Infoextra: Akira Kurosawa, l’imperatore del cinema giapponese
Ripercorriamo la filmografia del grande regista attraverso le schede nel database di AnimeClick.it
di bob71
"Discendo da una famiglia di samurai, ho una predilezione per i caratteri in formazione e gli uomini veri, ma non ho affatto il culto della forza. Siccome si è attratti dai contrari, mi domando se questo fascino che provo per i personaggi forti e maturi non dipenda dal fatto che mi sento un debole, un immaturo. Non c’è niente in comune tra me e uno scrittore come Mishima”
Akira Kurosawa alla macchina da presa
Giappone: anno zero
Il nome di Akira Kurosawa è senza ombra di dubbio il più citato in occidente tra i cineasti giapponesi, i suoi film sono sempre stati i più distribuiti all'estero, oggetti di culto per gli appassionati di cinema e inesauribile fonte di ispirazione per i registi occidentali. All’opera di questo autore sono stati dedicati ampi studi e la complessità della sua filmografia, unita alla ricchezza del suo lessico cinematografico, lo hanno reso uno dei più importanti registi di tutti i tempi.
Dal 1943 all’anno della sua morte, Kurosawa ha diretto una trentina di film, alternando setting in costume ad ambientazioni contemporanee e offrendo una visione dell’uomo mai retorica o stereotipata, fortemente caratterizzata per la sua orientalità e al contempo intimamente legata alla tradizione culturale occidentale. Il regista mette al servizio di un umanesimo ideale il suo accentuato senso plastico, il dinamismo delle scene, la direzione degli attori, la regia impeccabile e il montaggio di cui si occupa personalmente.
Appartenente alla generazione successiva a quella dei vari Mizoguchi, Kinoshita, Ozu, etc., anche il cinema di Kurosawa raggiunse la sua massima notorietà nei fortunati anni Cinquanta. Il Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1951, premiando il suo Rashomon, rivelò all’occidente l’esistenza di un cinema giapponese, che si credette dedicato unicamente ai samurai. A questo proposito scrisse nel 1959:
“Quando ricevetti il gran Premio di Venezia, osservai che sarei stato più felice, e che il riconoscimento avrebbe avuto un maggiore significato per me, se fosse stato assegnato a una delle mie opere che avesse mostrato qualcosa del Giappone contemporaneo, così come Ladri di biciclette aveva mostrato uno spaccato dell’Italia dell’epoca. (…) perché il Giappone ha prodotto film contemporanei che valgono quanto il film di De Sica, pur continuando a produrre anche film storici, eccellenti e non, e che sono in gran parte tutto ciò che l’Occidente ha visto, e continua a vedere del cinema giapponese”
Due scene tratte dai film L'angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949)
In effetti Rashomon rappresenta una parentesi in una serie di film che rientrano in uno scenario strettamente contemporaneo. Prima del Leone d’Oro, Kurosawa aveva già realizzato otto film “realisti” fra i quali ricordiamo i più significativi nel raccontare il degrado e la decadenza morale della Tokyo del dopoguerra: L’angelo ubriaco (1948), Il duello silenzioso (1949), Cane randagio (1949) e Scandalo (1950).
Ne L’angelo ubriaco già compaiono gli attori prediletti dal cineasta: Toshiro Mifune, nel ruolo di un giovane gangster arrogante e sprezzante ma con un lato nascosto molto umano, e Takashi Shimura, un medico alcolizzato sulla strada della redenzione che presta i suoi servizi in uno dei quartieri più degradati della città. I due personaggi rappresentano due facce di una stessa medaglia, quella dell’ambiguità morale che oscilla tra il bene e il male e che caratterizza il periodo storico del Giappone dopo la disfatta bellica. Emerge con intento fortemente simbolico il contrasto visivo tra giorno e notte, luminosità e buio, che sottolineano l’alternanza tra angoscia e voglia di rivalsa dei personaggi. Le vicissitudini di una vita difficile non impediscono ai due personaggi di avere un sogno, anche se basta davvero poco per mandarlo in frantumi.
Il duello silenzioso ha ancora una volta come protagonista un medico. Questo ha contratto la sifilide mentre operava un paziente e deve scegliere tra la possibilità di crearsi una famiglia (con il rischio di trasmissione della malattia ai suoi congiunti) o restare tristemente solo, con la propria missione di medico.
Cane randagio parla di un giovane poliziotto a cui viene rubata la pistola: angosciato dall’idea che questa potrebbe essere usata in molti delitti comincia un’odissea tra i quartieri malfamati alla ricerca dell’arma. Il film rovista tra le macerie di un’umanità imbestialita dalla recente esperienza bellica. Partendo dal presupposto che la scelta degli uomini in questi anni bui sia quella categorica fra il bene e il male, il regista infarcisce la narrazione con una serie di congiunture e situazioni conflittuali talmente complesse da aprire un ampio ventaglio di sfumature intermedie fra le due posizioni morali.
