Lucca 2018: kimono al cioccolato di Torino e sakè artigianali in degustazione
Il nostro reportage sugli incontri organizzati a Japan Town dall'Ambasciata del Giappone in Italia e non solo
di zettaiLara
Quest'anno durante la rassegna lucchese abbiamo seguito per voi alcuni incontri davvero peculiari, organizzati dall'Ambasciata del Giappone in Italia e da Firenze Sakè.
Kurara, la figlia di Hokusai e lo stilista Tomita Nobuaki
Volta a promuovere la cultura giapponese in Italia, nonché gli interscambi tra i due Paesi, nell'ambito di Lucca Comics & Games l'Ambasciata del Giappone è giunta proponendo la proiezione dello speciale episodio prodotto da NHK "Kurara - La figlia di Hokusai": si tratta di una bella fiction di ambientazione storica realizzata in alta definizione 4K, curata nei minimi dettagli anche a livello estetico.
Proprio il curatore dei costumi della fiction, lo stilista di kimono e designer Nobuaki Tomita, è stato ospite a Japan Town durante la rassegna lucchese: è stata così organizzata una cerimonia di vestizione del kimono con il pubblico piuttosto diversa da quanto avviene di solito, e questo perché i costumi indossati e portati appositamente dal Giappone possiedono la duplice caratteristica di essere tessuti in condizioni particolari e di essere talmente di pregio da poter essere visti raramente tanto in Giappone quanto all'estero.
Nobuaki Tomita è originario di Kyoto, e a 27 anni ha fondato la sua azienda: da allora è divenuto ambasciatore della cultura giapponese nel mondo, organizzando seminari e workshop legati a tessuti e kimono. Hiyoko Hiroshima è giunta al suo fianco come assistente per la vestizione delle fortunate "modelle" italiane, scelte tra il pubblico dei presenti al suon dell' "alzata di mano più rapida di tutte".
Il sensei Tomita ha portato con sé modelli di kimono normalmente utilizzati nel mondo dello spettacolo, molto preziosi e difficili da ammirare persino in Giappone, tanto più se indossati da qualcuna.
Secondo l'opinione del sensei, un kimono non si può soltanto far vedere, lo si deve anche fare indossare affinché possa svelare la sua bellezza per intero.
Il primo modello indossato è un hakama, da parte dell'assistente nonché "valletto" dello showcase: si tratta di un pantalone utilizzato dagli uomini e che di norma i giapponesi di oggi non riescono più a indossare da soli, come invece è riuscito abilmente a fare l'assistente del sensei Tomita. Lo vediamo nella foto qui sopra, assieme al maestro Tomita.
Il secondo modello indossato arriva invece direttamente dalla Ginza Fashion Week, evento di moda durante la quale tutto il quartiere omonimo di Tokyo è stato colorato dalle fantasie di questo kimono, ispirato al periodo Taisho (1912-1926). Sotto al documento la modella indossa un nagajuban, la cosiddetta sottoveste o biancheria intima necessaria prima di poter vestire il kimono. E' un modello che rappresenta l'eleganza della donna durante quell'epoca, ovvero all'epoca un tale kimono era ritenuto "oshare," ovvero all'ultimo grido.
E' il turno della vestizione di una maiko, avvenimento che di norma è privato poiché ha luogo nell'hanamachi, all'interno delle okiya (le case ove risiedevano le geisha). Si tratta dunque di una pratica che potremmo definire "intima, e che avviene in un ambiente raccolto. Di norma la preparazione richiederebbe 45 minuti; se ne possono usare anche soltanto 15 in verità, accelerando le operazioni, tuttavia è evidente che il risultato ne risente, e per questo il maestro Tomita scegli di mostrare una vestizione completa, facendo vestire al contempo un'altra modella con un nuovo kimono a fianco della maiko. Apprendiamo nel frattempo una curiosità legata all'obi: là dove vediamo comparire uno stemma sul fondo dell'obi, capiamo si tratta di quello dell'okiya, proprio come se identificasse una sorta di "casata di appartenenza".
Kimono al cioccolato di Torino: ebbene sì, possiamo ammirare persino un abito del genere. Il retroscena della nascita del kimono deriva da un altrettanto curioso aneddoto: l'epidemia del baco da seta avvenuta in Europa è stata ciò che, di fatto, ha portato a stabilire le prime relazioni tra l'Italia e il Giappone. Gli italiani successivamente giunti in Giappone alla ricerca di bachi da riportare a casa, hanno offerto in dono del cioccolato di Torino ai giapponesi. Per questo motivo, nove anni fa, il sensei Tomita ha desiderato creare un kimono tessuto con il cioccolato e che ne riprende persino gli aromi. Due anni fa ha avuto l'onore di indossarlo anche la sindaca di Torino, tuttavia all'epoca il kimono aveva purtroppo infine perso la sua fragranza; per questa ragione Tomita-san ne ha creato uno nuovo, nel quale ancora persiste la fragranza del dolce materiale utilizzato per tesserlo.
