logo AnimeClick.it

8.5/10
-

“O tu, che come un coltello sei penetrata nel mio cuore gemente: o tu, che come un branco di demoni, venisti, folle e ornatissima,
a fare del mio spirito umiliato il tuo letto e il tuo regno – infame cui sono legato come il forzato alla catena,
come il giocatore testardo al gioco, come l’ubbriaco alla bottiglia, come i vermi alla carogna – maledetta, sii tu maledetta!”


Quanto è arduo per un adolescente introverso svegliarsi ogni giorno, mettersi alla prova, affrontare nuove sfide, scacciare ansie e insicurezze, gestire le pulsioni, fare contenti gli altri, tornare a casa, andare a letto, combattere i propri demoni per poi cercare di addormentarsi… e risvegliarsi esattamente al punto di partenza?

“Paura e risate provengono dalla stessa emozione: lo stato di sorpresa.”

"Perché in questa città c’è così tanta ruggine?”, riflette il protagonista all’inizio.
Ambientata in un paesello isolato, antico, datato, immerso silenziosamente fra monti verdeggianti, "Aku no Hana" è un brevissimo arco di lunghissima introspezione. La ruggine è ovunque, e la peggiore la si trova spesso nei salotti borghesi o sui volti dei benpensanti, non certo aggrappata alle insegne sgangherate di officine in disuso, o attorno a torreggianti disclaimer della SONY che ammiccano sui tetti sgangherati. Ruggine velenosa, bugiarda, specchio delle menzogne dal sorriso di plastica, bugie perfette per vetrine da social perbenisti, passe-partout per essere accettati da tutti.
Niente che non conosciamo già.

“O dolore! Dolore!
il tempo divora la vita,
e l'oscuro Nemico che ci corrode il cuore,
col sangue che perdiamo,
cresce e si fortifica!”


Siamo di fronte a un prodotto di grande intellettualità, che per essere metabolizzato nella maniera più completa necessita per lo più un pubblico maturo, quantomeno empatico, riflessivo, interessato a tuffarsi nei meandri dell’animo umano, dove il torbido incontra il Vero. Dove spesso il torbido è il vero.
Artisticamente sperimentale e provocatorio, proprio come la raccolta di celebri poesie a cui vuole ispirarsi, suscita sensazioni discordanti già dai primi secondi, ove, su fondali ben lavorati si muovono i protagonisti della storia, figure ritratte in modo realistico nelle rappresentazioni sommarie, ma privi di dettagli, quasi ritagliati, come a distaccarsi da ciò che li circonda (almeno fino a quando non vedremo dei primi piani), sbalzati e appiattiti contemporaneamente, esseri umani fuori contesto nel loro stesso mondo, anime/anonime che scopriremo tormentate o inevitabilmente corrotte, pensiero arrendevole – eppur piacevole - in un audace parallelismo con le riflessioni di Baudelaire. I dettagli dei soggetti mancano volutamente, i dialoghi dei passanti sono distanti, banali. Ogni cosa scorre, come ad incorniciare pigramente le nostre esistenze cui nemmeno facciamo più caso.
L’intransigente desolazione con cui gli autori indugiano sulle ombre urbane (più che sulle luci) appaiono come sottili e caduchi suggerimenti atti a indicare un quadro generale diffusamente ansiogeno; come contraltare, le sfumature negative dei fondali, minuziose e dettagliate, ci dicono ancor prima dei dialoghi lo stato mentale da cui è generato il modus operandi: ogni scenario più terso e soleggiato, se filtrato dagli angoli più sofferti e angosciati del nostro pensiero, può incancrenirsi fino a divenire il vestibolo di un incubo ad occhi aperti.