Scandalo, ambientato nel mondo della stampa scandalistica, chiude una tetralogia che dipinge a tinte fosche ma tremendamente realistiche il periodo di transizione del Giappone devastato dalla guerra: disordine morale, caotica fusione tra cultura nipponica e cultura occidentale, un popolo allo sbando, verità distorte, tante sfaccettature di una società che fatica a rialzarsi, ma che ha anche una forte carica vitale e un grande desiderio di rinascita. Scandalo è un film diviso in due parti: la prima descrive come viene fabbricato uno scandalo; nella seconda il regista devia il tema per raccontare il destino edificante dell’avvocato intrallazzatore Hiruta, un personaggio patetico e impastato di sentimentalismo che, dopo una vita di piccole truffe ed espedienti, si converte a una vita più onesta grazie alla presenza della figlia paralitica. Scandalo contiene scene di grande cinema come la delirante sequenza del veglione di Capodanno che anticipa il clima de I bassifondi e la patetica veglia funebre di Vivere: frugando tra quei campioni miserabili di una subumanità di vinti la cinepresa riesce a catturare tutta l’amarezza e il ridicolo della condizione umana.
“Tra la storia giapponese del dopo guerra e quella italiana ci sono delle curiose analogie. Le due nazioni uscivano da esperienze consimili (il fascismo, il patto d’acciaio con la Germania), la liberazione è stata un’autentica esplosione liberatoria. Anche noi abbiamo sentito il bisogno imperioso di dire le cose in maniera diretta, non meraviglia quindi che certi nostri film del primo dopoguerra somiglino ai film neorealisti. I film di quell’epoca irripetibile hanno tutti una freschezza e una violenza straordinarie”
Toshiro Mifune e Masako Kanazawa in Rashomon (1950)
A ciascuno le sue menzogne
Dopo questi impietosi squarci sulla società contemporanea, nel 1950 Kurosawa porta sullo schermo due racconti brevi di un lucido e caustico scrittore del primo novecento, Ryonosuke Akutagawa. Rashomon e Nel bosco, pubblicati nel 1915 e nel 1921, sono rifacimenti moderni di antiche leggende medievali. Nella radura di un bosco viene trovato il cadavere di un samurai; davanti a un tribunale invisibile vengono chiamati a deporre i testimoni (un taglialegna che ha trovato il corpo, un monaco e una spia della polizia che ha casualmente catturato il bandito Tajomaru), seguono nell’ordine le confessioni dei tre protagonisti del fatto di sangue (il bandito che si auto accusa del delitto, la donna del samurai e lo spirito del samurai evocato da una sciamana). Ognuno dà una versione diversa dei fatti, ma stranamente si accolla la colpa dell'assassinio, salvo poi far ricadere le responsabilità morale su uno degli altri. Rashomon non è solo la trasposizione dei due racconti: nella parte conclusiva il regista introduce un’ultima, quarta confessione che lascia allo spettatore il compito di districarsi nel labirinto delle molte menzogne e mezze verità. Il finale umanitario modifica radicalmente il messaggio nichilista dello scrittore morto suicida e al pessimismo sulla bussola morale degli uomini si contrappone la scelta altruista del taglialegna che adotta un bambino abbandonato per allevarlo insieme ai propri figli. In questo film di ambiente storico il modo di trattare i vari tipi umani non si discosta poi tanto da quello usato nelle opere di ambiente contemporaneo, facendone un ritratto (riflesso in un passato mitico) della stessa società alla deriva. La struttura narrativa del film è agile nei suoi quattro atti, corrispondenti alle varie confessioni visualizzate in ampi flashback e seguite da altrettanti intervalli di riflessione sotto l'antica Porta di Rasho, flagellata dalla pioggia battente, dove si svolge anche il preludio e la conclusione. La colonna sonora consiste in una variazione sul tema del Bolero di Ravel, con i suoi ipnotici e ripetitivi arabeschi armonici.
“Non ci sono molti personaggi femminili nei miei film perché mi trovo più a mio agio con quelli maschili, ecco tutto. Anche le donne dei miei film hanno un carattere forte, come gli uomini. Io amo le cose estreme. Non mi piacciono le vie intermedie”
Yoshiko Kuga e Masayuki Mori in una scena de L'idiota (1951)
Il senso dell’esistenza
Dopo il successo internazionale di Rashomon, Kurosawa torna a raccontare la contemporaneità con L’idiota (1951), liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Dostoevskij, che però non bissa gli stessi risultati di critica e di pubblico.
