero rendere evidente il contrasto tra la dimensione sospesa – quasi uno stadio fisico immoto – dell’amato abbandonato e la velocità meccanica della vita che gli scorre al margine. Le storie sono distinte e distanti, si sfiorano per suggestione, si toccano dove sopraggiunge la fine della prima e l’inizio della seconda. Le accomuna l’uso della voce fuori campo, attraverso la quale partecipiamo dei pensieri dei protagonisti. È una scelta narrativa essenziale che conferisce forza all’opera, perché attraverso la voce fuori campo vengono portate alla luce le interiorità, altrimenti celate sotto una cortina di silenzio. Non c’è autocompiacimento, né autorialità a tutti i costi, perché Hong Kong Express, come la quasi totalità dei film di Wong Kar-wai, è un’opera che scorre, che coinvolge, che diverte, che si lascia apprezzare per uno stile narrativo che strizza l’occhio a Quentin Tarantino, senza dimenticare la lezione del cinema europeo di qualità. E poi ci mette tanto del suo, non solo assemblando diversi stilemi cinematografici, ma innovando in chiave quanto mai attuale il tipico action hongkonghese, in precedenza portato alla ribalta da John Woo (qui solo labili tracce: vedere il successivo Angeli perduti). La marginalità dell’azione consente a Wong Kar-wai di filmare i silenzi e i sentimenti, l’amplificazione delle consuetudini e il crearsene di nuove: tutto diventa stasi o compulsività, o l’alternarsi dei due stati emotivi – non esistono dimensioni psicologiche intermedie – quando è finito un amore. È emblematico il caso della matricola 223, che sceglie il rituale dell’acquisto delle scatolette di ananas per circoscrivere un tempo ideale, allo stesso tempo reale e immaginario, in cui scegliere di vivere un’attesa che, appare logico alla ragione ma non al protagonista, non può avere l’approdo desiderato. Ragione e sentimento sono due territori distanti anni luce nell’idea narrativa proposta, le figure filmate da Wong Kar-wai diventano personaggi d’un melodramma mai gridato ed esibito, quanto mai pudico anche nell’evidenza di una rappresentazione che non avvicina quasi mai i corpi. Le uniche vicinanze sembrano, al contrario, aumentare l’effetto solitudine e straniamento, ancorché proprio l’assenza di parole dovrebbe favorire il linguaggio dei corpi. I mondi non si incontrano; gli universi, come del resto le due storie narrate, si sfiorano soltanto perché la vita è caos e le informazioni facilmente si perdono: sono sempre troppe o troppo poche, inadeguate perché mai davvero dirette. È il caso delle lettere non lette per tempo, come si accennava. Questa comunicazione mai facile e sovente interrotta trova la sua esemplificazione più immediata proprio nelle immagini: protagonisti sfocati, continue dissolvenze; tutto è scentrato e fuori fuoco, nemmeno l’immagine è chiara e non comunica ciò che dovrebbe. Tutto rischia di perdersi in un riflesso, in un’allucinazione, in un sogno nemmeno incubo, in uno stadio onirico indecifrabile o difficilmente interpretabile.

Non solo il tempo che ci ospita ma anche il destino, questi i due giocatori che bluffano sul tavolo da poker dei sentimenti. Siamo costretti a bluffare anche noi, a volte; siamo sovente vittime di un involontario auto inganno: l’amore è un gioco d’azzardo, esposto ai rischi di una comunicazione sempre edulcorata e mai veramente libera. Ma non c’è pessimismo assoluto nella doppia parabola di Wong Kar-wai, allorché lo stesso destino può restituire, per vie sempre molto tortuose, ciò che in passato aveva tolto. Certo bisogna cominciare a leggere le lettere, o quanto meno a interpretare i segni visibili che incontriamo sulla nostra strada.