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8.0/10
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“Superare i confini dell’espressione per aprirla a nuovi orizzonti”

Partendo dall’ispirazione fornitagli da “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, uno dei padri artistici del maestro Furuya, il sensei prosegue il percorso tracciato da “Palepoli” concependo una nuova raccolta antologica di racconti brevi, includendo nel volume anche il suo primissimo lavoro targato 1993: “Addio con un sorriso” (antecedente a “Palepoli”).
Il trittico di Bosch, esacerbato da una filosofia disillusa e nichilista, diventa una voragine in cui sprofondare inesorabilmente, un abisso che dischiude gli occhi per osservarsi dentro e scoprire qualcosa di ancora più buio.
Il giardino di Usamaru Furuya è una selva oscura di perdizione, il segreto da non svelare, la porta da non aprire, l’insaziabile sete di conoscenza, quella bramosia di sapere che si trasforma in un peccato impossibile da non compiere, l’ignoto oltre la soglia del raccontabile.

Ognuna delle sette storie proposte rappresenta un determinato giardino, si parte da “Il giardino dell’illusione: l’origine della nudità” fino a “il giardino della distruzione: Emi”, il che, nonostante l’irregolarità dei racconti, e nella lunghezza (si passa da capitoli di appena 10 pagine ad altri che superano le 100) e nelle scelte stilistiche adottate, permea l’opera di una pregevolissima coesione artistica che funge da fil rouge del volume, proiettando il tutto in un caleidoscopico mosaico dal fascino magnetico.

Francis Bacon, Hieronymus Bosch, e Francisco Goya sono solo alcune delle principali fonti d’ispirazione del sensei. Il soave tratto pittorico di Furuya sfoggia ancora una volta la commistione di più stili, spaziando dal classico al moderno, dal rinascimentale all’espressionismo, partendo dalle grafiche abbozzate e stilizzate del suo lavoro d’esordio “il giardino del rimorso: Addio con un sorriso”, da cui possono scorgersi le prime scintille artistiche che esploderanno poi in “Palepoli”, arrivando ai disegni sporchi e graffiati dell’agghiacciante “il giardino della distruzione: Emi”, in cui il mangaka, afflitto da una tendinite acuta, dovette disegnare la storia con il pennino legato alla mano per sopportare il dolore. “Emi” è indubbiamente la storia più disturbante della raccolta, tanto da essere uscita in Giappone con le pagine incollate da “tagliare” per essere lette; quella che inizia come una sorta di oscura reinterpretazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, diventa presto un claustrobico cul-de-sac dell’orrore, un sanguinario tunnel plumbeo che non può che condurre ai pinnacoli della follia umana attraverso ripide di terrore cosi estreme da apparire, a tratti, pretestuose. “Vi preghiamo di comprendere che la lettura di Emi è un rituale. Vi chiediamo di leggere questa storia di vostra spontanea volontà. Grazie”. L’avviso introduttivo al racconto non lascia adito a fraintendimenti. Il capitolo foriero di quella che diverrà la filosofeggiante cifra stilistica di Furuya è però: “il giardino della scienza: Il libro della luna”. Una ragazza naufragata su un’isola, un castello misterioso. All’interno uno stregone e il suo giovane apprendista. “Il libro della luna” è la spasmodica ricerca della verità in un vuoto cosmico di dubbi; la guerra fa da sfondo allo sbocciare proibito del primo amore, in un’ambientazione dannatamente evocativa, le cui "vibes" agrodolci lasciano intendere che nella testa di Furuya fermentassero già alcune delle idee consolidate poi all’interno dello struggente “La musica di Marie”.

Abbondano scene di nudità e sesso esplicito, divenute nel tempo uno dei marchi di fabbrica di Usamaru, d’altronde è proprio la rappresentazione della sensualità femminile una delle cose che in assoluto riesce meglio al sensei. L’alta carica erotica del volume esplode nel dissacrante “il giardino del piacere: La fellatio angelica”. Un concentrato di blasfemia e nonsense in cui, una vergine Maria rivisitata in chiave Lolita, tutt’altro che intenzionata ad adempiere ai suoi compiti, cerca a tutti i costi di perdere la verginità per privarsi della purezza utile a partorire il messia. Per farlo coinvolge un suo impacciato compagno di classe, ma proprio quando i due sono in procinto di consumare il rapporto, dal cielo scendono schiere di angeli intenzionati a guastar loro le feste.

“Garden” è una consecutio sbalorditiva di immagini mozzafiato, un giardino sospeso tra esoterismo e simbolismo religioso, che si frappone in perfetta continuità tra lo sperimentalismo di “Palepoli” e la filosofia di “La musica di Marie”, regalandoci diapositive indelebili nella galleria dei ricordi. La potenza visiva del capitolo introduttivo (peraltro interamente a colori) è un qualcosa di difficilmente eguagliabile in termini di mera resa figurativa.
Un Eden sacrilego, una genesi eretica, un fiore che schiudendosi rivela un abominio mostruoso come padre creatore del tutto, la natura che si contorce in orripilanti coacervi organici pronti a disseminare odio e distruzione in tutto il creato. “Garden” è un pesce alato con la canna da pesca impigliata tra le ali, è la verità nascosta in sabbie mobili di vischiosi dubbi da cui è impossibile sottrarsi, è un uomo che insegue il sapere perché sa che la conoscenza è come un’oasi nel deserto dell’anima; “Garden” è l’anima che si libra in volo fuoriuscendo dalla gabbia del corpo, dalle carni strappate.

Un Furuya estremo, all’apice del suo cinismo, confeziona un turpiloquio folle e visionario, un volume unico scioccante e divisivo che, al netto di qualche spezzone meno ispirato, riesce a mantenere la qualità su livelli altissimi per tutta la sua durata.

“È sbocciato, il fiore della mamma è sbocciato”