Sempre nell’ambito del gendaigeki, Vivere (1952) è considerato come uno dei film più riusciti di Kurosawa e fra i migliori dell’intera storia del cinema mondiale. La scoperta di avere una malattia mortale costringe il protagonista del film (che per alcuni versi ricorda Umberto D. di De Sica) a tirare le somme e fare un bilancio della propria vita, a rimpiangere le occasioni perse e a tentare in extremis di dare un senso alla propria esistenza. La scelta su come investire le sue ultime energie ricade sulla costruzione di un parco giochi per i figli della povera gente che così potranno godere di un posto ameno e tranquillo. Purtroppo però deve vedersela con l’ottusa burocrazia kafkiana dell’amministrazione pubblica, i conflitti di interessi e soprattutto la diffusa indifferenza, ma l’uomo è così determinato da impiegare tutti i suoi mezzi e le sue energie pur di ottenere il risultato. Quando alla fine ci riesce e la morte lo porta via, il film si apre a una nuova fase in cui gioca sul concetto di verità relativa: tutti coloro che lo hanno conosciuto in vita cercano di spiegare il suo gesto, analizzandolo da diversi punti di vista; le donne del popolo lo acclamano come filantropo; il merito della costruzione del parco gli viene sottratto da un’abile manovra politica; L’immagine dei burocrati dal cuore d’oro viene disintegrata dal finale con il ritorno alla sconfortante normalità dell’indifferenza. Avventura interiore di un uomo comune che lotta contro la morte e il fallimento della propria esistenza, ritratto sarcastico di una categoria sociale (i burocrati), Vivere ci sorprende ancora oggi per la varietà e la profondità dei temi trattati, l’audacia della struttura narrativa, la sconvolgente carica emotiva che lo affiancano a “film-bilancio” più celebrati della storia del cinema come L’ultima risata, Quarto potere, Umberto D., Il posto delle fragole. Lirismo e satira, grazia e crudeltà, realismo ed espressionismo si fondono in una sintesi prodigiosa. Takashi Shimura conferisce al personaggio del capoufficio un’intensità chapliniana e gli si perdona qualche eccesso melodrammatico quando, a dispetto della malattia, riesce a comunicarci tutta la sua forsennata voglia di vivere.
“Primo, scrivere una buona sceneggiatura; se l’ossatura di una storia non è solidissima tutto è compromesso. Io ho sempre scritto personalmente i miei film insieme a dei collaboratori; se si vuol diventare registi, la prima cosa da fare è padroneggiare la scrittura”
Primo piano di Takashi Shimura in una scena di Vivere (1952)
Guerra e pace
Il 1954 è l'anno de I sette samurai, un’altra pietra miliare nella produzione del cineasta, un concentrato di spettacolarità da molti considerato il capostipite dei moderni film d’azione. Grazie al corposo budget messo a disposizione, Kurosawa ne trae un’opera magistrale, una sinfonia di personaggi, paesaggi, pathos, energie atmosferiche, inquadrature e tecniche di montaggio, il tutto tenuto insieme da una sceneggiatura solida e inossidabile. La perfezione formale e l’incalzante ritmo narrativo che sfocia nella poderosa, epica battaglia finale, hanno ispirato più o meno direttamente un numero imprecisato di produzioni occidentali rendendolo uno dei film più famosi della cinematografia mondiale. Il film narra di un villaggio di contadini vessato da una banda di predoni che sistematicamente saccheggiano il loro raccolto e violentano le loro donne. Stanchi delle continue irruzioni i villici chiederanno aiuto a un manipolo di ronin vagabondi. Al di là degli scontri all’arma bianca, il film si concentra sui duelli psicologici e sulle lotte intestine fra gli stessi samurai, e fra samurai e contadini che non riescono a vincere la diffidenza reciproca. Rimasto per molto tempo il film giapponese più costoso mai realizzato, I sette samurai ha una storia produttiva alquanto travagliata. A causa delle inclemenze climatiche le riprese si protraggono per mesi facendo lievitare i costi, ma l’autore non è disposto a sacrificare la sua ispirazione ai capricci atmosferici. Quando i produttori bloccano il film per aver esaurito i preventivi, il regista gli mostra il girato intimandogli di farglielo terminare. In seguito dichiarerà:
“Con I sette samurai mi sono fatto la fama di regista spendaccione. Io dico solo questo: se non avessi girato il film con tanta cura, la Toho non avrebbe incassato tutti quei soldi.
Al cinema povero io non credo.”
Al cinema povero io non credo.”
Toshiro Mifune in primo piano ne I sette samurai (1954)
Peccato che i produttori si vendicheranno sul film finito: i 200 minuti della copia originale saranno ridotti a 160 per le sale giapponesi e a 130 per l’esportazione. Sebbene privo di un terzo del suo potenziale I sette samurai riscuote all’estero il maggior successo mai ottenuto da un film giapponese, tanto che i soliti americani ne riproporranno presto un remake: I magnifici sette di John Sturges del 1960, a colori e con attori più spendibili commercialmente, incasserà cinque volte di più, pur saccheggiando di sana pianta i primi due atti del dramma e facendo quasi scomparire i veri protagonisti del film, i contadini. Bisognerà attendere ventisei anni perché un distributore francese riproponga la copia originale nel 1980, poi trasmessa in Italia sul primo canale della Rai. Le qualità visive di Rashomon qui si ritrovano decuplicate in un grande affresco corale, ricchissimo di episodi, personaggi, toni e registri narrativi. Nell’edizione integrale ha il ritmo e la bellezza formale di Ejzenstejn, e la vitalità dei migliori film di John Ford, da cui trae alcuni temi decisivi (la solidarietà, la celebrazione antieroica degli eroi), la chiarezza e la semplicità del racconto, la comicità picaresca e l’umanità dei personaggi.