In questo momento apprendiamo una curiosità sulla necessità di stringere il kimono in vita con l'obi: al sensei Tomita viene talvolta mossa l'osservazione di essere particolarmente severo nei confronti dei suoi modelli maschi, e di mostrarsi invece compassionevole nei confronti delle donne. Il motivo è presto detto: si deve operare una stretta vigorosa della fascia in vita, sin quasi a far trattenere il respiro. Ecco perché il sensei ha confessato di non aver cuore di dover fare ciò a delle modelle, mentre invece si attiva inflessibile con i suoi modelli maschi.
Kimono da uomo: in molte scene chi indossa questo kimono è un personaggio della yakuza o un grande possidente che ad esempio viene accoltellato, o incappa in gravi incidenti. Ci possono essere scene di azione e colluttazione, ed il kimono deve saper reggere anche a queste scene, quindi a possibili strattonamenti od altro. In particolare questo kimono è stato indossato dall'attore Ken Watanabe (L'ultimo Samurai) durante le riprese di una suo lavoro.
Kimono tinto con le fragole di Tochigi (nella foto qui sopra, sulla destra). Si tratta di fragole pregiate, il cui costo a confezione è piuttosto elevato: il maestro ne ha comprati 15 chilogrammi e utilizzati la metà per il kimono, mentre ha confessato di aver divorato i restanti. La tecnica è quella dello Yūki-tsumugi, una tecnica di produzione della seta laboriosa nonché molto diversa dalle consuete. Trae il nome della città di Yuki nella prefettura di Ibaraki, e uno scampolo del tessuto costa milioni di Yen. Nishijin-ori è invece una particolare tecnica di tessitura del broccato utilizzata per l'obi, derivante da un quartiere di Kyoto di cui reca il nome.
Kimono che utilizza foglie d'oro (nella foto qui sopra, sulla sinistra): si tratta di ben quattro strati sovrapposti. La tecnica è definita higashi honganji, e anch'essa proviene da un celeberrimo tempio buddista di Kyoto. Il kimono vale ben due milioni di Yen e le decorazioni appaiono in rilievo come se si trattasse di toccare ben quattro kimono sovrapposti l'uno all'altro.
L'ultimo è un costume per la moglie dello shogun, realizzato con un tessuto che non veniva riprodotto da 80 anni, e che veniva tessuto nell'ohoku, la stanza dove risiedevano le concubine.
Sia la moglie del generalissimo che la maiko vengono quindi invitate a posare i piedi in un riquadro apposito di tela, nel quale tutti gli altri presenti non possono entrare, a simbolo del prestigio delle cariche rivestite dalle due donne.
Come curiosità finale, prima di permettere ai presenti di ammirare tutti i kimono uno di fianco all'altro, il sensei Tomita rivela en passant che nel teatro kabuki la scelta dei costumi è rigorosissima: da ben 430 anni infatti sono già definiti "sulla carta" quali costumi e quali decorazioni debbano indossare determinati attori che rivestono determinati ruoli.
Come a dire che la personalità conta ma la stoffa, qui intesa nel senso più letterale del termine, conta altrettanto.
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Introduzione e degustazione di Sakè con Firenze Sakè
L'incontro nella Cappella Guinigi di Japan Town è stato tenuto da Firenze Sakè, realtà fondata nel 2004 e nata con l'intento di rispondere a una domanda: "che cosa si intende con 'stappare una buona bottiglia di sakè giapponese' "?
La risposta apre un intero ventaglio di curiosità legate al mondo di questa bevanda tipica giapponese, che approfondiamo una per una.
Nella foto sottostante vediamo una sugidama, una palla di cedro collocata all'esterno di una sakeria quando si inizia la produzione di nuovo saké: mano a mano che le foglie verdi mutano in tinte marroni, è segno dell'invecchiamento del sakè in corso.
Le cantine di sakè
Innanzitutto ci viene anticipato che il sakè è un qualche cosa di vivo, prodotto in inverno, e che chi lavora in quest'ambito trascorre fino a sei mesi completamente lontano dalla famiglia.
Un paragone con l'Italia e le sue innumerevoli cantine dedicate al vino non è improprio: in una cantina di sakè si ritrovano odori di fermentazione così come tanche in acciaio, e si tratta di odori e profumi simili a quelle delle nostre cantine, nonché riflettono una vera e propria espressione di un territorio.
