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Personalmente, e senza tener conto di “Earwig e la strega” (mi perdonerà Goro Miyazaki), la visione di “Pioggia di ricordi” di Isao Takahata coincide con la chiusura, quasi definitiva, del mio conto in sospeso con lo Studio Ghibli. Diverso tempo fa oramai, decisi di prendere visione di tutti i film dello studio d’animazione che fa capo al grande Hayao Miyazaki, iniziando un viaggio la cui meta finale è il rewatch de “Il Castello Errante di Howl”, primo film che ho visto del sensei e che mi ha avvicinato all’universo stupendo e sconfinato dello Studio Ghibli. Sono trascorsi quasi tre anni da quando ho iniziato questo percorso, con la visione de “La città Incantata”, e, oggi, mi sono ritrovato a superare l’ultimo “ostacolo”, ovvero “Pioggia di ricordi”.

Largamente ispirato al manga omonimo di Hotaru Okamoto e Yūko Tone, il film, diretto da Isao Takahata e prodotto da Toshio Suzuki, è stato proiettato per la prima volta in Giappone il 20 luglio 1991, ormai più di trent’anni fa. Ancora oggi, “Pioggia di ricordi” è ritenuto una tappa importante per i lungometraggi anime, soprattutto per l'originalità della tematica proposta, dal momento che la vita sentimentale di una office lady di quasi trent'anni era e tuttora è un soggetto piuttosto insolito per un film di animazione. “Pioggia di ricordi” esplora un genere che all’epoca si pensava tradizionalmente non adatto all'animazione: un dramma realistico scritto per gli adulti, indirizzato soprattutto alle donne. Il lungometraggio, tuttavia, ebbe un ottimo successo ai botteghini giapponesi, risultando il film nipponico campione d'incassi del 1991.

Nel 1982, Taeko Okajima è una donna di ventisette anni, single, che ha vissuto tutta la sua vita a Tokyo, dove lavora come impiegata di un'azienda. Come l'anno precedente, decide di fare un viaggio in campagna, per visitare la famiglia del fratello del cognato e aiutare nella raccolta del cartamo, fuggendo così dalla frenetica vita di città. Mentre viaggia di notte in treno verso Yamagata, inizia a ricordare la sua infanzia, della scolaretta che era nel 1966 e del suo intenso desiderio di andare in vacanza come le sue compagne, che avevano tutte dei parenti fuori dalla grande città. Inizia così questo viaggio a cavallo tra il presente e il passato, due dimensioni che in più frangenti sembrano fondersi in una sola.

Nei video motivazionali che mi capitano a frotte su Instagram, si dice spesso che per realizzarsi nella vita bisogna concentrarsi sul presente e tenere costantemente l’occhio puntato al futuro. Nulla di più in contrasto con quella che è la mia filosofia di vita. Per quel che mi riguarda, il passato è una parte fondamentale dell’esistenza di ogni uomo e donna. Questo lo sa bene Taeko, la protagonista di “Pioggia di ricordi”, un film interamente basato sull’alternanza tra due diversi piani temporali: passato e presente. Nel presente, Taeko è una donna di quasi trent’anni che ancora deve trovare la sua via. Un lavoro ce l’ha, ma non sembra soddisfarla più di tanto, così come la vita di città, e di sposarsi non ne vuole proprio sapere. Il presente di Taeko, per usare un eufemismo, è incerto. Stesso dicasi, chiaramente, per il futuro. Forse, proprio per questo motivo, in viaggio sul treno verso Yamagata, consapevole del fatto che la sua vita non abbia preso la piega desiderata, Taeko comincia a ricordare il passato, più precisamente il periodo della quinta elementare. Al pari di ciò che la indurrebbe a fare uno psicologo, Taeko volge indietro il suo sguardo, come a voler cercare le possibili motivazioni che l’hanno portata lì dove si trova adesso. In molti dei momenti in cui il focus è tutto concentrato sulla Taeko bambina, il film assume dei toni certamente nostalgici, ma, il più delle volte, patetici. Taeko, all’epoca della quinta elementare, vive un momento cruciale della propria vita, in cui comincia a conoscere il suo corpo, a scoprire l’interesse per i ragazzi e ad entrare in conflitto con le sorelle maggiori. La famiglia di Taeko non se la passa male, ma, come da usanza, la bambina vede spesso passarle di mano oggetti e indumenti precedentemente appartenuti alle sue sorelle, e questo non le va molto a genio. Inoltre, Taeko, da buona sorella minore, è una bambina viziata, a cui il padre, unico uomo di casa, concede quasi sempre tutto. D’altro canto, il padre, autentico martire di una famiglia interamente composta da donne, è un uomo tutto d’un pezzo, a cui non si deve assolutamente mancare di rispetto e che non bisogna mai far alterare, e questo Taeko lo sa molto bene. “Pioggia di ricordi” offre, quindi, uno spaccato realistico di una famiglia giapponese degli anni ’60, con le sue dinamiche interne e sfaccettature, ricordandomi in questo “I miei vicini Yamada” dello stesso Isao Takahata. Ed è interessante notare come, in entrambe le pellicole, ci sia la nonna, un personaggio grandioso, membro della vecchia guardia, che ho particolarmente apprezzato, perché parla poco e dice sempre cose giuste. In questo quadro, dove a fare da sfondo sono la casa e la scuola elementare, assistiamo a pochi momenti della vita infantile di Taeko, della cui importanza, però, la ragazza si rende conto soltanto nel presente. Takahata ci suggerisce che, se questi ricordi non fossero stati realmente importanti, sarebbero rimasti nell’inconscio di Taeko, invece di riemergere in superficie.