Cheiko Naniwa in una scena de Il trono di sangue (1957)
Le vie del male
Nel 1957 Kurosawa firma Il trono di sangue, un jidaigeki ispirato al Macbeth di Shakespeare, riletto con le tecniche del tradizonale teatro No, e incentrato su Washizu, leader di un clan disposto a tutto pur di ottenere il controllo di un castello feudale. L’idea di filmare in abiti giapponesi il Macbeth è venuta a Kurosawa leggendo la storia nazionale:
“L’epoca delle guerre civili è molto simile a quella descritta da Shakespeare, al punto che anche da noi è esistito un personaggio come Macbeth; non mi è stato quindi difficile trasporre il dramma in ambiente giapponese; ho girato il film come se fosse una storia giapponese del XVI secolo.”
Per ridurre alle sue linee essenziali il dramma della degradazione morale del “guerriero che volle farsi re”, Kurosawa elimina tutti i personaggi di contorno e concentra l’azione in tre ambienti simbolici: il Forte Nord, il Castello e la Foresta. In quest’opera la natura diventa materiale narrativo primario nelle mani del regista che la fa partecipare costantemente alla messa in scena, non solo come teatro dell’azione ma anche come allegoria del percorso mentale, intricato e labirintico del protagonista e della sua vanità. Kurosawa gestisce il repertorio shakespeariano con totale controllo della materia letteraria, da profondo conoscitore delle culture orientale e occidentale riesce a fonderle in un’unica soluzione, passando da un immaginario all’altro con sapienza e disinvoltura. Eliminando la voce off (che caratterizza le versioni di Wells e Polanski), i dialoghi e i monologhi vengono sostituiti da invenzioni visive e dalla tecnica espressiva del No:
“La semplicità, la forza, la concentrazione del dramma richiamavano alla mia mente il No. Gli attori del No si muovono il meno possibile, comprimono le loro energie, perciò il minimo gesto produce un’emozione intensissima. Le espressioni degli attori del mio film corrispondono a quelle delle maschere del No”
Il misterioso titolo originale (Kumonosu-jo – Il Castello della Ragnatela) allude all’oggetto del desiderio del protagonista, quel Castello che diventa un vero personaggio, come la nebbia e la foresta. Il regista l’ha fatto costruire ex novo nella località più nebbiosa del paese alle pendici del monte Fuji, e l’accesso impenetrabile è protetto da un labirinto naturale, una selva oscura dove si perdono sia i nemici che i generali più esperti. Il trono di sangue è probabilmente la più intensa trasposizione cinematografica di un dramma shakespeariano. Kurosawa permette a un occidentale di riconoscere Shakespeare e a un orientale di ritrovarvi un film giapponese storicamente documentato. La perfezione formale, algida e quasi astratta, fa del Trono di sangue l’opera più coraggiosamente sperimentale del maestro, ma sotto la patina di ghiaccio pulsa una vitalità barbarica che crea orrore senza ricorrere all’armamentario dei film horror. Comparando il rigore de Il trono di sangue con il furore visionario di Ran (a sua volta ispirato al Re Lear) non si può non ammirare la versatilità di un autore che ha saputo filmare Shakespeare molto meglio di tanti i registi occidentali (a esclusione forse di Orson Wells).
"Non ha molto senso fare delle liste, però è ovvio che ogni autore ha delle predilezioni. Nella mia lista dei “fari” non possono mancare Ford, Renoir, Ozu, Mizoguchi, Naruse, Bergman, Visconti, Antonioni, Fellini… In letteratura Dostoevskji, Tolstoj, Shakespeare…”
Una scena de La fortezza nascosta (1958)
Avventura allo stato puro
La versatilità di Kurosawa viene ribadita nel successivo I bassifondi (1957), adattamento de L’albergo dei poveri di Gorkij, in cui la Russia imperiale viene sostituita dal Giappone di epoca Tokugawa. Questo jidaigeki è totalmente privo di scene d’azione, con un’ambientazione claustrofobica in cui convivono e sognano un futuro migliore i protagonisti del racconto: una prostituta, un attore, eccetera.
La spettacolarità e l'azione vengono recuperate con il film del 1958, La fortezza nascosta, ultimo film prodotto dalla major Toho con grande dispendio di mezzi e sostanze. Agli interni claustrofobici de I bassifondi si contrappongono le formidabili e ariose scene in esterno girate in Cinemascope (sistema di ripresa panoramica, utilizzato dal 1953 al 1967 e basato su lenti anamorfiche al fine di ottenere larghi fotogrammi in formato 2,35:1). Seguiamo le avventure del generale che deve scortare una principessa minacciata dai suoi nemici che vogliono depredarla. Il film mette insieme un riuscito mix di tecnica cinematografica, un certo grado di intrattenimento e un felice equilibrio tra le dinamiche dei personaggi: una formula vincente che sarà apprezzata e messa in pratica anche da George Lucas nella realizzazione del suo celeberrimo Guerre Stellari. Opera numero 18, La fortezza nascosta è il film più libero, disimpegnato e divertente della sua carriera. Le scoperte delle fantastiche possibilità offerte dal Cinemascope consentono a Kurosawa di allargare letteralmente gli orizzonti, di far “esplodere sullo schermo la bellezza del paesaggio”. Il successo commerciale gli consentirà di creare una propria casa di produzione e gli permetterà di mettere in cantiere un’opera di grande impegno civile (I cattivi dormono in pace, 1958). Non ha la tensione ideale, la ricchezza di motivi e la complessità di I sette samurai, né la sottigliezza e la rabbiosa ironia di Yojimbo, ma certi pezzi di bravura nel gestire le masse di comparse e le scene d'azione (un duello coreografico fra i più impressionanti del cinema epico, la tumultuosa rivolta notturna degli schiavi, il rituale dei danzatori intorno al gigantesco falò) basterebbero da soli a farne un’opera memorabile e un divertimento di alta classe.