Così, accompagnato da una colonna sonora minimale – malinconiche note di pianoforte che a tratti ricordano l’indimenticabile motivo di Thomas Newman in “American Beauty”, – seguiamo le monotone giornate di Takao, studente liceale come tanti, appassionato di letteratura ed in particolar modo di Baudelaire, giovincello che di tanto in tanto si perde fra righe, parole e riflessioni legate a poesie e racconti che ha imparato ad amare e comprendere, percependo significati reconditi e metafore gravanti, significati e metafore che rivede soprattutto in una certa Nanako, compagna di classe di cui è invaghito: Takao cerca il suo angelo, la sua musa ispiratrice, una figura candida, perfetta, incontaminata.
Cerca qualcosa che non esiste, un’illusione che alleggerisca il suo mal de vivre.
Alla tiepida luce d’un tardo pomeriggio, accade il misfatto: solo a scuola, proprio per recuperare l’amata raccolta di poesie abbandonata sotto al banco, mentre il sole cala e le ombre s’allungano, Takao nota un indumento che probabilmente Nanako ha dimenticato: una felpa usata nell’ora di educazione fisica, ben impregnata del suo odore. Il ragazzo, che mai aveva nemmeno osato lontanamente pensare ad azioni del genere, non resiste e si lascia andare all’istinto, impadronendosi del capo.
Purtroppo per lui, qualcuno che si trovava casualmente sul posto s’è accorto del furto. Ecco che le carte in tavola cambiano leste: la testimone è Sawa, altra compagna di scuola introversa, distaccata, in perenne rotta con chi la circonda e dai modi scurrili, stanca, anzi esausta, irritata e nauseata dal perbenismo imperante che ha infestato con le proprie radici ogni angolo della società.
Si viene subito a creare un dualismo altalenante: Takao è il classico liceale che cerca di apparire “a posto” proprio come famiglia e scuola lo vorrebbero; circondato da amici insulsi, anonimi e dai modi più infantili di lui, ha sempre pensato che la sua unica passione potesse essere la lettura, perdersi nei fantastici romanzi e nelle intriganti raccolte di grandi autori. Mai avrebbe potuto immaginare che la vera evasione cerebrale potesse essere sperimentata vivendo una sciagura sotto mentite spoglie, sciagura di nome Sawa, che dietro apparente sadismo, sfrontatezza e rabbia repressa nasconde un grande desiderio di libertà e sincerità.

“O Dio, dammi il coraggio, la forza di guardare
senza provar disgusto il mio corpo e il mio cuore!”


Proprio come ne I fiori del male, ogni elemento mondano ha una chiave di lettura apparentemente biunivoca e corrotta: Baudelaire intuisce che al di là delle ipocrisie si cela una realtà più vera e profonda dalla quale non si può fuggire, ma che per essere rivelata ha bisogno allusioni; una realtà dove non esistono maschere, fatta di fragilità, sofferenza, percorsi formativi, perdizione e autodistruzione. Tutto questo non è la meta di nulla, bensì atti di ribellione verso Dio, verso il mondano e addirittura verso la morte stessa, come se la corruzione stessa non fosse il prodotto degradato e fallimentare del percorso compiuto, ma un evolversi superiore ed inevitabile che vedremmo dentro ognuno di noi se arrivassimo a tale livello di coscienza e onestà.
Analogamente, Takao, dopo il furto dell’indumento, si osserva da fuori e si vede come uno dei germogli “malati”, autocritica che parrebbe esagerata per un’azione del genere (aver rubato la felpa della compagna di classe, di certo non un’azione da codice penale!)
L’esasperazione dell’illusione adolescenziale di un giovane nipponico, ben istruito ed eccessivamente morigerato è piuttosto evidente: colto sul fatto, comincia a tormentarsi ancor più di quanto dovrebbe. Sawa, difatti, innesca nei suoi confronti un gioco perverso e malato costruito su ricatti per non rivelare l’accaduto, mentre Takao, indugiando e spaventandosi, peggiora sempre più la situazione.
Ma questo giochetto lo sta davvero solo spaventando, o c’è dell’altro?