A farci capire che tra Giappone e Italia qualcosa è diverso sono però i numeri: le cantine dedicate al sakè nel Paese del Sol Levante sono 1241, alcune piccolissime, composte da appena un paio di persone. In Italia, per un confronto, basti pensare che ne abbiamo invece circa 330.000.
"Sakè" è comunque un nome improprio, poiché in Giappone definisce tutte le bevande alcoliche; ciò che noi chiamiamo sakè per i giapponesi è il nihonshu, ovvero "alcolico giapponese".
Fasi di produzione del sakè
Il sakè oggetto del seminario a Cappella Guinigi è il sakè Junmai, ovvero di riso puro, creato senza aggiunta alcuna di alcool, se non quello derivato dalla fermentazione del riso.
Gli elementi fondamentali per produrlo sono essenzialmente tre: il riso, il koji e i lieviti.
1. Il riso: il sakè è una bevanda che si ricava solo dal riso "locale", ovvero sito nella stessa prefettura o territorio in prossimità di una cantina. Il riso subirà poi un intero processo di lavorazione e raffinazione.
2. Il koji è definito "muffa nobile, muffa nazionale"; possiamo richiamare alla mente la produzione del mirin, dello shochu, della salsa di soia, tutti prodotti in cui interviene il koji. Poiché il riso è amido, non viene metabolizzato dai lieviti; di conseguenza serve un medium che trasformi il tutto in zucchero/glucosio, e questo è precisamente il koji, il quale cresce proprio sul riso.
3. I lieviti: trasformano il tutto in alcool e anidride carbonica, ovvero consentono la fermentazione.
Ma come avviene in concreto la produzione?
1. Il riso si pianta tra i mesi di maggio e giugno, all'incirca;
2. il riso assorbe elementi e minerali tipici del territorio, nonché di chi lo coltiva. L'abilità della 'mano' di un padre, piuttosto che di quella del figlio, a volte è determinante;
3. si può fare sakè anche da riso edibile, ovvero da tavola; oppure anche da riso italiano, come è avvenuto con l'esperimento fatto in occasione di Expo 2015. Tuttavia di norma il riso utilizzato è riso per sakè, definito sakamai.
4. la raccolta del riso avviene tra settembre ed ottobre, e ciò rimanda a quanto avviene con la vendemmia del vino. Il riso viene portato in un magazzino per far stabilizzare umidità e temperatura, quindi certificato e selezionato, infine raffinato (la cosiddetta ri-molatura). La buccia, ovvero la crusca del riso, contiene infatti proteine e lipidi, che interagiscono con gli altri elementi coinvolti nella fermentazione e potrebbero dunque portare a gusti nel sakè non richiesti.
Ci viene raccontato che i coltivatori di riso giapponesi di norma hanno gli occhi che brillano quando possono mostrare il loro riso a chi desidera vederlo, perché per loro tale prodotto è gioia, è ricchezza, è vita: è tutto, in una parola.
5. Il riso viene lavato e ammollato prima di essere cotto a vapore nel koshiki, una sorta di vaporiera, una pentola di acciaio coperta da un telo. Essa può stipare tra i 500 e i 700 chilogrammi di riso alla volta, e chi visita una cantina alle sei del mattino si accorgerà ad esempio che la koshiki per quell'ora è già giunta alla sua seconda lavorazione del giorno!
6. una parte del riso viene destinata alla produzione del koji, un'altra parte invece alla fermentazione. E a partire da questo momento ci si addentra nel cuore della "magia" che porterà ad ottenere il sakè.
Il cuore della lavorazione del sakè
KOJI (Aspergillus oryzae, o koji-kin)
Per il koji si impiega circa un 23% di tutto il riso che serve alla lavorazione del sakè. Si necessitano di 48 ore almeno, durante le quali si lavora in un ambiente isolato della cantina, dalle pareti in legno: a differenza delle fasi precedenti dunque, site all'aperto o in zone aerate e luminose, in questa fase l'isolamento è essenziale. Si tratta di far crescere una muffa in un ambiente controllato, ed è estremamente difficile.
Se il koji non riuscisse ed andasse a male, infatti, l'intera produzione di sakè si fermerebbe; non esiste margine di errore in tal senso. Lo si aggiungerà poi al lievito madre e al morimi per favorire la trasformazione di amido di riso in glucosio.
SHUBO
Letteralmente significa "madre del sakè", ricorda il nostro lievito madre. Si parte con una prima fermentazione in cui i lieviti possono riprodursi in piccolo. In un contenitore che va dai 200 ai 400 litri ritroviamo così il koji, il riso bollito, e i lieviti. In 15 giorni la madre è pronta, e i lieviti si moltiplicano.