A proposito del film George Lucas scrive: “I film di Kurosawa sono talmente carichi di energia che fanno venire voglia di fare del cinema”
Toshiro Mifune di spalle nella scena clue di Yojimbo - La sfida del samurai (1961)
La stilizzazione della violenza
Dopo aver fondato una propria casa di produzione indipendente, la Kurosawa Productions, il regista torna al gendaigeki in un film impegnato sulla società contemporanea negli anni del miracolo economico. Nel 1960 gira I cattivi dormono in pace, ambientato nel mondo dell’alta finanza con diverse sequenze memorabili ed invenzioni sceniche ad effetto. Negli anni Sessanta gira altri quattro film: Yojimbo - La sfida del samurai (1961), Tsubaki Sanjuro (1962), Anatomia di un rapimento (1963) e Barbarossa (1965).
In particolare, Yojimbo - La sfida del samurai avrà un’inattesa eco internazionale e sarà involontariamente all’origine del genere spaghetti western. La vicenda è ambientata non più nel XVI secolo ma nell’era Tokugawa, dopo due secoli di immobilismo sociale e culturale che hanno modificato profondamente gli ideali della classe samuraica: i signori della guerra che non sono riusciti a trovare un impiego stabile, vivono di espedienti, spesso diventano guardie del corpo di giocatori e avventurieri, vendendo i propri servigi al miglior offerente. Il protagonista si chiama Sanjuro, ed è appunto uno di questi ronin (ennesimo ruolo per Toshiro Mifune) assoldato contemporaneamente da due fazioni in lotta di un piccolo villaggio. All’inizio il samurai sembra spinto unicamente da motivi materiali ed egoistici, ma col passare del tempo si rivela un formidabile giustiziere volto a sterminare tutti i “cattivi” di entrambi gli schieramenti. Nel nuovo contesto storico, il rigido codice del bushido non ha più senso. Gli ideali dei ronin non possono essere più quelli umanitari ed eroici de I sette samurai. Il protagonista di Yojimbo (alla lettera guardia del corpo) combatte gli scellerati con le loro stesse armi: astuzia e “cinismo”. Un cinismo che però rende molto moderno il personaggio e ispirerà il diabolico avventuriero Joe (Clint Eastwood) di Per un pugno di dollari. La superba prova d’attore di Mifune, nel ruolo dell’implacabile ronin, gli vale il premio al Festival di Venezia. Al successo della pellicola contribuisce la direzione della fotografia da parte di Kazuo Miyagawa, che ritorna a collaborare col maestro dai tempi di Rashomon, e la colonna sonora sarcastica che rielabora liberamente la seconda rapsodia ungherese di Liszt con clavicembalo. Con Yojimbo, Kurosawa ci offre una parabola sulla cupidigia, una sferzante e divertente parodia della violenza, il cui potenziale viene notato da Sergio Leone che plagerà il soggetto e ne trarrà un western coi fiocchi, interpretato da attori americani e con il leggendario commento musicale di Ennio Morricone. Pensando che il remake non verrà mai distribuito all’estero, Leone non si preoccupa di pagare i diritti alla Toho che gli farà causa vincendola, ma il suo film in Technicolor ottiene un successo internazionale inaspettato e senza precedenti.
In Giappone, Yojimbo riscuote grandi incassi al botteghino e i produttori premono sul regista perché dia un seguito alle avventure del ronin Sanjuro e nel 1962 è la volta del film omonimo, Tsubaki Sanjuro. Preoccupato dal fascino oscuro che il personaggio del vendicatore esercita sui giovani, in questo nuovo film Kurosawa insiste sulla furbizia dell’eroe più che sulla sua capacità di maneggiare la spada, e il protagonista sembra portare alle estreme conseguenze (ai limiti della parodia) la caratterizzazione del protagonista di Yojimbo, proponendolo in una versione più umana, piena di tic e difetti, ironica e vagamente femminilizzata (in giapponese suonerebbe come Sanjuro delle Camelie). La sua nuova missione non è più quella di spingere all’autodistruzione i due clan rivali, ma di fare da mentore ad un gruppo di nove scatenati samurai, pieni di buone intenzioni ma assolutamente sguarniti di esperienza e di prudenza. La dialettica tra impulsività e astuzia è alla base di Tsubaki Sanjuro: il messaggio che viene fuori è quello di non combattere se non quando strettamente necessario (laddove si brandiva la katana senza pietà) e che il valore di un uomo si manifesta nella capacità di contenere il proprio istinto più che nelle sue doti da guerriero. Il film condivide inoltre la stessa antieroica visione del codice del bushido e l’amore del regista per un certo cinema d’azione occidentale.