L’intento dell’autore è chiaramente quello d’esasperare in via più che sperimentale la sensazione inebriante che si ha quando si contravviene qualche regola, indotti da un istinto che porta piacere psicologico, ma che in seconda battuta va a cozzare contro le leggi e le abitudini quotidiane, ergo mette in una posizione di soggezione e vergogna. Elementi qui portati all’estremo, e nel quale il giovane protagonista si rifugia, citando continuamente il grande poeta francese, quando invece la verità è tutt’altra: la “follia” e i ricatti nei quali Sawa trascina Takao sono semplicemente la metafora dello svestirsi dalle ipocrisie mondane, decidendo d’abbracciare i propri pensieri senza filtri, smettendo di mentire a sé stessi e a chi ci circonda, abbandonandosi alle proprie pulsioni e alle proprie perversioni. Ma cosa significa, realmente, “perverso”? Non è forse il più perverso degli atti aderire all’etichetta che la società ci impone, invece che mostrarci per ciò che siamo davvero?
Se il peccato è negli occhi di chi guarda, allora chi è davvero l’ipocrita peccatore?

“Ci hanno fatto credere che è peccato, poiché è troppo piacere”

Sin da subito, la messa in animazione emana un’intensità incredibile.
Vi sono frangenti dove la tensione si riesce a percepire distintamente. Persino le pause vanno lette nella maniera corretta; talvolta comunicano messaggi impliciti e la trama fa spesso perno sulla fragilità di Takao, che vive in modo quasi devastante certe situazioni di difficile gestione. Sono silenzi, talvolta lunghissimi, carichi di una forza espressiva davvero intensa e tagliente.

Il contenuto comparto sonoro si rivela ancor più provocatorio delle animazioni.
L’opening, quando irrompe, spezza il leitmotiv depressivo sul quale tutto scivola apparendo quasi fuori luogo, giocando su note fin troppo gioviali rispetto al tenore generale, per poi ritornare al ritmo semi riservato che permea tutta l’opera. La ending è cacofonia pura, ansia sperimentale. Talvolta i toni cambiano e le note assumono altri colori, o mutano, accompagnando scene memorabili come il finale del settimo episodio.

Dei tre personaggi principali, Sawa è sicuramente quella più incentrante e criptica, sottile e tagliente, nonché il personaggio più sfaccettato e realistico dell’anime. Capro espiatorio delle compagne di classe (quelle composte e truccate, quelle perbene, quelle dell’orgoglio di mamma e papà), Sawa è spesso volgare, esasperata dalla marcia ipocrisia che la circonda e da ciò che l’ha fatta soffrire in passato; possiede una personalità borderline, a tratti inquietante e spigolosa. È come una pentola a pressione che finirà per sfogare le proprie frustrazioni e perversioni proprio su chi ritiene identico a lei, ovvero Takao; in egli si rispecchia, e come ogni carattere dall’animo frantumato che viaggia alla deriva, cerca di tirare a fondo chi ha vicino, abbattendo i muri del perbenismo sociale: ma è solo un processo di degrado irreversibile, o è semplice solitudine?
Tali voli pindarici portano alla semplice e disarmante conclusione che Sawa, semplice a dirsi, è l’unica libera.
Sola ma libera. Sembra pazza, mentre è solo arrabbiata, gelosa, insofferente, ferita dal mondo, oltre le convenzioni, l’unica “normale” proprio perché "pazza". Libera di dire ciò che pensa, lontana dai canoni e dai ritmi che tutti dovrebbero seguire per apparire “perbene”, lontana dall’ipocrisia di una società così malata da vedere in chi la rifugge ciò di cui invero è ammorbata.
Purtroppo, però, questo approccio dissoluto ne accelera la caduta, spingendola ogni volta un po' più in là, mettendo a briglia sciolta ogni sua bizzarria, coinvolgendo Takao che – attenzione – nonostante lo neghi disperatamente, desidera e apprezza codesta deriva, anche se scampoli di falso decoro tentano invano di riportarlo ad abitudini diametralmente opposte.

