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Attenzione: la recensione contiene spoiler

“Belladonna della tristezza” è un film impegnato e impegnativo, che difficilmente può essere visto per passare un’ora e mezzo quando capita, perché non si ha di meglio da fare. È un’opera di difficile visione, prima ancora che di difficile comprensione. Difficile, insomma. L’ho già detto che è difficile? A prescindere da questo, sono però dell’opinione che non si possa pretendere che un ipotetico spettatore faccia ricerche e studi sull’opera, l’autore, il periodo storico e tutto il contorno che ha contribuito a rendere il film quello che è. Non troverete questi riferimenti, qui. Lo spettatore deve comunque avere il diritto di guardare un’opera senza prima documentarsi a morte per avere la speranza di poterci capire qualcosa. D’altro canto, l’eccesso di dietrologia rischia di farci trovare significati dove l’autore non ne aveva nascosti, un po’ come se si trattasse della “Divina Commedia”.

Quella che segue sarà quindi una serie di considerazioni generate dalla visione del film, nulla di più, ma nulla di meno. In realtà la parte importante della visione non è il possibile colpo di scena, che in questo caso è inesistente. La trama in sé è molto semplice e lineare, motivo per cui passerò a raccontare sostanzialmente l’intero film. Chi volesse riservarsi la sorpresa farà meglio a non continuare nella lettura.

Le difficoltà iniziano con il comparto visivo, che è costituito principalmente da quadri fissi, a volte sotto forma di disegni lunghissimi che scorrono lateralmente, come se si stesse srotolando un lungo papiro. Le animazioni sono poche, spesso a sottolineare i momenti più drammatici e, ancora, sovente, riservate ad effetti simili alle ombre cinesi: forme di colore uniforme, a campitura piatta. Si tratta di una scelta stilistica che, con la giusta predisposizione mentale, non appesantisce troppo l’opera, in quanto l’attenzione dello spettatore viene catturata da altri dettagli, come gli splendidi fondali che richiamano gli acquarelli, o certi quadri di Klimt, o la figura di Jeanne, la protagonista, dalla sensualità prorompente e dirompente.

Nel contempo, non si può non farsi rapire da un commento musicale spesso psichedelico, in puro stile anni ‘70, che ha, tra le altre, reminiscenze dei Pink Floyd. Una vera perla, che contribuisce molto alla buona riuscita di questo titolo. I doppiatori fanno un ottimo lavoro, anche se l’effetto finale, giocoforza, risulta poco scorrevole e un po’ datato. Stiamo pur sempre parlando del 1973.

La storia è ambientata in una sorta di Medio Evo europeo, e comincia come una fiaba: una cantastorie ci racconta che c’erano una volta un uomo di buon animo e una bellissima fanciulla uniti dall’amore. Sono Jean e Jeanne, novelli e casti sposi che, per cominciare la loro vita coniugale, devono prima pagare al signore del luogo il prezzo della sposa. Ma Sua Eccellenza vuole molto di più di quanto i due, poverissimi, possano pagare, e quindi decide di esercitare il famigerato ius primae noctis, sostenuto e addirittura spronato dalla moglie che, saputo che la ragazza è pura, la offre a tutti i cortigiani. Si ha l’impressione che la donna si risenta del fatto che i due si amino castamente e voglia distruggere le loro vite normali, ben diverse da quelle dei cortigiani, veri e propri mostri sia in aspetto che in comportamento.

La notte di nozze di Jeanne si trasforma così in un lungo incubo nel quale il signorotto e i suoi sottoposti la violentano ripetutamente in modo bestiale, come sottolineato dalla raffigurazione di questi figuri. I simbolismi usati in queste scene sono sicuramente forti e, pur non essendo particolarmente dettagliati, lasciano poco spazio all’immaginazione: non si può rimanere indifferenti alla tragedia che colpisce la ragazza. Da questa esperienza non potrà che uscire profondamente segnata.

La casta Jeanne, onesta, lavoratrice, che ha sempre creduto nella misericordia di Dio, è stata da questi tradita nel peggiore dei modi. E quando, tornata a casa da un marito poco empatico, viene tentata da un demone dalle forme e movenze ‘strane’, non può resistergli a lungo. Lo farà per salvare il marito, che ama nonostante la sua incapacità di comprenderla e aiutarla, ma, seppur dapprima riluttante, finirà per cedere alle lusinghe del diavolo fallico che la tenta. La storia viene raccontata così, ma si può ben pensare che, sotto l’enorme choc del torto subito, Jeanne perda il senno e venga trascinata in un mondo di propria creazione, in cui realtà e sogno si mescolano in un crescendo di delirante onnipotenza, magari aiutato dall’assunzione di sostanze allucinogene.