Al centro: Toshirō Mifune nel ruolo di Gondo in Anatomia di un rapimento (1963)
Delitto e castigo
Tre anni dopo, Kurosawa torna all’ambiente di attualità girando un giallo liberamente tratto da Ed McBain, Anatomia di un rapimento, film che narra del facoltoso uomo d’affari Gondo a cui viene richiesto un riscatto da un rapitore che sostiene di aver sequestrato suo figlio proprio in un momento delicato della sua carriera. Ma c’è stato un tragico errore, il bambino è in realtà il figlio del suo autista: Gondo dovrà decidere se pagare o portare a termine la transazione commerciale che insegue da una vita. Il film (che in originale si intitola Tengoku to jigoku - Tra cielo e inferno) si sposta significativamente dall’alto delle mura dorate della villa in collina (dove si consuma il dilemma morale del protagonista) al basso delle strade sporche e malfamate in cui si muove il rapitore (dove si aggirano i tossicodipendenti e la merce umana ha un valore relativo). L’occhio attento della cinepresa di Kurosawa si infila in ogni vicolo di questi quartieri con un’esplorazione visiva meticolosa scandita dal ritmo del montaggio. Mutuando dal romanzo personaggi e situazioni, il cineasta adatta il soggetto alle sue corde e la storia del sequestro sui generis diventa un pretesto per una nuova indagine sul male, il delitto, la complementarietà dei destini umani, i legami segreti tra vittima e carnefice. Dostoevskij viene riletto alla luce di McBain.
Dopo tre film di samurai e due gialli, il regista torna al mondo dei bassifondi, popolato da miserabili e indigenti. Ispirato a un romanzo di Shugoro Yamamoto, Barbarossa si svolge negli ultimi anni del periodo Tokugawa e vede protagonisti ancora una volta due medici, il giovane e promettente Yasumoto, formatosi sui precetti della medicina occidentale, e il più anziano dottor Barbarossa che dirige una clinica per casi disperati nei bassifondi di Tokyo. Si tratta di un racconto di formazione tutto giocato sul rapporto tra maestro e discepolo che, dopo le dure esperienze sul campo, rinuncia all’ambizione per seguire la vocazione. Quest’opera segna la fine del sodalizio tra Kurosawa e Mifune, uno dei più riusciti della storia del cinema.
“Do una grande importanza al sonoro. Il cinema non è solo immagine: è il risultato della moltiplicazione di immagine e suono. Il momento in cui aggiungo il sonoro – i miei film sono quasi interamente post-sincronizzati a partire da suoni registrati in diretta – è uno dei più eccitanti per me”
Maksim Munzuk e Jurij Solomin in una sena di Dersu Uzala (1975)
Gli anni difficili e la rinascita
Barbarossa ottiene un discreto successo di pubblico, insufficiente però a rimborsare le spese di produzione. La critica lo acclama ma i produttori se ne allontanano spaventati dall’intransigenza e dal perfezionismo dell’imperatore. Segue uno dei periodi più bui della carriera del regista, che rimarrà inattivo per cinque anni prima di tornare a dirigere, e da quel momento in poi dirigerà solo un film ogni cinque anni. Fra difficoltà di ogni tipo (soprattutto finanziarie) è il tramonto dell’epoca delle grandi produzioni per Kurosawa. Fallisce anche la sua candidatura alla regia del colossal americano Tora! Tora! Tora!, una ricostruzione storica dei retroscena della battaglia di Pearl Arbour. Discutendo con alcuni amici registi (Kinoshita, Ichikawa e Kobayashi) Kurosawa arriva alla conclusione che l’unico rimedio alla crisi è fondare di una casa di produzione indipendente che si chiamerà appunto I quattro cavalieri.
Il primo progetto messo in cantiere è Dodes’ka-den (1970), primo film a colori di Kurosawa, ambientato in una bidonville, che chiude la cosiddetta “trilogia della miseria” con I bassifondi e Barbarossa. Tratto ancora dagli scritti di Shugoro Yamamoto, il film si colloca nella contemporaneità, nel quartiere più depresso di Tokyo, all’epoca la capitale più inquinata del pianeta. Nel secolo e mezzo che separa la capitale giapponese de I bassifondi da quella dei primi anni Settanta, c’è stata una regressione, un drammatico salto indietro verso una realtà degradante a metà strada tra la baraccopoli di Miracolo a Milano e quella post pasoliniana di Brutti, sporchi e cattivi. Dodes’ka-den (che nella copia originale dura ben quattro ore) è un film senza precedenti per Kurosawa, per la sua laboriosa struttura a incastri, l'uso espressionistico e dichiaratamente pittorico delle scenografie (colorate alla maniera di Deserto rosso di Antonioni). Scrive il critico Bernard Cohn: "Senza far dimenticare la miseria, questi colori antinaturalistici e fantastici la rendono più allucinante e atroce". L'eccellente partitura di Toru Takemitsu contribuisce a fare di Dodes’ka-den un'opera innovatrice e affascinante (che conta ancora schiere di ammiratori). Il film però è anche un clamoroso fiasco commerciale e l’autore sprofonda in una grave crisi depressiva che sfocerà in un tentativo di suicidio nel 1971.