Quest’anime compie un nodo intricato e complesso per raccontarci qualcosa di sempre attuale e davvero semplice, Pirandelliano oseremmo dire, e cioè che in pubblico indossiamo delle maschere, simulacri del nostro vero Io, l’Io reale ben nascosto dietro regole che ci imponiamo di rispettare. E allora da Baudelaire, dissoluto, tormentato e fiero, il passo verso Pirandello è brevissimo, un passo che ci porta fra una, nessuna e centomila di queste maschere. Volti di cera che persone apparentemente folli, frustate o semplicemente libere come Sawa hanno deciso di rimuovere al prezzo della propria conformità in un mondo che non è sincero, e -da sempre- mente a sé stesso.
La verità risiede dentro di noi e non può essere rifuggita. Addirittura, Takao, che per quasi tutta l’opera tenta di riprendere la “retta via”, dimostra di quanta ipocrisia siano intrise talune sfaccettature della cultura medio borghese, tanto inattaccabile quanto posticcia.
Ognuno di noi ha le proprie fantasie che spesso identifica in perversioni, ma Sawa, a differenza di chi ostenta decoro, semplicemente non le nasconde.
Non esiste scandalo né peccato: ciò che consideriamo trasgressioni sono la messa nero su bianco del nostro io interiore, della maschera che cade. La moralità è un discorso a parte. Ciò che si pensa generato da un “lato oscuro” sono semplici pulsioni e istinti nati da fantasie e desideri della nostra mente. La società – in questo caso quella nipponica, - così rigida e inflessibile tanto da inculcare nelle menti degli adolescenti un certo tipo di approccio all’intimità, invita ad erigere muri mentali similari.
Riecco quindi la prigione.
Le mura attorno al “vero Io”: una tuta rubata alla compagna è solo uno dei pretesti per parlarci di ciò che la pudicizia e l’ipocrisia di un circondario ligio alle regole in fondo ci nausea, ma solo quando siamo troppo esausti per rimanere all’interno degli schemi.
I Fiori del Male è una lunghissima agonia che scivola verso un finale sempre più allegorico, corrotto e allucinato, un onirico impadronirsi delle noiose percezioni quotidiane tanto da ricordare i fantastici, deliranti viaggi dei migliori Pink Floyd. L’idea di Sawa di fuggire dal paesino-prigione che la soffoca e raggiungere l’agognata collina che conduce a vie di fuga da tempo bramate, simbolizza l’abbandono dei meschini e insulsi luoghi natii con l’intento di esplorare orizzonti lontani, mentalmente differenti, sterminati e liberi da più punti di vista. Dai pretesti scolastici che ora risultano ovviamente stolti e ridicoli, si raggiunge lentamente un’atmosfera di pericolosa perdizione e disperata follia: l’autoflagellamento che riporta al Peccato Originale con il quale - da millenni - l’uomo si mortifica negandosi una libertà spirituale, è chiaramente la matrice da cui deriva gran parte di disagi sociali più o meno gravi, una gabbia mentale attorno al nostro “vero Io”.
Così, l’opera scivola verso la sua parte "peggiore”, ovvero un finale incompiuto, in attesa di un seguito (stagione 2) che pare non arriverà mai. Peccato, perché l’epilogo sfiora vette di oscurità notevole, suscita grande curiosità, oltre che morbosa inquietudine.
E, soprattutto, ci fa riflettere a lungo riguardo elementi su cui raramente ci soffermiamo.

L’inevitabile verità è, per quanto ci sforziamo, scalpitiamo e sbraitiamo, che siamo comunque in trappola: sin dal giorno della nostra nascita, siamo stati plasmati e siamo cresciuti seguendo determinate regole, che, dolenti o nolenti, per quanto correremo lontano, almeno un poco faranno sempre parte di noi. Prendendo atto di ciò, con malinconica arrendevolezza, è facile comprendere come i due protagonisti, Sawa e Takao, non siano altro che semplici adolescenti schiacciati da un mondo che non li può capire, ma solo opprimere e fagocitare.
Ragazzi in eterna lotta con loro stessi ed in grave difficoltà ad inserirsi in una macchina stritolatrice alla quale ormai gli adulti sono tristemente anestetizzati.
Forse la libertà è davvero nella follia,
ma diamine,
a quale prezzo.