Atropa belladonna, si chiama una pianta delle solanacee, una pianta ambigua: cosmetica e fatale. Le bacche, se ingerite, possono essere letali, o provocare allucinazioni e delirio, mentre un tempo le donne usavano instillarsi un collirio a base di questa pianta che, per mezzo dall’atropina e della sua azione sul sistema parasimpatico, dilatava le pupille conferendo attrattiva allo sguardo. Per contro, come dimenticare che Atropo era una delle Parche, deputata al taglio del filo della vita? E, guarda caso, Jeanne è una tessitrice: c’è una lunga scena nella sua dimora, la mattina dopo quella notte fatale, in cui si assiste al continuo girare della ruota di un arcolaio.

Abbiamo detto che Jeanne viene ‘visitata’ da un demonietto fallico, che crescerà in dimensioni man mano che il film procede, e racconta il desiderio di potenza, di libertà e di riscatto femminile della ragazza. È chiaro l’intento didascalico dell’opera: la religione, il patriarcato, il maschilismo, il bigottismo sono essi stessi i ‘diavoli’ da eliminare per far sì che la liberazione sessuale e il progresso spezzino le catene del loro potere sugli uomini e soprattutto sulle donne. E Jeanne inizialmente le spezza eccome, queste catene: in un crescente delirio onirico di erotismo sempre più spinto, reclama la direzione della propria vita, pur continuando ad amare il proprio inetto marito.

Nel film è proprio il diavolo fallico ad insegnare a Jeanne come rendersi indispensabile al villaggio, prendendo e dando denaro in prestito durante una guerra e, più avanti, ricavando dalla belladonna un medicinale per salvare i suoi compaesani dalla peste. Si può ben dire che ci sia una sorta di fondo di verità, in questo: per molti secoli, come anche in questo caso, la donna ‘sapiente’ è sempre stata sospettata di stregoneria, di combutta col diavolo, a maggior ragione se non opera sotto il diretto controllo di un uomo. Gli uomini, e specie gli uomini di chiesa, la temono perché mina il loro ordine costituito, e molte donne la odiano perché non si conforma ad un’idea femminile che ritengono le protegga. O forse sono, semplicemente, livorosamente invidiose. In questa categoria pare rientrare la moglie del signorotto che, in assenza del marito in guerra, fa perseguitare Jeanne come strega, costringendola alla fuga. Perfino il marito, l’imbelle Jean, la rinnega.

Abbandonata da tutti, cede infine a Satana, e nell’amplesso si generano - o meglio, si sognano? - strani mondi, mondi futuri, in una cacofonia che non si comprende se sia creazione o distruzione. Ma con l’uso della belladonna come analgesico, medicinale, e come panacea per tutti i mali del villaggio, ora Jeanne si fa tanti amici fra il popolino, che ne apprezza le doti. Si assiste ad una lunga sequenza orgiastica degna di Hieronymus Bosch, forse a significare la liberazione di coloro che si affidano alla sensuale sapiente. E, forse, un tantino eccessiva, specie là dove indulge nel mostrare scene di bestialità.

Ma Sua Eccellenza, vedendo il pericolo che Jeanne pone alla sua autorità, cerca di attrarla nuovamente nella sua sfera di potere, facendola richiamare dall’ingenuo marito che, per salvarsi la pelle, la sprona a tornare. E lei, furbastra, nonostante sappia che finirà male, lo perdona, e ci va ugualmente. Perché lo ama ancora! Ora, sinceramente, non so quanto la relazione fra i due possa essere foriera di un messaggio positivo. Parlare di femminismo, di liberazione della donna, e poi far comportare Jeanne come uno zerbino mi sembra un controsenso. Ai miei occhi Jean è un bamboccio piagnucoloso e codardo, che l’ha abbandonata nel momento del bisogno e che riappare a mendicare affetto e a ordinarle di tornare al villaggio perché gli è stato, a sua volta, ordinato. Alla fin fine, a mio personalissimo parere, dalle catene tenute in mano dal maschio Jeanne non si è liberata affatto!