“Ero molto depresso, mi sembrava impossibile poter vivere un momento di più”
Il flop esemplare di Dodes’ka-den obbliga Kurosawa a emigrare, accettando l’invito di una produzione sovietica da parte del regista Gherassimov. Le rassicuranti garanzie e la sua profonda conoscenza della letteratura russa, fanno superare all’autore le diffidenze verso le coproduzioni internazionali. Decide quindi di adattare i libri di memorie scritti agli inizi del secolo dall’esploratore Vladimir Arseniev pregne di un messaggio proto ecologista di scottante attualità. In Dersu Uzala (1975), un vecchio lupo della taiga fa da guida a un giovane esploratore. I due si avventurano liberi come il vento in un paesaggio incontaminato, imparano a conoscersi, si scambiano le esperienze, si salvano a turno la vita, diventano indispensabili l’uno all’altro. Al centro del meraviglioso affresco Kurosawa pone la natura in tutto il suo splendore e la cronaca delle esplorazioni diventa il pretesto per un viaggio iniziatico alla ricerca di un’armonia (ormai compromessa) tra uomo e natura. Fra gli altri premi, il film vince l’Oscar come miglior film straniero.
Tatsuya Nakadai in una scena di Ran (1985)
La splendida apocalisse
Dopo la provvidenziale parentesi siberiana, Kurosawa ritorna ai suoi soggettisti preferiti: Shakespeare e Dostoevskji. Prima lavora all’adattamento di Memorie dalla casa dei morti, ma il progetto si rivela troppo impegnativo, quindi si cimenta con il Re Lear, ma anche il progetto del suo adattamento (che sarà poi intitolato Ran) viene rimandato.
Rimanendo nel XVI secolo si concentra su uno dei più famosi generali e capi politici dell’epoca, Shingen Takeda, uno dei più convinti fautori dell’unificazione del paese. Il clan dei Takeda era riuscito a tenere nascosta la morte di Shingen grazie alla presenza di un sosia, un Kagemusha, ed è questo il titolo del film del 1980 attraverso il quale Kurosawa si ripromette di rendere omaggio ai grandi fondatori del Giappone moderno: Shingen Takeda, Nobunaga Oda (il rivoluzionario stratega militare che avveva introdotto l’uso delle armi da fuoco nel suo esercito) e Yeiasu Tokugawa (l’abilissimo fondatore della dinastia che governerà il paese per più di due secoli). Attraverso la vicenda liberamente reinventata del fantomatico sosia (un ladruncolo dalle intenzioni tutt’altro che nobili), il film è tutto basato sul tema del doppio, sull’offuscamento delle identità e sulle verità relative, e tecnicamente si distingue per le monumentali scene di massa e di battaglia. Co prodotto e distribuito in occidente da Francis Ford Coppola e George Lucas, il film si aggiudicherà la Palma d’oro al Festival di Cannes.
Ran (1985), definito da molti come il capolavoro dell’ultimo periodo, è ancora una volta una tragedia ambientata nel XVI secolo che si ispira vagamente al Re Lear di Shakespeare. Il feudatario Hidetora decide di dividere il proprio regno fra i suoi tre figli e quindi di abdicare, senza prevedere la lotta di potere che il gesto avrebbe scatenato nei discendenti, né che si sarebbe ritrovato in balia del loro egoismo. Come in Kagemusha c’è una rappresentazione cromaticamente perfetta dell’affresco generale, soprattutto nelle sontuose scene di battaglia, e nel caos di tale mondo non si fatica a leggere quello della ragione e dell’identità. Nella costruzione a tratti misogina dei personaggi che aveva contraddistinto altre opere del maestro, la causa di ogni male viene individuata nella figura della moglie del primogenito (una sorta di rilettura del personaggio di Lady Macbeth), la persona che rivela maggiore astuzia e capacità di governare le proprie passioni, anche se per un disegno di potere. La discesa agli inferi di Hidetora, il machiavellismo di Jiro, la diabolica sete di vendetta di Kaede, la follia collettiva della guerra sono evocati con una potenza espressiva, una crudeltà, una forza visionaria eccezionali. L’intensa partitura mahleriana della colonna sonora scritta da Toru Takemitsu ci fa rimpiangere che questo musicista non abbia collaborato più spesso con il regista.
“Parlando di sogni Dostoevskji sostiene che sono l’espressione visiva dei nostri desideri e delle nostre angosce sepolte nel profondo di noi stessi. Incuriosito da questa osservazione ho voluto saperne di più sull’argomento e ho cominciato a prendere nota dei miei sogni. Leggendo quelle pagine, degli amici mi dissero che dovevo farci un film; e così quello dche doveva essere solo un oggetto di studio personale è diventato un film, che si intitola appunto sogni”
Di fronte Richard Gere in una scena di Rapsodia in agosto (1986)
La rosa rossa di Nagasaki
“Sogni, Rapsodia in agosto, Madadayo, cercano di parlare in maniera sommessa del cuore dell’uomo: il rispetto (dell’altro, della natura), la gentilezza, la comprensione reciproca, la riconoscenza, l’amicizia, l’umanità insomma, sono la cosa più importante per l’uomo. Se sono riuscito a comunicare questi sentimenti sono felice”
Kurosawa è ormai ottantenne quando realizza Sogni (1990), seguito a distanza di un anno da Rapsodia in agosto, due film che racchiudono in sottotesto l’ossessione di una nuova esplosione nucleare, non del tutto avulsa dal suo cinema. In Sogni, il filo conduttore degli otto episodi di cui è composto è quello dei desideri dell’uomo nei confronti della civiltà, e naturalmente il fungo atomico è una delle aberrazioni di tale società di cui il regista non riesce a disperdere il ricordo. La poesia e la persuasione onirica che l’opera raggiunge nel suo insieme le fanno meritare un posto tra i migliori film giapponesi del decennio.