Dunque, nel passato, Taeko cerca e trova risposte per il presente, in cui si allontana dalla vita di città, per trascorrere qualche giorno in campagna, dove conosce il semplice e solare Toshio, fanatico dell’agricoltura biologica, che fa uno dei discorsi sulla natura più interessanti che abbia mai ascoltato. La campagna è bella e affascinante, soprattutto per chi viene dalla città. Elogiarla, però, significa anche esaltare gli sforzi dell’uomo. La campagna si presenta in un certo modo, fiorente e rigogliosa nel film, perché gli uomini, per generazioni, vi hanno lavorato con dedizione, fino a plasmarla in ciò che è oggi. La campagna è questo connubio perfetto tra natura e uomo, di cui spesso Takahata e Miyazaki ci hanno parlato nei rispettivi film. Un autentico inno, dunque, quello del regista giapponese. Una breve parentesi in cui ci parla di un argomento a lui molto caro. Il presente di Taeko è scialbo, perché tante cose non girano nel verso giusto. Forse, e dico forse, la ragione di ciò, non tutta ma una parte, la si può quindi ritrovare nel passato, quando Taeko era una bambina viziata, sempre troppo distratta e con la testa fra le nuvole. Eppure, per citare il grande maestro Oogway, ieri è storia, domani è un mistero, ma oggi è un dono, per questo si chiama presente. Il presente è adesso e va vissuto senza rimorsi, indipendentemente da ciò che è stato e ciò che sarà. Questo Taeko arriva a comprenderlo alla fine del film, impreziosito da una scena finale di una bellezza rara e sconcertante, una delle migliori che io ricordi in assoluto, in cui i due piani temporali, per la prima e unica volta, si sovrappongono fino a diventare tutt’uno. Perché, è bene ricordarlo, non può esistere il presente senza il passato e viceversa.

Tecnicamente, il film è superbo. L’idea di alternare i fondali bianchi e poco delineati del passato con quelli chiari e pieni, in cui dominano i colori verde e azzurro, del presente l’ho trovata a dir poco geniale, come a voler suggerire che i ricordi di Taeko siano leggermente sbiaditi. Solo la casa familiare, infatti, appare perfettamente delineata. I disegni sono di grandissima fattura, così come le animazioni, e ancora mi stupisce l’attenzione maniacale ai dettagli, grande leitmotiv dello Studio Ghibli, come il particolare della rugiada sulle foglie di cartamo. Pregevole la regia di Takahata, molto abile nell’ampliare e perfezionare la storia originale di partenza. Molto buone anche le musiche, per quanto, a mio avviso, si senta la mancanza dell’intramontabile Joe Hisaishi.

Chiusa finale. Mi raccomando, vedetevi “Pioggia di ricordi”. Non ne resterete delusi.