MOROMI (lievitazione principale)
Si parla in questa fase di sandan shikomi, ovvero di un processo esclusivo del sakè a sua volta diviso in tre sotto-fasi che operano in quattro giorni nel complesso:
1. si colloca il tutto in grandi tanche della capacità di 2000 litri;
2. le tre fasi successive sono concomitanti: la shubo va nella moromi, cui si aggiunge altro koji, altro riso e altra acqua. Quindi riposo.
3. Il processo si ripete così per quattro giorni, e va organizzato molto attentamente a livello di spazi. Nelle piccole cantine ad esempio non c'è molto spazio di manovra con il quale lavorare.
In questa fase il koji trasforma l'amido di riso in glucosio, che il lievito usa per produrre alcool e anidride carbonica. L'amido in zucchero e lo zucchero in alcool quindi avvengono parallelamente, nella stessa vasca. Questo processo di fermentazione multipla parallela è una caratteristica esclusiva della preparazione del sakè.
4. Un mese più tardi il sakè è pronto per essere pressato. E' una poltiglia indistinta in questa fase, i kurabito (i lavoratori delle cantine) e il toji (una sorta di sommelier del sakè) si accorgono quando questo processo va terminando, dunque immettono un tubo e la massa viene pressata per farlo divenire sakè seishu, ovvero raffinato.
Degustazione e servizio del sakè
Far degustare il sakè in questo momento è tecnicamente illegale. Il sakè deve decantare, e in questa fase non è invece ancora pastorizzato.
Viene quindi immagazzinato a freddo in bottiglie a 3° fissi, oppure in tanche; può subire una o due pastorizzazioni, con una fase di riposo tra l'una e l'altra; in seguito il sakè è pronto per essere immesso sul mercato. Esiste in parallelo anche la vendita del sakè non pastorizzato (che si presenta opaco anziché cristallino), ma di fatto è un prodotto che per sua natura ha vita brevissima.
Se, inoltre, vi siete mai chiesti quanto a lungo possa essere conservata un'ordinaria bottiglia di sakè in cantina senza che essa perda di gusto e qualità, è presto detto: tre anni di maturazione sono il tempo limite per garantire un'ottima degustazione.
Vi potrebbe stupire inoltre sapere che il servizio del sakè può tranquillamente avvenire in un buon calice da degustazione per il vino: qui infatti il sakè riesce ad esprimere in completezza i propri aromi.
Tradizionalmente, invece, questo liquore veniva servito per tramite del tokkuri (una sorta di piccola fiaschetta in ceramica) nelle ochoko, tazzine in ceramica che variano da prefettura a prefettura. Ogni luogo ha sviluppato nei secoli una propria tradizione in merito, nella foto soprastante ne vediamo un esempio.
Un'alternativa è la masu, una tazza quadrata di legno che storicamente era unità di misura del riso, capace di contenere 180 grammi di riso, così come 180 ml di sakè.
E se vi fosse già capitato di poter degustare il sakè offertovi in un bicchiere ricolmo a sua volta contenuto in una masu, da cui il sakè trabocca, sappiate che siete delle persone fortunate, perché significa che siete stati ospiti oltremodo coccolati dai padroni di casa.
Quanto invece al gusto del sakè, più è raffinato il riso e più il gusto risulterà floreale e fruttato; allo stesso tempo, più il numero indicato nella bottiglia relativo alla raffinazione è basso, e più la qualità del prodotto sarà alta. Il termine seimai buai indica infatti la percentuale di raffinazione del riso; è un indice di levigatura, ci consente di sapere quanto riso rimane nel prodotto, in buona sostanza.
In Italia il sakè sta iniziando a diffondersi più che in passato; inoltre, così come in altri paesi Occidentali, sta iniziando una moda che vede il sakè miscelato con altri alcolici: una fusione che ha nel suo risultato cocktail dai sapori inediti.
L'incontro a Japan Town si è concluso "tastando con mano" quanto approfondito, ovvero con una breve ma graditissima degustazione di due tipi di sakè molto diversi tra loro.
Per approfondire ancora di più il tema del liquore tradizionale nipponico, ed in particolare la sua storia nei secoli fino ad oggi, vi rimandiamo inoltre al nostro articolo pubblicato qualche tempo fa; per chi fosse interessato invece a vederne un documentario, su Netflix è disponibile l'interessante The Birth of Sakè di cui vi invitiamo a leggere la nostra recensione.
Fonti consultate:
Lucca Comics and Games 1, 2
Firenze Sakè
Ambasciata del Giappone in Italia
Sake Company