Così come riaprire dopo cinquant’anni, le ferite lasciate dalla guerra nella psiche dell’anziana protagonista di Rapsodia in agosto, poteva significare affondare nel patetico o risvegliare miti nazionalistici, mentre Kurosawa ne ottiene un nuovo, lirico omaggio alla memoria, impostato su un linguaggio molto distante da quello dei suoi noti capolavori virili del passato, e se possibile, intimo come il diario scritto da una donna.
È evidente ormai che il cineasta ha deciso di raccontare in toni pacati piuttosto che rinfocolare trionfalmente dei miti come aveva fatto in passato. La sua ultima opera prima della morte, Madadayo (1993), è un film celebrativo: non solo della figura dello scrittore Uchida Hyakken, quindi del suo rapporto con i discepoli, ma anche della poesia haiku e della musica, fulcro dell’opera di Uchida, il rifiuto della morte quando l’età avanza, l’enfasi della parola rispetto all’immagine (tra i film di Kurosawa è quello con più dialoghi). In un certo senso celebra anche la carriera del regista, segnando la tappa dei cinquant’anni di carriera dietro la macchina da presa. Evidentemente non un buon auspicio per l’autore, che non è riuscito a realizzare altri progetti che aveva in cantiere, tra i quali un nuovo jidaigeki.
“Mi chiamano l’imperatore, nel mio paese, ma non ho mai chiesto a nessuno di uccidersi per un mio film!? Mi considero piuttosto uno schiavo, lo schiavo del cinema. Certo nel mio mestiere sono molto esigente, ma Mizoguchi lo era molto più di me, e poi quale buon artigiano non lo è?
In ogni modo mi piace molto invitare gli amici e i collaboratori a cena, per vedere dei film, bere e scherzare insieme. Stare insieme in compagnia è la cosa che mi piace di più fare dopo fare dei film”
In ogni modo mi piace molto invitare gli amici e i collaboratori a cena, per vedere dei film, bere e scherzare insieme. Stare insieme in compagnia è la cosa che mi piace di più fare dopo fare dei film”
Dipinto di Akira Kurosawa per lo story board di Kagemusha (1980)
Filmografia completa (link alle schede)
- Sanshiro Sugata (1943)
- Lo spirito più elevato (Ichiban utsukushiku) (1944)
- Sanshiro Sugata 2 (1945)
- Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (Tora no o wo fumu otokotachi) (1945)
- Asu o tsukuru hitobito (1946)
- Non rimpiango la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi) (1946)
- Una meravigliosa domenica (Subarashiki nichiyobi) (1947)
- L'angelo ubriaco (Yoidore tenshi) (1948)
- Il duello silenzioso (Shizukanaru ketto) (1949)
- Cane randagio (Nora Inu) (1949)
- Scandalo (Shubun) (1950)
- Rashomon (1950)
- L'idiota (Hakuchi) (1951)
- Vivere (Ikiru) (1952)
- I sette samurai (Shichinin no samurai) (1954)
- Testimonianza di un essere vivente (Ikimono no kiroku) (1955)
- Il trono di sangue (Kumonosu-jō) (1957)
- I bassifondi (Donzoko) (1957)
- La fortezza nascosta (Kakushi toride no san-akunin) (1958)
- I cattivi dormono in pace (Warui yatsu hodo yoku nemuru) (1960)
- La sfida del samurai (Yōjinbō) (1961)
- Sanjuro (Tsubaki Sanjūrō) (1962)
- Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku) (1963)
- Barbarossa (Akahige) (1965)
- Dodes'ka-den (1970)
- Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure (Dersu Uzala) (1975)
- Kagemusha - L'ombra del guerriero (Kagemusha) (1980)
- Ran (1985)
- Sogni (Yume) (1990)
- Rapsodia in agosto (Hachi-gatsu no kyōshikyoku) (1991)
- Madadayo - Il compleanno (Madadayo) (1993)
“Scomparsi i grandi registi di un tempo (Ozu, Mizoguchi, Naruse…) oggi i veri eredi della tradizione classica giapponese sono gli animatori, gli autori di disegni animati; sono molto bravi, ma all’estero chi li vede?”
Akira Kurosawa
Dinamismo nel cinema di Akira Kurosawa
Fonti bibliografiche ed estratti da:
Un'autobiografia o quasi, Akira Kurosawa, Luni Editrice
Akira Kurosawa, Aldo Tassone, Il castoro
Storia del cinema giapponese, Maria Roberta Novielli, Marsilio
Il cinema, Georges Sadoul, Sansoni