Il signorotto, in cambio di informazioni sulle erbe medicinali, le offre in crescendo molte cose, fino ad essere suo secondo. A Jeanne, però, questo non basta. Vuole tutto. Perché dovrebbe essere il secondo violino, se è lei a detenere il sapere? Non può finire bene. E, difatti, finisce malissimo. Ma la sua morte, ci dicono, non sarà inutile: le donne che assistono al suo martirio si identificano tutte con lei. Un seme è stato piantato. Jeanne come Giovanna d’Arco: prima la sfruttano e poi se ne liberano...

Ora, l’opera compie un salto piuttosto ardito quando, sui titoli di coda, offre una chiave di lettura e ci dice che qualche secolo dopo ci sarà la presa della Bastiglia e che la Rivoluzione Francese sarà guidata dalle donne. Ebbene, che le donne abbiano avuto una parte, anche importante, nella Rivoluzione Francese, è innegabile. Che essa sia stata così fondamentale potrebbe essere opinabile. Resta comunque il triste fatto che, di tutte le donne che hanno partecipato agli eventi di quegli anni, l’unica di cui ci si ricordi davvero è Charlotte Corday, che ha ucciso Marat nel bagno, e anche lei probabilmente solo per il celeberrimo dipinto che la ritrae in quel momento. Il loro apporto scompare, offuscato da uomini molto più famosi e molto più rappresentati nei libri di storia. Non dimentichiamo che la prima elezione fu a suffragio universale, sì, ma ‘maschile’.

La denuncia c’è, ed è fortissima, pur se, come detto prima, la relazione tra Jean e Jeanne non è propriamente coerente. Non è però solo un’accusa verso l’oppressione femminile perpetrata dal maschio e dalla Chiesa. Non dimentichiamo che, in quella notte di nozze finita così male, a corte c’era anche il prete che aveva sposato i due giovani, che nulla aveva fatto per salvare la poverina. Il marito di Jeanne, che pure l’ama, come abbiamo visto è fondamentalmente un vigliacco ingenuo, e non esita ad abbandonarla quando viene accusata di stregoneria, per ricomparire anni dopo solo perché costretto dal signorotto che vuole per sé il sapere di lei. Il signore però non opprime solo le donne, ma tutto il popolino in generale, mantenendolo nell’ignoranza e nella sottomissione con la forza e con la complicità del clero. La furia della plebe, istigata dalla morte della coppia, viene subito smorzata con la minaccia delle armi. Non tutti sono pronti al martirio per i propri ideali.

Giunti alla fine del cerchio, restano da definire alcuni punti. Tralasciando i riferimenti alle opere che hanno ispirato o preceduto questa, che possono essere trovati ovunque in rete, bisogna rimarcare come “Belladonna della tristezza” sia un film a tinte forti, e non solo nei rossi accesi che ne sottolineano le scene più crude.

Abbiamo visto quanto sia particolare il comparto visivo, tanto da rendere quasi dubbia la sua appartenenza al genere anime, e quanto sia coinvolgente la colonna sonora che non solo fa da sottofondo alla storia, ma che spesso contribuisce a narrarla. Ci siamo commossi per le vicende di Jeanne, irritati e sdegnati con il marito imbelle, sprezzato la coppia signorile e tutta la sua corte. Ci siamo sentiti un po’ spaesati nelle scene oniriche, forse un po’ coinvolti dalla bellezza conturbante di Jeanne.

Allora perché non fare come altri, e assegnare un 10 a quest’opera così peculiare? Non certo per la carenza di animazioni o per il tratto vintage, che fanno parte integrante dell’opera. In realtà, non posso nascondere di aver provato più di qualche attimo di noia. Non tutta l’opera si è mantenuta allo stesso, altissimo, livello, rivelandosi piuttosto discontinua. Lo stesso modo in cui è stata concepita porta a momenti di scarso coinvolgimento, seguiti da altri molto pregnanti. Alcune scene le ho trovate piuttosto eccessive e inutilmente reiterate, pur trattandosi di un’opera destinata ad un pubblico adulto. Ci sono stati momenti in cui sono stata fortemente tentata di chiudere tutto e lasciare perdere.

In definitiva, pur riconoscendo a questo titolo l’indubbio merito di essere portatore di un messaggio condivisibile, e la visionarietà con cui viene trasmesso, considerando anche il periodo in cui è stato concepito, non posso dimenticare di aver provato durante la visione più di un moto di noia e di fastidio. Per questo non posso considerarlo un capolavoro. Ottimo sì, ma non eccelso.